I l saggio comincia con un elenco di frasi che le donne si sentono dire continuamente: “Il tuo orologio biologico sta ticchettando. Quando avrai un figlio tuo sarà diverso / (…) / Non sei un vero adulto finché non hai un figlio. Quale donna non desidera un bambino? Dimenticherai i dolori del parto. / I bambini sono il nostro futuro. / È da egoisti! / Cambierai idea”.
Flavia Gasperetti sta per raggiungere l’epoca della vita in cui sarà “una che non ha avuto figli” e sente “la tentazione di dire che a quel punto sarò compiutamente me stessa – la persona che voglio essere”. Come invece le avranno ricordato tutti, dal tabaccaio all’analista, dovrebbe porsi il problema dell’orologio biologico. È per questa ragione che il suo saggio comincia da una piccola operazione demistificante, che è anche una parabola sull’invenzione della tradizione: “Non è stato un medico o una prestigiosa rivista scientifica a dare al termine [orologio biologico] il significato che conosciamo, ma un [meno attendibile] giornalista”. Nel 1978, in pieno riflusso culturale, Richard Cohen del Washington Post pubblica un articolo sulle “aspirazioni delle giovani donne in carriera”. È l’era della disco music, l’era in cui il mondo della comunicazione e della politica convinse la gioventù occidentale ansiosa di cambiamento a concentrare le energie su carriera e famiglia, due sogni più raggiungibili dell’era dell’acquario. Finora, “orologio biologico” lo usava la scienza per parlare di ritmi circadiani – un uso letterale. Cohen sta scrivendo un pezzo su un’astrazione giornalistica, la “Composite Woman”, quella “ragazza-mosaico” giovane, carina e impiegata, fatta di tutte le giovani intervistate nelle redazioni e gli uffici del mondo dell’informazione. Cohen, nel ruolo di confessore-intervistatore, scopre che a queste ragazze realizzate “pareva già di udire l’ineluttabile, incalzante ticchettio”. Così l’orologio biologico prende a significare un desiderio biologico di maternità. A Cohen sembra che la sua inchiesta, scrive Gasperetti, “metta nero su bianco la triste morale” che “la liberazione femminile ha, di necessità, un suo limite intrinseco, un capolinea naturale e inalterabile”.
Non è un caso che questo piccolo lampo di pseudoscienza destinato a diventare una credenza diffusa capiti nel 1978. Sono gli “anni del contrattacco, il puntuale backlash culturale che si scatena in risposta a ogni nuova e parziale conquista femminile sui piani molto cruciali della partecipazione al lavoro e/o dell’autonomia sul corpo” (la definizione citata nel libro è della giornalista Susan Faludi). Insomma, è interessante imparare che orologio biologico conquista il suo peso nel discorso sulle scelte di vita delle donne subito dopo la seconda ondata femminista, che aveva portato tra le altre cose, in America, alla “massiccia entrata delle donne in molti settori occupazionali e la storica conquista rappresentata da Roe vs Wade”, che creava “il più importante precedente giuridico nella legislazione sull’aborto, dichiarando incostituzionale, in nome del diritto dei cittadini alla privacy, l’ingerenza governativa sulla scelta di interrompere una gravidanza”. La donna è stata considerata una macchina riproduttiva per secoli prima che Rousseau proponesse “la prima canonizzazione della madre come figura deputata alla cura materiale e all’educazione dei bambini”; nel frattempo, le ragazze hanno cominciato a fare carriera, e allora il giornalista brillante – uomo – obbedendo a un richiamo oscuro, sente il bisogno di raccontare la nostalgia che queste donne avrebbero del focolare.
È una premessa talmente ridicola che c’è la possibilità di trattare la tragica questione di come le donne sono state trattate come macchine da figli per gran parte della nostra storia come una tragicommedia, una farsa. E il bellissimo libro di Flavia Gasperetti non si lascia ricattare dalle implicazioni ospedaliere, dalle madri coraggio, dai miti dell’accudimento: per conservare libertà di movimento e di ragionamento ci sposta invece sul confine fra adesione ai miti della società e tentativi di fuga. Un ambito lontano indipendente dagli automatismi retorici dei discorsi sulla mamma. Fa anzi un bel ritratto di un altro tipo di donna: la zitella. Zitella è il termine con cui si squalificava la donna che non voleva o non poteva diventare una macchina per la riproduzione, e in fondo qualunque donna che rifiuti di fare la macchina dovrebbe sentire la parentela con la figura della zitella. E infatti, se in copertina il titolo steinbeckiano lascia ai lettori la responsabilità condivisa di trovare un nome per chi non è “madre”, tra le pagine del libro Gasperetti porta in trionfo la donna che dice no, la donna “melvilliana” che preferirebbe di no, e ci ricorda che nella storia ha avuto a lungo quel certo nome.
