E inaudi ha pubblicato Flashover, il nuovo libro di Giorgio Falco. Dopo Ipotesi di una sconfitta, l’autobiografia romanzata che lo precede, si era parlato di Falco come Ottieri, Bianciardi e Mastronardi:Falco cantore del lavoro che aliena.
Pescando da quel decennio però, giustamente gli anni Sessanta di accelerazione e alienazione, il primo termine di paragone che viene in mente è il Giuseppe Berto del Male oscuro. La stessa ricerca di senso nell’accumulazione diaristica, da mettere in fila sulla pagina, e in pagine su pagine: soprattutto la stessa via che porta alla frantumazione del Super-Io in forma di padre. Se per Berto però il padre è la legge e l’ordine, un carabiniere dopotutto, per Falco l’identità del padre (e l’amore per il padre) si sovrappongono alla storia dell’azienda a cui ha dedicato la vita, l’ATM. La devozione della responsabilità, la fiducia negli altri. Falco non deve andare in guerra, come Berto, per sentirsi figlio di suo padre. Deve vivere in orario: rispettare il tempo.
In entrambi i vissuti, separati di mezzo secolo, il padre è protetto dalla divisa – e il figlio ne riconosce l’autorità. Il Super-Io come Stato-Nazione (Berto), il Super-Io come Lavoro (Falco). È necessario iniziare dalla materia di Ipotesi per capire il nodo di Flashover, che è anche nodo giuridico e storiografico: il rapporto tra l’elettricista Enrico Carella, il trentenne che nel 1996 ha incendiato la Fenice di Venezia, e il padre.
Il padre di Carella è il capocantiere della Elettrotecnica Argenti, l’azienda che ha vinto l’appalto per il rifacimento dell’impianto elettrico della Fenice. Il capocantiere subappalta parte dei lavori alla Viet, la ditta individuale del figlio.
La gara d’appalto consiste nell’essere stato procreato dal padre, nell’essere diventato imprenditore. Milioni di anni nella storia dell’umanità e siamo ancora davanti a un padre e a un figlio, un figlio ormai cresciuto, che forse non desidera nemmeno essere adulto, desidera essere
padrone, poiché in ogni padrone resta una traccia d’altro, se stesso bambino e ragazzo: ogni padrone può travestirsi da adulto.
Il figlio riesce presto a diventare padrone: non bastasse l’impianto familiare e familista, Carella assume un cugino come braccio destro, ad aiutarlo a gestire una “squadretta” che a tutti i testimoni, anni dopo, era parsa insufficiente, comica. Si avvicina la scadenza infatti, il giorno dell’inaugurazione, e la Viet è in ritardo: “ma il calendario non l’ha inventato il cugino padrone, il calendario l’ha inventato qualcuno che non aveva una ditta, altrimenti avrebbe ideato i mesi di sessanta, novanta, centoventi giorni, i mesi composti non da giorni, ma da anticipi di cassa, pagamenti posticipati, assegni postdatati”. (La sicurezza di Falco, quando assume la voce di Carella come qui sopra, si incrina: la pagina aumenta di pathos, l’eleganza ne soffre. Per riprendere un suo feticcio, l’automobile, la scrittura di Falco ha quell’odore inebriante d’auto nuova, è una berlina anni Novanta dagli interni puliti e ipnotici: quando ci appende un alberello però, capita di sentire il dolciastro. Per esempio: “Cosa significa Bmw? Cosa significa Google? Cosa significa essere se stessi?”).
La scadenza si avvicina insomma, e il ritardo accenderebbe una penale di 250.000 lire al giorno. Per un paio di mesi di ritardo si arriverebbe a 15 milioni di lire, una cifra comunque inferiore agli 81 milioni di debito che già pesano su Carella. Per alleggerirsi di questo carico, Carella e il cugino una sera di fine gennaio si nascondono nel cantiere, ammucchiano le loro vernici, i solventi e le lacche e le resine, accendono il cannello a gas; scappano.
È sufficiente fissare la luna sopra la Fenice per vedere il fumo. Un chilo di qualsiasi materiale origina quattordicimila litri di fumo; un chilo di bottiglie di plastica, contenente acqua minerale bevuta in pochi giorni; un chilo di pneumatico che ci ha condotto in luoghi abituali e sconosciuti; un chilo di un giubbotto indossato per anni; un chilo di pino marittimo secolare abbattuto per essere sostituito da un nuovo progetto immobiliare: tutti questi elementi, in apparenza così distanti tra loro, producono sempre quattordicimila litri di fumo. Strano pensare al fumo in termini di litri.
Così com’è strano pensare al tempo in termini di calore (quando c’è passaggio di calore, possiamo starne certi, c’è passaggio di tempo): ma questi sono i fatti che fanno il mondo, e il mondo fisico ne rispetta, ancora una volta, le regole: brucia tutto, travi e tavoli e palchi e sedie e tendoni e angeli, e da ogni chilo di qualsiasi cosa nasce lo stesso volume di fumo.
