V iviamo questo giorno come un dono. Questa volta la Storia è stata buona con noi tedeschi”. A parlare è Richard von Weizsäcker, Presidente della Repubblica Federale della Germania dell’Ovest e ora anche primo Presidente della Germania riunificata. Le sue parole aprono il Tagesschau serale del 3 ottobre 1990 sul canale Das Erste di ARD: è il primo telegiornale serale della prima rete pubblica in una Germania non più divisa.
A condurre la storica edizione c’è Werner Veigel, forse il più celebre mezzobusto della Germania occidentale: occhiali a goccia, elegante giacca marrone, cravatta a strisce diagonali, pochette che tende al viola. Il giorno della Riunificazione è stato preparato da mesi e non può certo essere caratterizzato da quell’esplosione di gioia, entusiasmo e sgomento vista 11 mesi prima di fronte alla caduta del Muro di Berlino. Ma il fatto che dal crollo del Muro si sia giunti così brevemente a una sola Germania riunita non è in verità meno incredibile.
Se il 9 novembre 1989 sarà data storica per il mondo intero, il 3 ottobre 1990 sarà data storica soprattutto per la Germania e diventerà subito il giorno di festa nazionale tedesca. Guardare oggi, esattamente a trent’anni di distanza, il telegiornale di quella sera è rivelatore: non c’è praticamente una notizia o un passaggio del Tagesschau (e della narrazione pubblica che ne emerge) che non contenga un indizio su cosa sarà la nuova Germania.
Non abbiate paura di noi
Subito dopo la dichiarazione di apertura del Presidente, l’anchor Veigel saluta il pubblico e proclama: “I tedeschi vivono di nuovo in un paese sovrano, libero e unito. Quarantacinque anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, la scorsa notte è finita la divisione della Germania”. Sia nella dichiarazione del Presidente che nel solenne annuncio del telegiornale, il nuovo corso politico tedesco viene inserito nella grande Storia. Se per un filone intellettuale-strategico anglosassone la caduta del muro del 9 novembre 1989 sarà considerata cesura talvolta addirittura sufficiente a ipotizzare “la fine della Storia”, per la politica e per i media tedeschi l’assoluta storicità della loro condizione sembra invece più evidente.
Se il giorno della caduta del muro sarà data storica per il mondo intero, sarà il 3 ottobre 1990 a diventare subito il giorno di festa nazionale tedesca.
Una domanda urgente per la Germania diventa allora a quale tendenza della Storia agganciare l’unità appena riconquistata. In quale narrazione inserire una Riunificazione completamente inimmaginabile solo un anno prima? La risposta arriva dallo stesso presidente von Weizsäcker, trasmesso di nuovo al minuto 1:48 del Tagesschau, in un altro estratto del suo intervento della sera prima: “La nostra unità non è stata imposta con la forza a nessuno, ma decisa pacificamente. La nostra unità è parte di un processo storico europeo cha ha come obiettivo la pace dei popoli e un nuovo ordine di pace per tutto il continente”. Il messaggio a se stessi e agli altri è chiaro: la Germania non si è riunita per intrappolarsi nel proprio passato di potenza nazionale, ma per essere avanguardia europea, forse per cercare di essere già addirittura modello post-nazionale europeo. Determinato nel tenere distanti i tabù storici irrimediabili del proprio passato, l’establishment politico tedesco fautore della Riunificazione vuole rassicurare i propri partner vicini e lontani. Ricordando implicitamente Thomas Mann, quello che von Weizsäcker sta promettendo è che la nuova Germania sarà una “Germania europea” e non fautrice di “un’Europa tedesca”.
Le rassicurazioni tedesche, però, per alcuni non bastano e continueranno a non bastare. Già al primo minuto del Tagesschau, Werner Veigel legge: “Dall’estero sono arrivati gli auguri di numerosi capi di stato. Nei giornali stranieri, oltre all’entusiasmo, si è potuto però anche avvertire scetticismo sul futuro ruolo tedesco in Europa e nel mondo”. Nel 1990 la cosiddetta “questione tedesca” è ancora lì, è di nuovo lì: in mezzo all’Europa c’è di nuovo un paese grande, ricco, forte, e con 80 milioni di abitanti. La “questione” continua e continuerà a essere vincolata al destino di una terra che, come ripeteva il falco americano Henry Kissinger, è “troppo grande per l’Europa ma troppo piccola per il mondo”.