Per tanto tempo, indossare i panni della zitella è stato visto come una condanna, la marca dell’insuccesso femminile sul mercato matrimoniale. Erano però panni che offrivano il beneficio di un certo anonimato. Se le zitelle di tanta narrativa sono per lo più figure di sfondo,
discorsive e irrilevanti, è in buona parte perché così erano considerate: irrilevanti, e questo le proteggeva come un mantello dell’invisibilità.
Madri e no (Marsilio, 2020) è un saggio con bibliografia e non un vademecum per l’empowerment. Non cerca la strada spettacolare di quell’altro modo di fare femminismo, il saggio pop, lo slogan luccicante per vendere un nuovo prodotto alle ragazze senza perdersi il disturbo di ricapitolare gli studi di genere. Quest’altra modalità le militanti la trovano corporate e individualista, temono che l’invito alle donne a ribellarsi venga appiattito e impacchettato per un pronto consumo privo di conflitto. Per Gasperetti, il modello da seguire non è la donna che entra nell’agone con gli uomini e li sbaraglia col sorriso, perfetta e performativa, ma la zitella. Non solo. Una battaglia si può combattere anche allusivamente, facendo guerriglia, dicendo Non voglio essere più competitiva dell’uomo, la proverbiale Ginger Rogers che fa le stesse cose di Fred Astaire ma al contrario e sui tacchi… Voglio essere la zitella che si fa gli affari suoi.
Siamo a un primo punto in cui il tema prettamente femminista del libro svela il potere di contagiare anche gli uomini. Striscia per tutto il libro un suggerimento a giocare con le categorie della società, cambiare il framing dei discorsi, insomma non scendere al tavolo della discussione culturale avendo accettato regole del gioco dettate da nemici e avversari (come per esempio che esista sicuramente, incontrovertibilmente un orologio biologico). Gasperetti vuole risignificare la parola zitella perché la zitella, tra le altre cose, è stata la donna che ha fatto finta di non valere niente in modo da non farsi catturare dall’uomo che la vedeva come un elettrodomestico.
Ogni società in ogni tempo ha ospitato la sua quota di vecchie mai state mogli, vergini consacrate a questo e quello, di zitelle e di scapoli, coppie misteriosamente sterili e altri elementi improduttivi; per lo più li ha ignorati e sbeffeggiati, a volte invece ne ha fatto l’oggetto di un aperto timore – basti pensare all’accusa di stregoneria, che colpiva così spesso le donne che vivevano senza uomini.
Più recentemente, le donne senza figli sono state accusate di favorire il “suicidio della razza”. E ancora oggi, le donne senza figli devono trovarsi a dare spiegazioni al barista o al ginecologo sul perché non li abbiano e su come facciano poi a riempire tutto il tempo che non impiegano realizzandosi come madri accudenti.
La profezia automatica del Cambierai idea “è il precipitato di una tenace convinzione collettiva, che pone il legame di coppia, il matrimonio e la genitorialità al vertice delle aspirazioni di vita dei più”. Prosaiche ricerche sul benessere e la qualità di vita dei single senza figli non possono scalfire una convinzione del genere, che ha a che fare più con la ricerca del senso della propria vita che con la massimizzazione del piacere; ma Gasperetti, senza abbassarsi a cercare argomentazioni contro la riproduzione – il suo libro vuole piuttosto contribuire a creare uno spazio dinamico per chi vuole fare altrimenti -, propone, tra le varie strade, di rivolgersi alle ricerche della studiosa Bella DePaulo, che studiando la letteratura scientifica sul matrimonio ha concluso che “nessuno studio ha mai dimostrato che sposarsi renda le persone più felici o in buona salute…”; i single però avrebbero “‘…relazioni interpersonali positive, durature e importanti’, spesso più di chi è sposato, dal momento che chi vive in coppia tende a coltivare reti sociali meno consapevolmente scelte (ad esempio i propri familiari e quelli del coniuge), partecipa con meno frequenza a occasioni sociali o opportunità di volontariato, è quindi socialmente più isolato e ha una maggiore probabilità di perdere di vista legami preesistenti…”.