Carella brucia due secoli della storia culturale di un popolo, e della città più famosa al mondo, perché è in ritardo con le consegne. Oggi, anche in redazione, le chiamiamo deadline: se superi quella linea, sei morto. In realtà, di solito, al corpo non succede niente di così esteso: ma a ogni superamento di quella linea, reiterata nei mesi e negli anni di un lavoro che corre a scadenze, si frantumano sezioni sempre più volatili di equilibrio psichico. Ci sono diversi rimedi per tutto questo, prendono tempo e auto-analisi, esistono anche soluzioni gratuite; Carella ha fatto le sue scelte, ha lasciato un cannello a gas acceso (el canèo) con la complicità di suo cugino (sò cugìn).
Prendere tempo in caso di incendio non è consigliabile. Ci vogliono pochi minuti per passare dalla propagazione delle fiamme allo stato di flashover, cioè la maturazione definitiva di un incendio. Nella propagazione la temperatura aumenta rapida, preparandosi a uniformarsi nell’incendio generalizzato: nel flashover non brucia più soltanto la poltrona, brucia tutta la sala. Non brucia solo il foyer, brucia tutto il teatro.
L’eco della musica che ha suonato per secoli alla Fenice non si sente ma esiste, è ancora presente, esiste solo nel tempo: come il fuoco, la forma della musica è il suo contenuto, ed entrambi danno direzione al tempo. Il tempo che passa è l’ossessione di tutti e di Falco, che – come Carella – si rifiuta di sacrificarlo al lavoro. Solo che Carella soffre il desiderio delle agenzie pubblicitarie, la persuasione occulta, il motore del Capitale. Falco, invece, scrive. Viene da chiedersi, però: qual è il telaio, di questo Capitale? Questa macchina del denaro che si impossessa della seconda parte di Flashover, sfigurando una trama lineare? Siamo sicuri di essere di fronte a una macchina? E se si trattasse di artigli e tessuti nervosi, quale istinto muoverebbe questo rettile?
In Ipotesi di una sconfitta al “Capitale” non si risparmia l’affetto, perché i nostri genitori sono stati anche lavoro e macchine.
In una lettera di Calvino a Giovanni Falaschi, allora giovane studioso delle sue opere, Calvino (sono anni in cui ha già scaricato Ottieri e Mastronardi da Einaudi) avvisa il ragazzo: “a una vocazione razionalistica del capitalismo non ho mai voluto credere. Oggi che il fallimento della ‘nuova sinistra’ [che Calvino aveva visto nascere dall’interno] è scontato, meno che mai ho voglia di venire a dire: avevo ragione io, dato che sono sconfitto come tutti gli altri”.
Di nuovo, la sconfitta. Il razionalismo capitalista oggi viene identificato a quello di “industria petrolifera/supremazia bianca/fallocrazia/Confindustria/Wall Street/gentrificazione”, e questi oggetti lo esprimono certo, ma la sua matrice va cercata lì dove il mondo si forma, si informa, nella furia cieca della burocrazia dei cantieri e degli obiettivi e delle scadenze, nella diffusione extra-statale di infrastrutture (intese cemento+vetro+acciaio, ma anche fibra ottica, o la rete telefonica che deve vendere il giovane Falco di Sconfitta…) che sono più forti dei governi nazionali, delle larghe intese, anche di magistratura e Costituzione. L’unica resistenza possibile è all’interno di queste infrastrutture, nelle loro pieghe.
E allora a scrittrici e scrittori, cosa resta? La via di Falco è dimostrare che a sopravvivere è l’ecfrasi della ragnatela, insomma, il racconto della rete tutta intorno, alla ricerca della logica che informa gli oggetti e le relazioni. Falco porta questa ricerca fino all’estremo, anche in Flashover. Nel libro precedente però, Ipotesi di una sconfitta, questa ricerca è di un grado più puro. Lì agli autobus che guida il padre non viene data la colpa delle malattie, gli si vuole bene anzi, perché la visione degli autobus, una volta morto il padre, è anche la visione del padre. Almeno, così mi succede quando vedo le gabbiette dell’Enel agli angoli delle strade, e penso a persone che non ci sono più.
In Ipotesi di una sconfitta quindi al “Capitale”, intesa come la mano invisibile che ci inchioda al lavoro e alle macchine, non si risparmia l’affetto, perché i nostri genitori sono stati anche lavoro e macchine; in Flashover questa verità sembra dissolversi, o è solo intermittente, forse perché il culturicidio – il rogo della Fenice – è peccato sommo, e forse perché il carnefice è un personaggio fallito, paurosamente anti-eroico, un uomo che non ha capito dove si trova (a cavallo tra la civiltà contadina/lavoratrice e quella informatica/parassita) e quale sia il suo ruolo (l’operaio, che non vive più un habitat in cui proteggersi, trovare dignità). Carella tradisce l’alleanza tra padre e figlio, tra il figlio e lo spirito che l’ha alimentato, la macchina infusa dal lavoro. Sceglie il peccato più grave: bruciare il lavoro, e i soldi (la cultura amen, non esiste).
L’idea novecentesca di Stato-Nazione e di Lavoro, i Super-Io del secolo scorso, si sono dissolti nell’aria: non sono scomparsi, hanno cambiato condizione, sono smateria che tende all’ascesa. Il testo letterario sonda queste nuvole pesanti.