G li Stati non sono solo entità amministrative, sono potere applicato a popolazione e territorio, in forme variamente simboliche o concrete. Alcuni evaporano senza lasciare traccia, come probabilmente accadrà a quelli censiti nell’Atlante delle micronazioni o a quelli non riconosciuti, come la Transnistria o l’Abcasia. Altri, già terminati, hanno lasciato tracce più o meno visibili: questione di tecnica, di tempo e di potere a disposizione nella loro durata.
Vista con lo sguardo della posterità, l’uscita di scena di uno Stato sembra soltanto un’alterazione nel tragitto di un segno di penna su una cartina, confini che mutano. Eppure (è ridondante ribadirlo in tempi di Fortezza Europa e di cimiteri mediterranei) la geografia è – ancora – destino. Le frontiere e le sorti che impongono gli Stati sono arbitrari, ma le loro conseguenze sono concrete: i tratti tirati sulle mappe determinano le vite di migliaia di persone, specie se le trasformano da maggioranza in minoranza nell’arco di una notte. Trauma esperito, per esempio, dagli ungheresi il 4 giugno del 1920: il Trattato del Trianon smembrò il loro regno, lasciando due terzi dell’intera popolazione magiara fuori dai confini della neonata Ungheria indipendente, alla mercé di nuovi e rancorosi padroni di casa – romeni, cecoslovacchi, jugoslavi. Oppure, la leggenda vuole che il profilo peculiare di Dieveniškės, regione della Lituania meridionale, ricalchi quello della pipa di Stalin, rimasta inavvertitamente sulla mappa dove si stavano disegnando i confini del patto Molotov-Ribbentrop con cui nazisti e sovietici si spartivano l’Europa di mezzo nel 1939. Nessuno osò spostarla e oggi Dieveniškės è un’escrescenza di Lituania congiunta alla madrepatria da un cordone ombelicale largo pochi chilometri. Gli invalicabili muraglioni dell’Unione Europea, i confini del paradiso per molti proibito dell’area Schengen, la isolano ermeticamente da quella Bielorussia che la inghiotte quasi interamente. Righe che si fanno barriere e incidono imperiose la pianura baltica, altrimenti sconfinata.
Eppure, per quanto repentino possa esserne il declino, quando uno Stato potente soccombe, tanto del suo apparato simbolico gli sopravvive, insieme alle prove tangibili della propria esistenza: edifici, monumenti, opere pubbliche. La mano visibile dello Stato viola e plasma il territorio in maniera irreparabile, ridisegnandone sempre la toponomastica, a volte la morfologia. Il paesaggio antropizzato è il diario privato, lacunoso e incoerente, dei soggetti statali che vi si sono avvicendati. Lo Stato resta inciso nel paesaggio, continuando a generare significati ambigui, costantemente a rischio di temibili presentificazioni. Nella dittatura del presente la tentazione di sottrarsi allo sguardo delle dittature del passato è un riflesso comprensibile – anche in Italia, come ha ricordato qualche anno fa il dibattito esploso riguardo i monumenti fascisti. Una nazione è tenuta insieme non solo da ciò che ricorda, ma anche da ciò che dimentica, scriveva Ernest Renan. E tra ciò che è degno di esser ricordato figura molto di sgradevole: i “lieux de mémoire” studiati da Pierre Nora celebrano non di rado memorie di sofferenza collettiva, rinverdiscono agonie e soprusi inflitti alla comunità che in seguito si raccoglie per commemorare.
Sopravvissuti come ologrammi, gli Stati scomparsi sono visitabili dalla fantasia. I reportage di taglio storico-letterario dalle terre sommerse del passato sanno essere avvincenti come le peregrinazioni di Bruce Chatwin o i servizi di Marie Colvin. Penne eleganti e colte ricorrono al potere immaginifico della parola scritta per accompagnare comitive di lettori in escursioni virtuali. In Danubio (1986) Claudio Magris costeggia il secondo fiume più lungo d’Europa dalla sorgente alla foce, facendo delle sue sponde un’unica patria, fucina di estro letterario e testimonianza di convivenze possibili. In Galizia Martin Pollack ripercorre sulle vecchie ferrovie asburgiche la vita grama di un crogiuolo di popolazioni e lingue al confine orientale dell’impero. In Anime baltiche Jan Brokken illumina angoli che ora appartengono a Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia attraverso le vite dei letterati e degli artisti più celebri che quelle piane hanno generato, tra cui molti esponenti dell’occultato Reich tedesco che un tempo dominava quelle terre.
Lo Stato resta inciso nel paesaggio, continuando a generare significati ambigui, costantemente a rischio di temibili presentificazioni.