Un altro studioso, Paul Dolan, esperto di scienze comportamentali della London School of Economics, ha scritto Happy Ever After, “una sorta di manifesto per la nostra liberazione dal mito della vita perfetta, e una pugnace refutazione di quelle che ne costituirebbero le componenti essenziali”, dove si è limitato a dire che la famiglia non influisce sul livello di soddisfazione delle persone. Oltretutto, “l’idea che i bambini dovrebbero renderci felici non è abbastanza potente da annullare il fatto che in realtà, per la maggior parte del tempo, non lo fanno”. “Crescere dei figli”, argomenta Gasperetti, “comporta infiniti alti e bassi; può senz’altro essere fonte di piacere, ma i picchi di soddisfazione percepita”, secondo Dolan, “appartengono a coloro i cui figli sono ancora molto molto piccoli e poi, retrospettivamente, a quelli i cui figli sono ormai adulti. La curva della soddisfazione invece è notevolmente più contenuta negli anni centrali della genitorialità, scende sensibilmente tra quanti hanno un reddito più basso e addirittura precipita per chi ha avuto più di due figli”. Il vero movente sarebbe la “percezione molto forte di avere uno scopo”.
Dunque abbiamo una massa di persone a cui è stato assicurato di avere uno scopo e delle persone che seguendo altre strade si sentono rivolgere l’accusa di non valere. “La società ci dice che la vita di chi è genitore ha intrinsecamente più valore di quella di chi non lo è, e questo probabilmente aggrava lo sconforto di tutti”: chi non ha figli si sente incompleto (anche le suore?, mi chiedo io, o invece per sfuggire basta avere un ruolo ben definito?); chi li ha si mortifica se “non riesce ad assaporare la felicità promessa. Nocivo per tutti, il mito resta tuttavia operante…”.
L’obiettivo di queste analisi è portare su un piano di parità le donne a prescindere da come hanno scelto di vivere. Per farlo, Gasperetti scherza con le storie, portandoci a domandarci perché certi miti e concetti diventino normativi e altri no. Capita a proposito la storia di quella volta che il Nebraska, nel 2008, varò una legge “che decriminalizzava l’abbandono di minore”. I genitori in difficoltà potevano abbandonare i figli in luoghi deputati come ospedali e commissariati. Era previsto che venisse usata per i neonati e perciò non era stata specificata l’età massima per l’abbandono. “Nello spazio di poche settimane dall’entrata in vigore della legge cominciarono ad arrivare i bambini, molti bambini, un totale di trentasei figli abbandonati solo nei primi due mesi. E però nessuno di questi bambini era neonato. Ventidue di loro avevano più di tredici anni. Un uomo arrivò a consegnare la sua intera famiglia, nove figli in tutto, il maggiore dei quali diciassettenne”. Perché questa storia incredibile non è diventata un mito?
Più che il fatto materiale di avere dei figli, la tragedia sembra venire dalle aspettative. Fare figli, la cosa più naturale del mondo purché si ceda all’attrazione sessuale e si eviti la contraccezione, si trasforma in una grande impresa culturale. Al di qua dell’impresa ci sono donne che credono nel Cambierai idea. Al di là, c’è la compagine sorniona delle zitelle letterarie di Gasperetti: “…emerge in particolare come siano in generale le donne con titolo di studio più alto ad avere progetti di vita diversi da quello di diventare genitori (il 2,9% di coloro che hanno conseguito almeno la laurea) e le occupate (2,1%)”. Questo gruppetto di “laboriose zitelle mi dà gioia. Quanto conforto nel constatare che non siamo poi del tutto cambiate, che siamo ancora come ci hanno a lungo descritte, a volte in modo benevolo e spesso per niente. Siamo ancora le Miss Jean Brodie del mondo, le Lily Briscoe, le donne eccellenti dei romanzi di Barbara Pym”. E anche se il novero includerebbe le single spigliate post-Sex and the City, “amo molto di più la macchietta, la zitella luciferina e disseccata della tradizione”. Ama “queste incaponite a non partecipare”. Nel mondo culturale tutti vogliono pensare di essere dei Bartleby che Preferirei di no a chi intima ordini indecenti. Al megadirettore fantozziano, al politico da operetta. Poi c’è un genere di Preferirei di no che non è rivolto ai cattivi ma alla società tutta intera, ai suoi luoghi comuni, alle sue frasi ricorrenti.
