L avoro nell’editoria come freelance e qualche mese fa, su consiglio di una conoscente, mi sono iscritta a un paio di gruppi Facebook per emergenti del settore: è qui che ho scoperto che, accanto alle persone che svolgono il proprio lavoro e che danno dignità a ciò che fanno per guadagnarsi da vivere, questi gruppi sono altresì il terreno di coltura di tutti quegli individui convinti che lavorare a un libro sia un gradevole passatempo per il quale non serve compenso economico, visto che è così bello “avere a che fare con le parole”, “svolgere mansioni intellettuali”, “prendere parte al processo di nascita di un testo” – tanto per citare alcune delle romanticizzazioni più in voga.
Nel corso dei mesi ho avuto modo di leggere di tutto: autori esordienti furiosi perché trovano ingiusto che editor e correttori di bozze vogliano farsi pagare quando, invece, “Questi lavori si fanno per passione e non certo per soldi”; e ho visto anche lavoratori dell’editoria e aspiranti tali proporre i propri servizi in una spaventosa corsa al ribasso scandita a colpi di “Edito 3 pagine per 1 euro!”, “Io sono un’editor seria, mentre chi vi chiede troppi soldi si approfitta della vostra arte”, “Autori, fatevi avanti! Mi sto ancora facendo le ossa e correggerò il vostro manoscritto gratuitamente”.
Perché arrabbiarsi, però? Non è pur vero che lavorare con e per passione è sempre meglio che essere occupati in settori diversi da quelli che ci interessano, per i quali sentiamo la vocazione, e per i quali siamo disposti a immolarci senza avere niente in cambio? Come scrive Bertram Niessen, sono i lavoratori dei settori creativi e culturali quelli che hanno iniziato a vivere “inseguendo un sogno di realizzazione personale in un costante equilibrismo tra la ricerca dell’autenticità (…) e l’iper-precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita”.
Come è accaduto? Questioni di ordine generale come le promesse disattese del capitalismo neoliberista, la contrazione dei sistemi di welfare e la finanziarizzazione dei processi produttivi delineano già alquanto bene la situazione in cui lavoratori di arte e cultura si trovano oggi a operare. Ma non solo di dimensione economica si tratta: il cammino verso una sempre maggiore flessibilità è stato prontamente spalleggiato dalle riforme del mercato del lavoro improntate a ridurre quelli che erano ritenuti margini di eccessiva “rigidità”: la protezione contro i licenziamenti, i sussidi di disoccupazione, il ruolo dei sindacati, la contrattazione collettiva dei salari. Questa è la realtà economico-politica sulla quale attecchiscono con maggiore facilità fenomeni di isolamento e frammentazione del fronte dei lavoratori, e la conseguente difficoltà a vedersi partecipi di una condizione collettiva.
I lavori creativi e culturali, più di altri, hanno scavalcato, con la retorica della “passione”, il discorso su diritti, compensi e minimi salariali.
Nella fattispecie, però, i lavori creativi e culturali, più di altri, hanno reso il mercato del lavoro un universo semantico dalle venature sentimentali –“passione”,“vocazione”,“emozione” – e in molte occasioni scavalcato, con questo détournement linguistico, il molto meno attraente discorso su diritti, compensi e minimi salariali. Uno degli elementi che ostacola la messa in comune delle istanze di cambiamento e delle esigenze politiche dei lavoratori di arte, cultura e spettacolo consiste proprio in questa dispersione di profili e in questa disgregazione di identità professionali.
Sarebbe ingiusto naturalmente addossare la colpa unicamente alla forza-lavoro, perché a monte di questi epifenomeni esistono ragioni strutturali tanto economico-finanziarie quanto politiche, ma è l’analisi di queste dinamiche a costituire il dato sintomatico dal quale non si può prescindere: a forza di introiettare discontinuità e flessibilità, siamo diventati tutti più proni ad accettare condizioni lavorative becere, orari massacranti, insieme alla pretesa da parte delle aziende di acquisire un numero infinito di competenze trasversali per saper fare un po’ di tutto e non rimanere indietro. Siamo diventati e continuiamo a diventare tutti ipercapaci di auto-sfruttamento e auto-dumping prima ancora che la richiesta provenga dal datore di lavoro. Parliamo di settori nei quali le chiavi di accesso favorite sembrano essere la bulimia di titoli di studio, insieme a un indefesso networking, e una formazione sempre più sofisticata ma despecializzata: per fare un esempio, al redattore oggi è spesso richiesto di svolgere anche mansioni di grafica, impaginazione e coordinamento.