Questi reportage storici contribuiscono ad alimentare un movimento contemporaneo di denazionalizzazione della storia, di genesi recente. Come spiegato da Robert Gerwarth, autore di The Vanquished: Why the First World War Failed to End, 1917-1923 (2017): “per molto tempo l’approccio più popolare nella storiografia è stato di concentrarsi sulla storia nazonale, come se la nazione esistesse nel vuoto. Solo negli ultimi dieci, quindici anni gli storici hanno iniziato a prendere sul serio le prospettive transnazionali, paneuropee o addirittura globali e ricondurre le storie nazionali in un contesto più ampio”.
L’intuizione di Giovanni Vale, giornalista e reporter esperto di Balcani, è stata quella di applicare questa prospettiva, sempre più in voga nell’accademia e nella letteratura, a un ambito che pur avendo con storia e memoria un legame evidente non ne era ancora stato toccato: il turismo. Sono nate così le guide di paesi che non esistono più. Pensate non come un mero atlante storico da consultare a casa, ma come guide turistiche vere e proprie. La finalità, riassume il video promozionale, è andare “alla ricerca di ciò che ci unisce e non di ciò che ci divide”. Una volta in loco, il turista è invitato a visitare angoli, monumenti o edifici che ancora testimoniano della storia dello Stato estinto, proiettandosi virtualmente indietro nei secoli. Si invoglia a decifrare delle connessioni tra luoghi che ora appartengono a paesi diversi, ribaltando la logica del turismo tradizionale, che tende a esaltare l’unicità del posto, il genius loci inimitabile. La prospettiva proposta sulla realtà odierna si pone di illuminare frammenti di identità transnazionali oscurate dallo sguardo etnocentrico.
La prima guida sarà dedicata a uno Stato scomparso ufficialmente nel 1797 per mano di Napoleone dopo un’esistenza millenaria, ma tuttora presente nei Balcani e non solo: la Repubblica di Venezia. 250 pagine per raccontare quaranta cittadine in sette paesi (Italia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Albania, Grecia e Cipro), frutto di due anni di ricerca, 400 interviste e un lavoro collettivo. A ogni città è dedicato un reportage. La pubblicazione effettiva è prevista per fine 2020, ma una serie di brevi podcast online hanno anticipato alcuni degli aneddoti più interessanti, come l’etimologia del termine “ghetto”, lo stile di scrittura corsivo, il vino Malvasia.
Occuparsi, da italiano, di ciò che resta della Serenissima può prestare il fianco all’accusa di revanscismo revisionista. Per disinnescare il rischio di risvegliare imperialismi fuori moda il curatore ha scelto di condurre interviste a esperti locaIi (storici, architetti, antropologi), componendo anche un patchwork di versioni diverse sugli stessi eventi e temi. Poiché le epiche nazionali tendono di norma a esaltare gli episodi gloriosi e a trascurare quelli più riprovevoli, riunire più pareri agevola al lettore il compito di formarsi un’opinione. Inoltre, la relazione tra la potenza mercantilista che egemonizzava l’Adriatico e le sue colonie non si può ridurre a una sola dimensione. Nella stessa città di Venezia, sono rimaste tracce delle terre e delle popolazioni che costellavano il suo impero commerciale, per esempio dell’Albania.
Sopravvissuti come ologrammi, gli Stati scomparsi sono visitabili dalla fantasia.
L’aspetto più innovativo di questo progetto editoriale, completo di itinerari e infografiche, è lo sforzo di attualizzazione dell’eredità degli Stati trattati. Nell’idea del curatore, le guide non si devono limitare a illustrare le vestigia dell’entità statale scomparsa, proponendo curiosità e nozioni del tempo andato, ma devono raccontare il passato come materia viva, indagando gli oggetti dai quali esso ancora traspare. Nelle guide vengono consigliati ristoranti e trattorie dove si cucinano piatti tipici della tradizione dello Stato estinto, che oggi si possono quindi ritrovare, magari rivisitati, a diverse latitudini, come il brodetto veneziano. Viene promossa l’opera di artigiani e manifatture locali che si ispirano alle tecniche antiche, o producono manufatti che richiamano motivi e stilemi delle epoche precedenti alla comparsa degli Stati attuali. Viene esplorato il lascito nel linguaggio, presentando termini rimasti in uso presso le popolazioni odierne, sovente nei dialetti, parole che tradiscono l’origine straniera, sonorità che rievocano l’antico dominatore (sulla costa dalmata si può usare “šugaman” per “asciugamano”).
Che queste guide riempiano un vuoto nel panorama della letteratura di viaggio è suggerito anche dai numeri: il crowdfunding di lancio puntava a ottenere 10.000 euro, ma ne ha già ottenuti oltre 25.000. Se il lavoro incentrato su Venezia resterà un apprezzabile unicum degno di Atlas Obscura o darà il la a una serie continuativa, come negli auspici degli ideatori, dipenderà verosimilmente dal successo commerciale. Nel secondo caso, dopo la Serenissima, sono molti i trapassati illustri in lizza: Impero Ottomano, Impero austro-ungarico, Andalusia araba e, con la sensibilità che impone il maneggiare passati recenti e incandescenti, forse anche la Jugoslavia socialista.