La zitella classica rifiuta di andare via, non si placa, non smussa i suoi spigoli solo perché vorremmo le donne tutte tonde e morbide come vasi di carne, non accetta di scomparire solo perché preferiremmo non ci fossero, anzi. La loro mera esistenza è il sassolino nella scarpa che infastidisce il corpo sociale…
Questa zitella è la parte che amo delle femministe militanti. Nella zitella, da uomo, mi identifico. La zitella trova una scappatoia per copiare le libertà concesse all’uomo: oggi che riceviamo i comandamenti dai siti e le riviste di lifestyle e vorremmo essere performativi e splendenti, una vera zitella può ricordare anche agli uomini che la società sarà pure una necessità, darà pure i suoi benefici, ma è meglio non parteciparvi con troppo abbandono, perché la società è un corpo magico fatto di giudizi, norme, amministrazione dei nostri bisogni, repressione dei nostri desideri, che ci mette un attimo a diventare magia nera.
Diciamo che non ho figli perché ogni giorno ho una quantità di libri da leggere che mi fa pensare: ma come farei se avessi figli? Dovrei trovarmi una moglie schiava, o una bambinaia. Mia moglie non si presterebbe né all’una né all’altra cosa. Be’, certo non voglio diventare io la persona che rinuncia a leggere per portare una creatura a lezione di pianoforte. È immorale? Non sono produttivo? Non servo a niente? La mia vita non ha scopo? Non sono diventato adulto? Embè? La zitella, spigolosamente, dice embè. Io la imito. Una nuova, improvvisa invidia della zitella si affaccia come possibilità all’uomo conformista. Io pure voglio rispondere Embè. Non voglio dare una risposta ideologica. All’amico che dice che non posso essere un bravo scrittore se non faccio l’esperienza della paternità prima mi affannavo di dimostrare il contrario. Adesso non più. La società è una grande macchina di norme, e noi che lavoriamo con le parole siamo tra i peggiori imbonitori di norme. Meglio fare finta di niente e allontanarsi da tutta questa frenesia di dire agli altri che la loro vita ha al centro un vuoto.
Mi identifico nella zitella letteraria, il ritratto che ne fa Gasperetti è il mio ritratto e mi sta bene:
mente creatrice in un corpo sterile, dalla sensualità disabitata, [donna] fredda – perché quale donna non si scioglierebbe al pensiero di tenere un neonato tra le braccia? Una cerebrale, cervellotica donna iceberg, ecco chi. Un’aberrazione. Una donna disincarnata, prosciugata oppure acerba, sottratta alla giusta e naturale maturazione che la porterebbe a essere madre, una vecchia bambina, una nevrotica, un’inferma.
È un bell’elenco, e se la vita ti ha reso così, perché dovresti valere di meno del maschio alfa realizzato, compiuto, e di sua moglie? Gasperetti per tagliare la testa al toro si accusa da sé. Poi cita un toro letterario, Norman Mailer, che così spiegava il fatto di non riuscire a leggere i libri delle donne: “Trovo gli effluvi emanati dall’inchiostro delle donne sempre esili, vecchiotti, lesbicamente psicotici, storpi, sgradevoli, alla moda, barocchi, maquillé o brillanti e nati morti”. (È “proprio l’inchiostro che piace a me”, commenta l’autrice.)
Al di là di Mailer, uno dei grandi meriti di questo saggio è farci tornare a pensare a quanto ancora sopravvive l’Ottocento – e per come la vedo io l’Ottocento dell’Impero Britannico – in certi nostri modi di pensare. Ci consideriamo figli del secolo breve ma il nostro carattere è stato formattato in quello prima. “L’Ottocento ha visto lo sviluppo di un insieme di processi di ridefinizione del ruolo materno, l’affermarsi dell’idea che la differenza biologica tra uomini e donne costituisse ‘la ragione scientifica che giustifica la chiusura delle donne negli spazi domestici’ e la scoperta di una loro vocazione naturale all’allevamento dei figli”.