Lavoratori culturali e creativi: numeri e identità
Prima di tutto, sono d’obbligo alcune cifre per delimitare quanto e come pesano oggi i lavoratori della conoscenza, dell’arte e della cultura nell’economia del Paese: al 2019, le industrie culturali, quelle creative e il patrimonio storico-artistico valgono in Italia un valore di 95 miliardi di euro l’anno, ai quali, secondo il rapporto Io sono cultura di Fondazione Symbola, vanno aggiunti altri 169 miliardi, per la capacità di questi stessi settori di “attivarne” altri contigui, per un totale di circa 265 miliardi. Sempre per lo stesso rapporto, il sistema produttivo culturale e creativo italiano dà lavoro a più di 1,5 milioni di persone. Per fare un confronto con la filiera italiana dell’automobile, secondo i dati di “Bilancio a 4Ruote”, il settore ha un fatturato di 93 miliardi di euro (5,6% del PIL italiano) e dà occupazione a 250.000 addetti divisi in 5700 imprese, molte delle quali sono Pmi.
Molti miliardi di euro e molte persone impiegate, dunque: a una prima occhiata, i settori creativi e culturali godono di ottima salute, e incrociando questi due dati potrebbe sembrare che anche lavoratori e lavoratrici partecipino di questo benefico stato di cose. Peccato che così non sia e che, anzi, parlare oggi di lavoro creativo e culturale non può prescindere dall’effetto “vaso di Pandora” scatenato dalla pandemia da COVID-19, evento che ha accelerato dinamiche già presenti ed esacerbato istanze sociali latenti da decenni nei settori di arte, spettacolo e cultura, come l’abbassamento dei compensi per gli autonomi e i tagli allo stipendio dei dipendenti, misure pretese in nome di uno stucchevole “sacrificio collettivo”.
Il sistema produttivo culturale e creativo italiano dà lavoro a più di 1,5 milioni di persone.
La pandemia è stata anche un evento che ha parzialmente riconfigurato il modo in cui i lavoratori creativi e culturali si rapportano al proprio ambiente e alla propria professione: per molti, anche approfittando del maggior tempo a disposizione, è stata un’occasione per rivendicare un riconoscimento. Non poche sono state le associazioni di categoria, le realtà auto-organizzate, i gruppi informali, le iniziative e le petizioni che hanno chiesto al governo di essere ascoltati e di accogliere le proprie richieste di tutela in termini di reddito e welfare durante i mesi di lockdown: alcune esperienze tra queste già esistevano ma hanno visto solo negli ultimi mesi una spinta propulsiva, mentre altre sono nate “sotto la stella” della pandemia. Tenere le fila di tutte le voci che si sono levate non è compito facile: le traiettorie di questa rinverdita partecipazione arrivano a divergere in modo sostanziale, nelle proposte, negli strumenti utilizzati, nella disponibilità a parlare con istituzioni e sindacati.
I piani di differenziazione, infatti, sono innumerevoli e ogni settore è segnato da specifiche fratture e criticità, che possono sollevare dubbi su quale sia il modo più opportuno per fare coalizione tra lavoratori e lavoratrici: una prima strategia ritiene sia meglio unirsi orizzontalmente, accomunati dal proprio status, come fa ACTA per i freelance che devono barcamenarsi tra compensi bassi e l’insufficienza di garanzie e welfare. La seconda che sia più auspicabile organizzarsi verticalmente, e cioè per categoria di appartenenza. Ancora, c’è chi si augura che le due organizzazioni spaziali determinino due momenti diversi di uno stesso processo di coalizione massimalista tra tutte le soggettività lavorative marginalizzate: precari, freelance, intermittenti, stagisti.
Con una mossa molto ecumenica, potremmo riconoscere di appartenere tutti al “Quinto Stato”, una concettualizzazione che trova il suo principio negli anni Settanta per indicare quella condizione, come scrivono Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, incarnata in una popolazione fluttuante, composta da lavoratrici e lavoratori indipendenti, precari, poveri al lavoro, lavoratori qualificati e mobili, sottoposti a una flessibilità permanente. (…) i quali, pur potendo dimostrare di partecipare alla
politeia, restano cittadini dimezzati perché non godono di un contratto di subordinazione e a tempo indeterminato.