Nei trent’anni successivi al 3 ottobre 1990 la Germania non si farà forza classicamente geopolitica, ma diventerà di nuovo (quasi inevitabilmente) forza economicamente egemone in tutta Europa. Dal 1990 in poi affronterà inizialmente fasi di recessione per assorbire la mastodontica svolta della propria Riunificazione e nel 2000 sarà ancora considerata il “malato d’Europa”, con un’economia in sostanziale stagnazione. Ma nel corso del nuovo millennio la “Berliner Republik” (così ribattezzata dopo il ritorno della capitale a Berlino) sfrutterà meglio di chiunque altro la svolta dell’euro e saprà riformulare i costi della propria produzione industriale tramite una epocale ristrutturazione dello stato sociale (con la riforma Agenda 2010, che declinerà il tradizionale welfare tedesco in un sostanziale workfare). Con una rimodulazione dell’economia sociale di mercato in funzione della competitività selvaggia del mercato globale, negli anni Berlino si affermerà sempre di più come campione globale del surplus commerciale (vale a dire esportando sempre molto più di quanto importi). Un’affermazione tedesca che si solidificherà definitivamente nella lunga stagione di stabilità ed estremismo di centro del cancellierato di Angela Merkel, iniziato nel 2005 e in corso ancora oggi.
Oggi, nel 2020, in piena crisi COVID-19, la Germania si è appena confermata perno indispensabile e, piaccia o meno, partner insostituibile per qualunque governo europeo che ritenga ancora conveniente vincolare il proprio ruolo internazionale a quello dell’Unione Europea. Definita negli ultimi anni “egemone riluttante” per il suo tentativo di non sobbarcarsi il peso geopolitico della propria potenza economica, invitata ad assumersi più responsabilità di leadership internazionale e al tempo stesso temuta e osteggiata quando ha espresso il proprio modo di farsi leader, la Germania si prepara ora ad anni ancora più complessi, in un mondo ormai divenuto multipolare. Le prossime elezioni nazionali tedesche del 2021 sono considerate tra le più decisive di sempre.
Dubbi e illusioni dall’Europa
Al minuto 9:30 Veigel passa la linea ai servizi registrati dagli inviati internazionali da quelle che, come viene ricordato, sono “le capitali delle potenze vincitrici (della II guerra mondiale), più Israele”. Un giro di 2 minuti e 30 secondi che racchiude tutto il serrato dibattito internazionale sulla Riunificazione tedesca svoltosi tra il 1989 e il 1990. Al minuto 10:55 parla Marie-Elisabeth Simmat, da Londra, che ricorda che solo due giorni prima la premier inglese Margaret Thatcher ha di nuovo espresso la propria preoccupazione per il pericolo di un “dominio tedesco in Europa”. Nel 1990 il nemico più ostinato di una nuova Germania riunita è infatti il Regno Unito, che sta vivendo gli ultimi mesi del lungo regno politico di Thatcher. Si narra che quell’anno la cosiddetta Lady di Ferro girasse per incontri internazionali tenendo in borsa una cartina raffigurante la Germania nei suoi confini del 1937. Lo scopo della Thatcher era mostrare quanto potessero essere (troppo) forti e potenti le due Germanie messe di nuovo insieme. Nel 2016, 26 anni dopo, le motivazioni del Leave nel referendum Brexit saranno vincolate narrativamente e populisticamente all’immigrazione e a una geosofia da nostalgia imperiale, ma la base ideologica e morale delle élite britanniche anti-UE sarà anche profondamente strutturata sullo storico rifiuto thatcheriano di un’Unione Europea troppo tedesca, troppo continentale, di fatto non più controllabile.
Nel 1990 la cosiddetta “questione tedesca” è ancora lì, è di nuovo lì. In mezzo all’Europa c’è di nuovo un paese grande, ricco, forte, e con 80 milioni di abitanti.
Nel 1990, però, Margaret Thatcher non riesce a convincere François Mitterrand della propria posizione contraria alla Riunificazione tedesca. Il Presidente francese e gli strateghi della République decidono invece che la soluzione migliore sia accogliere in pieno la promessa europeista tedesca, cercando di alzare però ancora di più la posta in gioco. Il Trattato di Maastricht del 1992 sancirà anche un patto più o meno formale: la Germania si è potuta riunificare, ma dovrà adesso sciogliere il suo potentissimo Marco nella moneta unica europea. Una mossa tattica apparentemente geniale di Parigi, che potrà contare sul sostegno decisivo di altre capitali europee. Mossa tattica però condizionata dal tic francese di sopravvalutare storicamente e fisiologicamente la propria forza. Forse nel 1990 Mitterand pensa ancora, come faceva Charles De Gaulle, che l’Europa unita sia pur sempre “un cavallo tedesco con un cocchiere francese”. L’euro che nascerà nel 2002 dovrebbe imbrigliare il cavallo, utilizzarne la forza, dirigerlo secondo necessità. Le cose non andranno esattamente così. Negli anni Novanta e Duemila gli attenti e scrupolosi superburocrati ordoliberali della Berliner Republik sapranno trasformare la nuova moneta europea in prezioso strumento competitivo e mercantilista, sia grazie all’export interno all’eurozona sia tramite un tasso di cambio internazionale che facilita anche le esportazioni nel resto del mondo. Durante la crisi dell’euro del 2010, niente sarà più possibile o immaginabile senza le decisioni giuste e sbagliate del cavallo-Germania. Oggi il cosiddetto asse franco-tedesco garantisce ancora a Parigi un ruolo strutturale nell’UE e nell’eurozona, ma il governo francese può solo vantare un ruolo da copilota paritario (forte del proprio patrimonio militare-nucleare), non certo un primato da “cocchiere” ebbro di grandeur gollista.
