Paolo Pecere si occupa di filosofia e letteratura. Tra i suoi saggi "La filosofia della natura in Kant" (2009), "Dalla parte di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015) e "Il dio che danza. Viaggi, trance e trasformazioni" (2021). Suoi racconti sono comparsi su "Nazione indiana" e "Nuovi argomenti". Ha pubblicato due romanzi, "La vita lontana" (2018) e "Risorgere" (2019), e il manuale "Filosofia. La ricerca della conoscenza" (2018, con R. Chiaradonna). Il suo ultimo libro è "Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra" (2024).
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el maggio del 1931, partì per l’Africa una spedizione etnografica francese guidata da Marcel Griaule, che avrebbe attraversato dall’Atlantico al Mar Rosso, da Dakar a Gibuti, fino al 1933. All’epoca della massima estensione dell’Impero coloniale, l’etnologia francese realizzava una delle sue imprese fondamentali. Ma l’Africa fantasma, il diario che il trentenne Michel Leiris scrisse durante quella spedizione e pubblicò nel 1934, conteneva solo in piccola parte un resoconto etnografico obiettivo. Era piuttosto – scriveva Leiris – una “cronaca personale”, un “diario intimo”, che conteneva una serie di annotazioni asciutte sugli eventi quotidiani, quasi del tutto prive di considerazioni scientifiche adatte a un’opera divulgativa, e di qualsiasi concessione al gusto pittoresco del “romanzo d’avventure” o del “racconto di viaggio” per aspiranti turisti. Spiccavano soprattutto gli sfoghi dell’autore sui propri oscillanti stati d’animo, inframezzati da tirate critiche contro il colonialismo e a rivelazioni sui tanti veri e propri furti con cui i francesi si erano assicurati il bottino di migliaia di oggetti per il rilancio dei loro musei.
Tutto questo spiazzò moltissimo Griaule, che con Leiris ruppe ogni rapporto, e spiazza ancora oggi. Non soltanto, al culmine del colonialismo europeo, ne dissolveva ogni entusiasmo e ne mostrava la natura predatoria, insita anche nelle sue attività scientifiche. Leiris coglieva e metteva anche a nudo le segrete motivazioni e il disincanto del viaggiatore occidentale, riuscendo a comprendere con esattezza psicologica un’idea del viaggiare che, dopo quasi un secolo, è ancora tra noi. Ecco il referto della sua esperienza, che Leiris tracciava sulla quarta di copertina della prima edizione francese:
Stanco della vita che conduceva a Parigi, considerando il viaggio come un’avventura poetica, un metodo di conoscenza concreta, una prova, un mezzo simbolico per fermare la vecchiaia percorrendo lo spazio per negare il tempo, l’autore, che si interessa all’etnografia in ragione della portata che egli attribuisce a questa scienza nella chiarificazione dei rapporti umani, prende parte alla missione scientifica che attraversa l’Africa.
Che cosa vi trova?
Poche avventure, studi che prima lo appassionano ma che presto si rivelano troppo disumani per soddisfarlo, un’ossessione erotica crescente, un vuoto sentimentale sempre più grande. Malgrado il suo disgusto per i popoli civilizzati e per la vita della metropoli, verso la fine del viaggio egli aspira al ritorno.
Il suo tentativo di evasione si è rivelato fallimentare ed egli, tra l’altro, non crede più al valore dell’evasione.
La delusione era doppia: quella per l’altrove esotico in cui Leiris aveva sperato di trovare una rinascita sentimentale, e quella per il mondo capitalistico da cui voleva fuggire, poiché “il capitalismo tende sempre più a rendere impossibile ogni rapporto umano”. Lo stato d’animo di Leiris, che durante il viaggio pensava all’Europa investita dalla Crisi economica del ’29 e dall’ascesa dei fascismi, era dominato da “depressione” e “cupi presentimenti circa la prossima guerra”. A settembre del 1931, raggiunto in un isolato villaggio dalle lettere e dai dispacci dall’Europa, annotava: “Chiuse le borse di molte capitali, l’Inghilterra sull’orlo della rovina, disordini un po’ dappertutto. Il fallimento dell’Occidente si avverte ogni giorno di più; è la fine dell’era cristiana”.