Il Quinto Stato è la condizione socio-politica trasversale che abbraccia tutta la classe dei nuovi esclusi dal dibattito pubblico: non è un ulteriore strato della piramide sociale, ma rappresenta anzi la crisi del modo tradizionale di intendere le divisioni tra gruppi sociali.
Nel non lontano 2013, il concetto di “Quinto Stato” è stato riportato al centro del dibattito italiano perché così si è voluta chiamare una campagna di mobilitazione, dal nome #DICANO33, contro il ddl Fornero e contro l’aumento del 6% dell’aliquota previdenziale per i freelance: un appello che, per l’appunto, chiamava a raccolta lavoratrici e lavoratori della conoscenza, dello spettacolo, della cultura e della comunicazione, autonomi e precari del terziario avanzato, lavoratori in regime di diritto d’autore e in generale tutti quelli senza un contratto a tempo indeterminato. L’appello fu firmato da moltissime associazioni di categoria, reti, movimenti e privati cittadini, ma ad oggi il loro sito non riporta novità oltre il 2013 stesso.
Il Quinto Stato non è un ulteriore strato della piramide sociale, ma rappresenta anzi la crisi del modo tradizionale di intendere le divisioni tra gruppi sociali.
Dal canto loro, la sinistra e il sindacato hanno ignorato l’irrequietezza e la richiesta di tutela di questo Quinto Stato, convinti forse che si trattasse soltanto di un epifenomeno, e ciò ha permesso ad altri attori di approfittare del vuoto di rappresentanza. Se, però, si appoggia la prospettiva universalista che vede una possibile ed efficace unità politica tra precari, working poor e autonomi, resta da capire chi possa e debba raccogliere la sfida della frastagliata rappresentanza.
Lavoratori culturali e creativi: condizioni
C’era vita prima della pandemia da COVID-19? Per alcuni sì. Per molti settori creativi e culturali, invece, c’era spesso solo la sopravvivenza. C’è un elemento che accomuna le esperienze dei lavoratori dello spettacolo, dei beni culturali e dell’editoria che si sono mobilitati: la necessità di fare “con-ricerca”, coinvolgendo chi lavora e vive le criticità in prima persona, non è stato il corollario di un ragionamento portato avanti altrove, ma il core da cui far scaturire l’analisi del settore e le proposte avanzate, nella convinzione piena che solo attraverso il contatto diretto e proattivo il lavoratore riesca a prendere coraggio e mobilitarsi. Le realtà associative che hanno saputo cogliere le mancanze pregnanti del proprio settore hanno trasformato questo “vuoto” di senso nel “pieno” delle proprie battaglie: gli intermittenti di musica e spettacolo, il volontariato dei Beni Culturali e le tariffe da fame dell’editoria sono gli esempi plastici del terreno su cui si gioca tanto l’azione politica quanto quella di costruzione identitaria del fronte dei lavoratori.
Come riporta il rapporto “Vita da Artisti” (2017), promosso dalla Fondazione Di Vittorio in collaborazione con SLC-CGIL (Sindacato Lavoratori della Comunicazione), nel mondo dello spettacolo il 51,4% ha un’entrata annua che non supera i 5.000 € e solo il 14% ha un fondo complementare pensionistico, e moltissimi fanno fatica ad accedere alla Naspi (indennità di disoccupazione). Durante il lockdown, una vittoria è stata quella riguardo i lavoratori “intermittenti”, per i quali si sono spese molte lotte nel mondo dello spettacolo e della musica: a fronte di molte mobilitazioni in piazza e di lavoro ai tavoli istituzionali, sindacati e associazioni hanno ottenuto che nel DL Rilancio (maggio) fossero previste per gli intermittenti – cuore pulsante di arte e spettacolo – le medesime condizioni di accesso ai bonus di aprile e maggio dei lavoratori dipendenti. Il lavoro intermittente è stato inserito per la prima volta nel 2018 nel nuovo CCNL per il personale artistico, tecnico e amministrativo del teatro, che prevedeva inoltre l’aumento dei minimi salariali e l’inserimento di un protocollo d’intesa per il lavoro autonomo. Per il futuro, molte delle associazioni informali e di categoria chiedono anche che venga riconosciuto lo “status di intermittenza” come condizione intrinseca del settore, e che di conseguenza venga previsto un regime peculiare (fiscale, contributivo e assicurativo) che compensi il lavoratore a fronte della strutturale incertezza del suo lavoro.