Gli USA, the Supervisor
La Germania riunita troverà così una sua nuova forma di potenza dentro allo spazio quasi totale ma storicamente determinato della globalizzazione, intesa come processo geopolitico espressione della pax americana. In questo senso, inizialmente, la nuova Germania si muoverà proprio nel solco del proprio tacito patto del Dopoguerra con Washington: rinuncia all’indipendenza strategica in campo militare (così come in quello dell’intelligence) e convogliamento di tutte le risorse e degli sforzi nazionali nel costante avanzamento economico. È soprattutto su queste basi che nel 1990 sono comunque gli Stati Uniti i più importanti e decisivi sostenitori della Riunificazione tedesca. Al minuto 10.22 del Tagesschau del 3 ottobre, Peter Staish, inviato davanti alla Casa Bianca, racconta “l’emozione” di George Bush Senior per la Riunificazione e cita poi come emblematico un commento del giorno del Washington Post: “In tutti questi anni i tedeschi si sono meritati questa unità”. Anche per l’amministrazione USA i tedeschi si sono meritati la Riunificazione con una Rivoluzione pacifica senza spargimenti di sangue e, soprattutto, se la sono meritata durante una Guerra Fredda in cui intere generazioni di politici tedeschi dell’Ovest hanno gestito con estrema consapevolezza il fatto di essere l’eventuale prima linea di una possibile guerra calda.
La posizione USA rispetto alla nascita della nuova Germania nel 1990 è ovviamente anche motivata strategicamente: con la Riunificazione entra subito nella NATO il primo territorio fino ad allora appartenente al Patto di Varsavia. Più complessivamente, una Germania subito e solidamente atlantista è in quel momento la soluzione migliore per chi voglia rispettare uno dei dogmi della geopolitica USA: sempre e comunque evitare la nascita di un qualsiasi asse eurasiatico troppo indipendente dal controllo americano dei mari del globo. Nei trent’anni successivi, però, il rapporto speciale tra Berlino e Washington inizierà a deteriorarsi. Oggi, nel 2020, è tendenza comune ridurre l’allontanamento tra il centro del potere tedesco e quello americano all’aperta antipatia politica tra Angela Merkel (e i suoi sostenitori) e Donald Trump (e i suoi supporter). Questo pregiudizio è stato anche alimentato nel momento in cui il mondo liberal statunitense, sconvolto proprio per l’elezione di Trump del 2016, ha narrativamente e simbolicamente scelto Angela Merkel come più importante “leader del mondo libero” e specie di temporanea “regina straniera” dei valori liberal-democrats americani. Interpretazione più che legittima, anche se tendenzialmente ideologica e parziale, ma che certamente ha offuscato la percezione generale delle crescenti difficoltà tra Germania e Stati Uniti. La verità è che, nonostante la luna di miele dei primi anni ‘90, i motivi di attrito tra Germania e USA si svilupperanno velocemente. Dagli anni Duemila in poi il potere seppur solo economico del costante surplus commerciale Germania diventerà comunque troppo ingombrante per gli USA e, contemporaneamente, Washington non apprezzerà lo scarso contributo tedesco al budget NATO, a cui vuole che i governi di Berlino contribuiscano di più (restando però militarmente assolutamente fedeli all’atlantismo e lontani da qualsiasi avventurismo indipendente).