Come ricorda Barbara Fiore, nel suo saggio conclusivo alla nuova edizione italiana – riccamente annotata – dietro queste posizioni c’era il surrealismo, a cui Leiris era legato fin dalla metà degli anni Venti. Nel surrealismo francese, il rifiuto della razionalità occidentale coincideva con una ribellione politica al colonialismo e alla sua immagine di un mondo addomesticato, per cui alle Esposizioni di Parigi si esibivano gli “indigeni selvaggi” come animali esotici, vantandosi di portarli sulla via della civiltà. Tutto questo era inseparabile dall’estetica primitivista, che avrebbe conquistato Picasso, Mirò, Masson e tanti altri, e lo stesso interesse etnografico ne era parte integrante. “Di colpo” – scriveva l’etnologo Alfred Métraux ricordando quegli anni – “i popoli esotici venivano a confermare in qualche modo l’esistenza di aspirazioni che nella nostra cultura non si potevano esprimere”.
Ma quali aspirazioni? Se gli artisti di Parigi guardavano all’Africa per un azzeramento dei canoni estetici classici e una violenta rinascita espressiva, Leiris si concentrava sui bisogni affettivi e erotici che il viaggiatore sperava di soddisfare. Vagheggiava di stringere legami più autentici, e al tempo stesso riferiva con piatta franchezza della pratica, comune al personale delle colonie, di cercare nelle donne africane una facile soddisfazione sessuale. Lui stesso non l’avrebbe realizzata, frenato da pudori morali e timori igienici. In compenso – seguendo un percorso perfettamente freudiano – nel diario raccontava i suoi sogni e i suoi rimpianti: “atti mancati, avventure mancate, coiti mancati”. Ecco i “fantasmi” che lo ossessionavano e infestavano la sua idea dell’Africa.
Attraverso l’impossibilità di realizzare le fantasie con cui era partito, Leiris raccontava anche il fallimento della globale e disastrosa richiesta narcisistica dei colonizzatori. Lo faceva senza entrare apertamente sul piano del discorso politico e antimperialista (che avrebbe invece accentuato negli anni successivi), se non per cenni rapidi o obliqui, come nel passaggio in cui immagina di unirsi a una futura rivoluzione anticoloniale, o nel racconto di come sul battello che navigava sul fiume Niger un membro della spedizione mise sul fonografo la Sagra della primavera di Stravinskij: particolare grottescamente incongruo che anticipa quanto Werner Herzog avrebbe fatto fare al suo Fitzcarraldo (nel film omonimo del 1982), che mette su un disco di Caruso mentre risale un fiume inesplorato dell’Amazzonia.
Ma non era tutto qui. L’interesse etnografico di Leiris era intatto e autentico di fronte alla riscoperta del “sacro”, incontrato soprattutto in due momenti del viaggio. Il primo fu la visita ai villaggi dei Dogon su una falesia del Sudan francese (l’attuale Mali), una zona isolata che ancora pochi anni fa – quando l’ho visitata – corrispondeva in modo sorprendente a quella vista dai francesi nel ’31, ed è tornata inaccessibile a causa dell’instabilità politica. La spedizione incontrò allora, per la prima volta, una delle culture più isolate del pianeta: Griaule ne raccolse la complessa cosmologia nei suoi colloqui col vecchio sacerdote cieco Ogotemmeli, da cui avrebbe tratto un classico dell’etnologia come Dio d’acqua (1948); Leiris fu catturato dalle cerimonie con le maschere, come il dama, nelle cui scene e danze si rappresentava il passaggio dalla vita alla morte, e in genere l’intero ordine cosmico. Accompagnate da una lingua segreta e immaginaria che fece la gioia del surrealista, Leiris vi avrebbe dedicato poi un importante studio.