Per ciò che concerne il settore dei Beni Culturali, l’associazione Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali nell’ottobre del 2019 ha presentato presso la Camera dei Deputati l’esito di un sondaggio composto da 1.546 testimonianze per mostrare come vive chi lavora nei beni culturali. Anche in questo caso le cifre sono grottesche: il 50% dei rispondenti dichiara di guadagnare meno di 8 € l’ora, e il 38% guadagna addirittura meno di 5.000 € annui; tanti sono i Co.co.pro, le ritenute d’acconto, i tirocinanti, i volontari del Servizio Civile, il lavoro nero come “gavetta”, nonché tanti fenomeni di apertura di partita IVA forzata da enti museali statali, e quando si è impiegati tramite cooperativa i pagamenti non solo subiscono un brusco abbassamento ma arrivano spesso a 60-90 giorni.
Se si vede una possibile ed efficace unità politica tra precari, working poor e autonomi, chi può raccogliere la sfida della frastagliata rappresentanza?
Nel 2015 il collettivo Mi Riconosci? suscita da subito un entusiasmo immediato ed esplode in fretta il numero di persone che vuole partecipare: c’era una forte necessità, sul territorio italiano, di un soggetto politico che rappresentasse gli operatori e le operatrici dei beni culturali in toto, al netto delle differenze di condizione lavorativa. Il dialogo con i sindacati è costante e tuttora in corso, ma su molti temi c’è situazione di stallo, come per esempio rispetto all’opportunità di uno sciopero generale dei lavoratori dei Beni Culturali, tema su cui con le sigle sindacali non si è giunti a un accordo nonostante le decennali situazioni di sfruttamento vissute da molti. Le loro proposte per il settore sono condensate nel progetto di un “Sistema Culturale Nazionale”: non dissimile dal Servizio Sanitario Nazionale, questo modello prevede l’istituzione di standard minimi e livelli essenziali che ogni istituto culturale dovrà rispettare, come i parametri inerenti alla qualità dei servizi e al rispetto dei diritti dei lavoratori, per accedere al Fondo e ottenere così finanziamenti.
Passando all’editoria, non si può non riconoscere in essa uno dei i settori più profondamente trasformati dalle tecnologie digitali nonché dai risvolti drammatici della crisi finanziaria globale del 2008, eventi che hanno esasperato dinamiche di lungo corso come l’instancabile ricerca di risparmio sul costo del lavoro, la compressione dei compensi, l’esternalizzazione e svuotamento delle redazioni, il ricorso programmatico e opportunistico a stage e collaborazioni occasionali. Proprio nel 2008, annus horribilis, un primo esperimento di coalizione di categoria contro lo status quo è stato quello intrapreso da Re.Re.Pre [Rete dei Redattori Precari], attiva fino al 2013, che si è mossa intorno all’area simbolica inaugurata da San Precario. Da questa fase, nel 2012, è nata l’indagine “Editoria invisibile” con la collaborazione di SLC-CGIL, che è stata di basilare importanza a fronte della cronica mancanza di dati sul lavoro editoriale. L’esperienza di Re.Re.Pre è riuscita a ottenere diverse assunzioni di precari e finte partite IVA, senza che tuttavia ci fosse il tempo (o l’occasione) di ampliare il discorso alla compressione dei compensi di chi lavora da autonomo, nonostante l’editoria sia uno dei settori più interessati dai freelance per scelta. Sì, perché in editoria lavorano soprattutto freelance e lo abbiamo visto confermato nel 2019 con il sondaggio Redacta, al quale il 93% dei rispondenti ha detto di lavorare da autonomo per più committenti.
Redacta è l’iniziativa focalizzata sul mercato editoriale di alcuni membri di ACTA, promossa da un gruppo di lavoratori che come primo passo hanno intrapreso un’auto-ricerca finalizzata ad approfondire i problemi dei lavoratori editoriali, nell’ottica di creare una coalizione e cercare soluzioni nuove. ACTA è un’associazione trasversale e multi-categoriale di rappresentanza della nuova forza-lavoro indipendente di seconda generazione, e l’esperienza di Redacta nasce proprio in questo solco, con una strategia diversa rispetto al percorso di “stabilizzazione” perorato da Re.Re.Pre, ovvero quella di tutelare la figura cardine del mercato del lavoro editoriale: i freelance. La volontà di garantire anche a questi ultimi migliori condizioni lavorative e protezione sociale non è in contraddizione con l’intenzione di contrastare gli abusi contrattuali tipici dell’editoria – primo tra tutti gli stage –, ma testimonia solo come condizioni diverse abbiano bisogno di riconoscimento e strategie diverse.