L’eredità ideale lasciata da uno Stato è spesso più resiliente dei suoi mausolei. Lo Stato rimane nelle prassi dei suoi ex cittadini o sudditi, frammenti delle quali si tramandano, magari diluite o risemantizzate. Attraversata ancora da numerose scosse di assestamento tra placche nazionali, l’Europa oltrecortina trabocca di esempi. Tim Judah chiama “Jugosfera” quel nebuloso ma riconoscibile insieme di consumi culturali, interazioni, idiosincrasie che ancora accomuna le nazioni che abitano gli Stati partoriti dalla frammentazione della Jugoslavia socialista. E tutt’oggi, tre decenni dopo il tramonto dell’impero più vasto dell’epopea umana, i suoi realia e le sue iconografie affratellano popolazioni distanti nello spazio. Le inchiodano loro malgrado a un prefisso che ne scioglie e offusca l’eterogeneità: “post”, inserito davanti a “sovietico”, “socialista” o “comunista”. Un fastidio che le piccole patrie affrancatasi dal giogo sopportano volentieri: è un scotto da pagare irrisorio rispetto alla vittoria conseguita.
Il secolo breve è stato ritmato dal tramonto degli imperi multinazionali, quelli che Jan Morris definisce “seductive illusions of permanence”. Si aprì con il collasso di quello ottomano, di quello austro-ungarico e di quello zarista, proseguì con la disintegrazione di quello tedesco, di quello britannico, di quello portoghese e di quello francese per concludersi con il tramonto di quello sovietico. Dalla morte di ciascuno di questi organismi complessi sono fiorite come spore cellule statali più piccole e omogenee. Nel 1918, certificato lo stato comatoso degli organismi multinazionali (in Europa), il presidente americano Woodrow Wilson aveva enunciato il principio di autodeterminazione nazionale. Si garantiva a tutte le nazioni (europee) il diritto a reclamare un pezzo di terra esclusivamente per sé.
Il secolo breve è stato ritmato dal tramonto degli imperi multinazionali.
In geopolitica, infatti, il vuoto non esiste e tutti gli stati sono transitori. Gli Stati svaniscono perché se ne fondano, o espandono, altri, nello stesso appezzamento di terreno. Può capitare che mantengano lo stesso involucro nominale, venendo però riempiti di contenuti diversi. In questi casi la popolazione liberata dall’antico oppressore si ritrova amministrata da rappresentanti, magari comprimari, della precedente classe dirigente. Burocrazia al potere, come accaduto nelle province dell’impero fondato da Lenin raccontate da Erika Fatland in Sovietistan. In Asia Centrale la fine dell’URSS non arrise ai dissidenti o oppositori al regime, bensì a ex membri della nomenklatura comunista. Costretti a riciclarsi per ripristinare la legittimità verginale del loro potere, le élite attinsero da bacini rimasti congelati durante la cattività sovietica: il mito di Tamerlano in Uzbekistan, il nomadismo epico in Kirghizistan, l’Islam in tutta la regione. Casi di invenzione della tradizione, quel processo socio-politico che scorrendo minuziosamente i passati disponibili ne ricama una continuità, cesellata di episodi e personaggi gloriosi che sovente vanno contesi ai vicini, come Carlo Magno o Nikola Tesla.
Tuttavia, il ricordo di uno Stato defunto, investito da processi di memorializzazione selettiva sempre cangianti poiché dettati da un presente perennemente in fieri, è duttile. Se la memoria collettiva predilige marmo e cemento armato per esprimersi, la sua consistenza essenziale è più simile al gesso. Non di rado, inizialmente lo Stato scomparso è oggetto di damnatio memoriae e rigetto, si scatenano furie iconoclaste per abbatterne i segni e profanarne i simulacri. In seguito, capita che questa memoria dannata si prenda la propria vendetta: la mitopoiesi la ripulisce e la innalza a paragone edulcorato ed impietoso per un presente più meschino. Fenomeni come l’Ostalgie nella Germania Orientale o la Titostalgia in ex Jugoslavia non tradiscono un anelito alla restaurazione dell’ancién regime comunista, quanto la nostalgia per un ecosistema più semplice, decodificabile, protetto. Tutte credenziali che qualunque passato, pur misero o truculento, può vantare. Già circolano, inter alia, lo spettro dell’impero romano e di quello asburgico a rammentare la caducità delle creature statali. Che ne riappaiano altri, temporaneamente squalificati dal novero degli esempi dignitosi, non è da escludersi.