L’altro momento-chiave del viaggio, a cui è dedicata una consistente parte del diario, è il soggiorno a Gondar, in Abissinia (oggi Etiopia), dove Leiris trascorre diverse settimane a studiare le cerimonie di possessione dello zar. Leiris va vivere in un accampamento di capanne con una corte di posseduti che danzano roteando la testa, vanno in trance, bevono e sacrificano animali. Le cerimonie sono guidate dalla guaritrice Malkam Ayyahu, che a sua volta “canta, balla, incarna un numero infinito di personalità, corrispondenti agli zar che la abitano”, e prova a negoziare con gli spiriti che “cavalcano” gli uomini.
Il resoconto di Leiris sullo zar ha lasciato il segno. Si appassionò e al tempo stesso dubitò della sincerità di quelle trance, violente carnevalate che gli parevano a volte mirare a secondi fini, come quello di ottenere un po’ di denaro e carne da consumare insieme al Bianco. Esaminò criticamente il potere psicologico della magia, osservando che le sue guarigioni non funzionavano e che, spiegando ogni atto con l’intervento degli spiriti, toglieva ogni responsabilità al singolo; ma nello stesso tempo ne ammirò la funzione di sostegno psicologico che nella sua società d’origine era perduta: “Non c’è dunque soluzione – commentò in una lettera – dal momento che le cose belle sono false e quelle vere sono piatte”.
Infine, individuò la specificità di quell’esperienza proprio nella sua ambivalenza psicologica, nel suo essere al tempo stesso incontrollata e almeno in parte cosciente, serissima e simulata, a metà tra rito magico e teatro, aprendo la via a decenni di indagini comparative su simili pratiche culturali: il suo studio influenzò Alfred Métreaux, che Leiris accompagnò nella sua storica missione ad Haiti per studiare il vudù, Henri Jeanmarie per il suo fondamentale Dioniso (1951), che rileggeva gli antichi baccanali come feste di posseduti; partendo da Jeanmarie, vi attinse pure Ernesto de Martino per istituire un parallelo storico-etnologico tra il tarantismo pugliese e i rituali di possessione nordafricani ne La terra del rimorso (1961). Leiris fornì a tutti una chiave di lettura, riconoscendo il valore delle pratiche estatiche, passate e presenti, come forme di liberazione della coscienza da uno stato di oppressione:
Amo perfino la falsità della possessione di quelle care ragazze che introducono un po’ di fantasia chiassosa nella loro vita, sfuggono ai mariti e, grazie alla virtù dei santi spiriti, si levano fino all’irreale che fa dimenticare la stupida oppressione quotidiana.
Sullo sfondo di questo studio c’era, ancora, la “folle speranza” di un contatto umano, e il profondo senso di esclusione che Leiris provò, incapace di “esplorare fino in fondo” queste esperienze e “lasciarsi andare […] in primo luogo per questioni di pelle, di civiltà, di lingua”. In secondo luogo, c’entrava il desiderio individuale: gli piaceva una di quelle “care ragazze”, Emawayish, la figlia di Malkam Ayyahu. Era una trentenne come lui, con già due figli e un matrimonio alle spalle. Alla fine non successe niente, ma per decenni Leiris continuò a scrivere anche di lei, negli studi in cui continuò a tornare sullo zar e su quel viaggio dei suoi trent’anni.
L’Africa fantasma procede linearmente, come il racconto di una quest che si conclude senza ricompensa. Va attraversato tutto, o aperto come un oracolo del viaggiatore, per trovarvi le tante osservazioni di un autore ancora illuminante. Nella sua rappresentazione delle miserie del colonialismo europeo in Africa, il libro si collocava sulla linea di capolavori come Cuore di tenebra di Conrad, Argonauti del pacifico occidentale di Malinowski e Viaggio al termine della notte di Céline. Ma la sua frammentazione e apparente disorganizzazione, come lo stesso Leiris sosteneva lucidamente, è la forma più adeguata per giungere a un “massimo di verità” sulla frantumazione ideologica di cui resta un documento unico e fondamentale.