Il sondaggio Redacta ha comprovato la realtà drammatica che tanti già subodoravano: oltre il 70% dei rispondenti dichiara, ad esempio che, a fronte di una media di 40 ore settimanali, percepisce un reddito annuo lordo inferiore a 15.000 euro, mentre molti altri hanno detto di essere pagati, quando va bene, a 60 giorni (tempistica ammessa dallo Statuto del Lavoro Autonomo solo in presenza di accordo scritto tra le parti, che nei casi analizzati manca quasi sempre). Sotto il lockdown i freelance dell’editoria hanno potuto usufruire dei bonus INPS per gli autonomi, due tranche da 600 € per tutti, e il terzo da 1000 € solo nel caso di comprovato abbassamento del fatturato, ma il quadro di interventi per la filiera del libro si è concretizzato in misure di sostegno dirette esclusivamente a editori e progetti di sensibilizzazione alla lettura: in questa decisione si può forse intravedere una logica “a gocciolamento” (trickle-down), secondo la quale l’allocamento delle risorse a chi sta “in alto” favorisce necessariamente le fasce di popolazione “in basso”: logica che non trova riscontro nella realtà di chi ha visto, durante i primi mesi della pandemia, le tariffe abbassarsi e i tempi di pagamento dilatarsi ulteriormente.
Il convitato di pietra: il sindacato
Quanto espresso finora offre una fotografia parziale e tuttavia rilevante di come vive parte dei comparti creativi e culturali del Paese. Eppure nel discorso si avverte un convitato di pietra, una presenza incombente e pesante da maneggiare: il sindacato. Sebbene nessuna delle realtà di partecipazione citate nell’articolo si sia mai sottratta al dialogo con i sindacati confederali e di base, c’è tuttavia una certa convergenza nel ritenere troppo tiepidi i tentativi dei sindacati stessi e la loro mancanza di tempismo piuttosto infruttuosa (pur non mancando occasioni “felici”, come quella vista in occasione del rinnovo del CCNL per lo spettacolo nel 2018).
La scelta del sindacato è stata quella di riportare il lavoro indipendente sotto l’ordine simbolico del lavoro salariato, senza sforzarsi nella direzione opposta di riconoscimento delle tutele possibili per questa differente condizione lavorativa.
Non è un mistero, infatti, che da qualche decennio i corpi intermedi vivano una crisi identitaria e partecipativa – mostrando una certa difficoltà a essere presenti nei settori in crescita come il terziario e quello dei servizi – nonché la difficoltà di presa fra le nuove generazioni (che sovente sono anche la forza-lavoro maggioritaria e più bistrattata dei reparti culturali e creativi). Nelle parole di Sergio Bologna, storico del movimento operaio e studioso del lavoro autonomo di seconda generazione, si legge che l’occasione di dar vita a un movimento del precariato e a un’organizzazione sindacale trasversale: è andata persa perché ha prevalso nelle componenti post-comuniste ed in generale nella sinistra e nei sindacati confederali la tesi per cui il precariato va semplicemente “superato” con la stabilizzazione del posto di lavoro, cioè con la trasformazione dei contratti precari in contratti stabili, cioè con l’abolizione della figura del precario. Come si può creare “identità precaria” se l’obiettivo della lotta è quello di abolire la figura del precario? In questo modo non solo si è rinunciato a immaginare un welfare di tipo nuovo che possa rendere il precario “sostenibile”, ma si è caricato di importanza il problema della durata del contratto trascurando completamente il problema della retribuzione.
Il sindacato non ha saputo cogliere al meglio le trasformazioni del lavoro insite nei nuovi ambiti produttivi, e il ruolo centrale avuto negli anni Sessanta e Settanta appare oggi ai più “opaco” e non sufficiente a capire e garantire gli interessi delle “categorie fluide”, cittadini onorari di una società arrivata alla sua quarta rivoluzione industriale e attraversata da molteplici traiettorie di frammentazione e isolamento. Un problema storico è proprio il rapporto con il lavoro autonomo: storicamente, la scelta del sindacato è stata perlopiù quella di riportare il lavoro indipendente sotto l’ordine simbolico del lavoro salariato, senza sforzarsi nella direzione opposta di riconoscimento delle tutele possibili per questa differente condizione lavorativa.