Riportando il discorso all’Ottocento, questo libro ci permette di riflettere sul rapporto fra industria e famiglia nucleare. La rivoluzione industriale riformò la società inglese e tutto l’Occidente proponendo la famiglia nucleare come modulo di riproduzione e di sistematizzazione del consumo. Un consumo prevedibile che presto trovò nel sistema pubblicitario e nelle feste para-religiose – un’intuizione americana – un trucco per mantenere occupate a pieno ritmo le fabbriche. Halloween, festa della mamma, San Valentino, se ne lanciarono per tutte le età, e funzionarono così bene che ancora scandiscono il nostro anno. Al centro, genitori e figli, la razionalizzazione delle esistenze: la madre angelo del focolare, il padre lavoratore, un’idea di benessere casalingo alimentato dall’industria dei prodotti che crea una linea di discendenza che veleggia dall’uomo facoltoso dickensiano alla villetta a schiera americana anni Cinquanta e ai Mostri della commedia all’italiana. L’insistenza sul piccolo nucleo che “produce – consuma – crepa” come unico vero mattoncino Lego della società, nella sua efficienza, nella sua intelligibilità, nella sua funzionalità a certi bisogni fondamentali di sicurezza a coordinamento sociale, e dunque nella sua conseguente viralità, ha avuto l’effetto di diminuire la varietà di destini e desideri diversi spiegabili a parole: “Sono un prete”, “sono una guida alpina”, “sono un marinaio”, se non puoi dare una risposta del genere quando ti chiedono perché non hai famiglia, perché non hai costruito il tuo piccolo nucleo modulare, non puoi difendere la tua scelta. Se io fossi prete sarebbe tutto più chiaro, ma essendo scrittore è solo per egoismo se non ho figli.
D’altronde, l’affermazione intuitiva e soverchiante della famiglia nucleare nell’immaginario – perfino, grazie al cinema americano, in paesi come il nostro dove permangono comunque il clan e la parrocchia (noto covo di omosessuali e zitelle ed esistenze variegate, almeno la mia) –, e con la famiglia nucleare la figura della madre angelo del focolare (che si rovescia nelle donne negative: la matrigna, l’amante e la zitella), ha reso impossibile vedere che potere drammatico hanno famiglia e lavoro, titolo genitoriale e titolo professionale, nel definire le esistenze, al punto che in tanti e tante diventano per quieto vivere finti lavoratori e finti genitori – che non aggiungono niente alla società né fanno un buon servizio ai propri figli – pur di timbrare quel cartellino reale e ideale che ci assicura un ruolo rispettabile.
Questo saggio insomma apre molte strade e dialoghi. Non è una lettura solo per donne di 37 anni e/o femministe. È la mossa per cominciare una riflessione su come concepiamo le nostre vite, su quale percentuale di zitella e di Bartleby ci sia in ognuno di noi, a prescindere dal fatto che abbiamo figli oppure no.
È giustificabile che una percentuale grande o piccola del nostro tempo e dei nostri valori venga appaltata a un sistema filosofico-industriale che ci ha dato gli aeroplani, gli antibiotici e i villaggi vacanze. Ma tanta parte di noi può essere lasciata fuori, a investigare desideri e escogitare strategie per una vita migliore, per comunità diverse.
Una femminista mi potrebbe obiettare che in realtà per un uomo è facile costruirsi su misura un rapporto fra accettazione del ruolo e spazi di libertà, e che è per questo che gli uomini non sono interessati a immedesimarsi nella zitella che dice no, o nella femminista. Mi fido dell’obiezione, che ho ricevuto tante volte, ma non sono d’accordo. Anche se l’uomo ha tuttora una libertà filosofica maggiore rispetto alla donna (si vedano le scelte davanti alle quali una donna ancora, in molti contesti, si pone il problema di come sarà giudicata mentre il maschio no – dalle mosse per ottenere potere sul lavoro alla vita sessuale), il modo di procedere dell’uomo non mi pare abbia le caratteristiche dell’azione libera. Anche il marito è in una casa di bambola: i termini che descrivono la sua libertà sono ancora “scappatella”, “sotterfugio”, “è ancora in ufficio”, “non infastidire papà quando torna dal lavoro”.
L’uomo continua a tenersi i suoi spazi di libertà ma li vive sempre come se dovesse chiedere il permesso o dovesse agire di nascosto. Poi quando viene “beccato” a fare qualcosa di “grave”, e che in realtà a tutti e tutte sembra normalissimo, per lui scattano l’esclusione e la damnatio memoriae. All’opposto, chi non si accolla la famiglia è ancora “scapolone”, “disimpegnato”, “gaudente”, “farfallone”. Nemmeno questa è libertà, ma solo incontri di padel, sesso negli alberghi, serate al pub con la partita; non il massimo per chi cercasse un’affermazione vitale del desiderio; solo, forse, una forma diversa, ma compatibile con quella della donna, di costrizione, una vita su binari rigidi. Questa società fatta di Lego non ha molto sapore, la zitella benestante di fine Ottocento lo sa: va a vivere con una “amica” e l’America bigotta se ne fa una ragione chiamandolo “Boston Marriage”. Prendiamo appunti, c’è da imparare.