È di pochi anni fa (2014) la vicenda dell’“equo compenso” per i giornalisti, per il quale fu costituito un tavolo di trattative tra il Governo, l’Inpgi, la Fnsi e la Fieg e il cui esito fu la somma di 20,80 € per un articolo su un quotidiano: per un giornalista che scrive 432 articoli in un anno (e cioè più di uno al giorno, festività ed estate comprese), il guadagno sarebbe stato di 6.300 €, a cui togliere il 21% di ritenuta fiscale e il 10% di contributo Inpgi, arrivando a 4.347 € netti annui. A fronte dell’incapacità dei sindacati di definire un compenso dignitoso per i giornalisti, sono dovuti intervenire due procedimenti giudiziari a dirimere la vicenda, bocciando l’iniziativa.
Se può essere ozioso chiedersi dove si sia originata la frattura – se sia mancata la possibilità di un’identità comune, di quel Quinto Stato, o se il sindacato non abbia avuto la forza per capire il nuovo Zeitgeist del mondo del lavoro – è lecito e augurabile invece guardare con occhio analitico a quello che c’è in campo oggi. Realtà auto-organizzate e di settore, gruppi informali, iniziative di stampo single issue, inchieste e sondaggi interni, riscoperta del mutualismo: nell’assenza di collanti sociali forti e del tradizionale ruolo dei vecchi corpi intermedi, il campo dei lavori creativi e culturali si configura oggi come una miscela esplosiva di percorsi diversi che stringono e allargano le maglie delle alleanze a seconda dell’occasione.
Una nuova autonarrazione
C’è bisogno però di ribadire che le divisioni sono nefaste per tutti: siamo uniti da precarietà, da tempo del lavoro e tempo della vita che si mescolano incessantemente; siamo vittime allo stesso modo della compressione di salari e tariffe e dello smantellamento del welfare. Perché non lottare per una riscoperta del mutualismo, per un welfare universale sia per subordinati che per indipendenti, per una ripoliticizzazione del discorso pubblico intorno alle professioni connesse ad arte, cultura e spettacolo, al netto del feticcio che questi reparti produttivi rappresentano? La priorità oggi, nel mondo funestato da due crisi globali che si sono passate il testimone a distanza di pochi anni, è fare in modo che si uniscano precari e lavoratori autonomi dei reparti culturali e creativi del Paese: il lavoro precario, il lavoro povero, il lavoro “gratuito” costituiscono un fatto consustanziale tanto al terziario contemporaneo quante alle professioni creative, e la situazione attuale è (anche) il prodotto dei tentativi di risolvere il problema da soli.
Il primo passo è smentire quelle persone convinte di non appartenere a un settore professionale ma di essere libere di lavorare gratis o per pochi soldi, senza tutele né margini di manovra.
Per tornare ad aver presa sulla vita dei soggetti e sul proprio lavoro, il primo livello da “sbloccare” è questo cortocircuito causato dalla persuasione che il lavoro sia una faccenda tra sé stessi e il proprio datore di lavoro/cliente, e non piuttosto un campo di forze determinato da come ognuno decide di muoversi e agire: se accetto di lavorare per pochi soldi o senza tutele, non sto solo facendo un danno a me stesso, ma sto anche creando il terreno fertile per fenomeni di dumping. Il primo passo è smentire quelle persone convinte di non appartenere a un settore professionale ma di essere libere di lavorare gratis o per pochi soldi, senza tutele né margini di manovra.
Oggi, la scommessa, per lavoratori e lavoratrici dei settori creativi e culturali è, da una parte, decostruire le romanticizzazioni dei “lavori di passione”, e dall’altra ripolarizzare il campo discorsivo, per far sì che il chiacchierio istituzionalizzato sulla “bellezza” e l’“importanza” di arte e cultura accolga un contro-discorso che parli di tutti coloro che quella bellezza la creano ma che non vedono quasi mai riconosciuta – soprattutto economicamente – l’importanza del proprio lavoro. C’è bisogno oggi più che mai di capire che la coalizione tra lavoratori e lavoratrici è la premessa necessaria per ottenere il riconoscimento economico (attraverso stage effettivamente formativi, tariffe adeguate, inquadramenti contrattuali appropriati) dei nostri lavori, la protezione da pratiche scorrette e la presa d’atto politica e sociale di ciò che facciamo, in primis da parte dei lavoratori stessi: non è un hobby, né questione di passione o di vocazione. È lavoro.