Durante la crisi economica e finanziaria (2008 e 2010), le critiche dagli States e dai media anglosassoni verso l’eccesso di austerità di Berlino (anzi, di Francoforte) saranno aspre, e la differenza tra il liberismo à la Wall Street anglosassone e l’ordoliberalismo dell’ossessivo rigore tedesco si mostrerà in tutti i suoi effetti. Ma, soprattutto, sarà sempre più spesso il riemergere di un’eccessiva conciliazione eurasiatica tra Berlino e Cremlino a erodere il legame transatlantico. Già nel 2010 Vladimir Putin pubblicherà un contributo editoriale direttamente sul rinomato quotidiano liberale tedesco Süddeutsche Zeitung, sponsorizzando la “creazione di una comunità economica armoniosa che vada da Lisbona a Vladivostok”. Agli analisti d’intelligence d’oltreoceano il guest article del Cremlino non piacerà certamente, anche considerando la crescente richiesta di aiuto rivolta a Washington in funzione anti-russa da capitali della nuova UE come Varsavia, Bucarest, Vilnius.
Sarà solo con l’inevitabile scelta di campo della guerra in Ucraina del 2014 che la Germania prenderà di nuovo maggiormente le distanze da Mosca. Oggi, nell’ottobre 2020, Berlino guarda intanto con trepidazione alle elezioni presidenziali USA del 3 novembre. Gran parte della politica e quasi tutti i media tedeschi tifano con passione quasi militante per la vittoria del democratico Joe Biden. Ma anche se una presidenza Biden servirebbe sicuramente per riaprire un dialogo transatlantico più rilassato, alcune questioni geopolitiche cruciali tra i due paesi continueranno a riprodursi (o a esacerbarsi, come nel caso del ruolo tedesco nella conflittualità USA-Cina).
Il gas russo e il miglior nemico al Cremlino
Nel Tagesschau del 3 ottobre 1990, al minuto 9:45, il corrispondente dalla Piazza Rossa di Mosca, Jürgen Thebrath, cita l’agenzia sovietica TASS: “I tedeschi hanno ricevuto un anticipo di fiducia, speriamo che se lo sappiano anche guadagnare”. Sono passati meno di vent’anni da quel 1971 in cui, durante il cosiddetto Accordo delle quattro potenze a Berlino, il diplomatico russo Pëtr Abrasimov ancora diceva ad americani, inglesi e francesi: “Voi controllate i vostri tedeschi, che noi controlliamo i nostri”. L’inviato ARD Thebrath spiega invece ora che, di fronte a un periodo che la stessa Pravda prevede essere “un inverno di fame”, lo sguardo russo verso Berlino è soprattutto rivolto alla ricerca di nuovi accordi commerciali con la “ricca” Bundesrepublik. Al 3 ottobre 1990 l’Unione Sovietica deve ancora vivere il proprio crollo definitivo, passare l’era Eltsin e il saccheggio oligarchico dell’economia post-sovietica e giungere poi all’era Putin (che istituzionalizzerà parte dell’oligarchia ed epurerà invece quella non affidabile e non allineabile alla ragion di stato). A partire dagli anni ’90, la relazione tra la Russia e la Germania sarà mutevole ma costante. L’Ostpolitik nata negli anni ‘70 del ‘900 si trasformerà inizialmente in dottrina della relazione commerciale tedesco-russa come agente di trasformazione liberaldemocratica della società post-sovietica. Poi, una volta fallita questa prospettiva più utile al branding dei think thank che alla concreta azione politica, si consoliderà invece il principio che le relazioni commerciali e di interdipendenza energetica con la Russia siano la sola vera garanzia di pace tra i due paesi e che Berlino debba salvaguardarle a ogni costo, a prescindere dalla natura del regime politico di Mosca. Dottrina di convivenza con la grande Russia che, di fatto, è parte da sempre decisiva della scuola geopolitica tedesca di Monaco degli anni Trenta.
Negli anni Duemila il rapporto commerciale russo-tedesco assumerà una forma ancora più concreta e visibile, facendosi infrastruttura con la costruzione del gasdotto Nord Stream. Frutto dell’amicizia fraterna tra il Cancelliere tedesco Gerhard Schröder (1998-2005) e Vladimir Putin, la pipeline sarà progettata nel 2005 e ultimata nel 2011 e diverrà il primo gasdotto che colleghi direttamente Russia e Germania. Passando sotto al Mar Baltico, il Nord Stream darà la capacità a Mosca di bypassare strategicamente paesi come Ucraina, Polonia e Bielorussia ed estrometterli eventualmente dal flusso di gas russo verso l’Europa (che comunque continuerà a passare con ampi quantitativi proprio da quei paesi, con pipelines come Transgas e Yamal-Europe). La reazione dei paesi esclusi dai piani del Nord Stream sarà ugualmente subito molto accesa, tanto che nel 2006 Radosław Sikorski, allora futuro Ministro della Difesa della Polonia, paragonerà il Nord Stream al patto nazi-sovietico Molotov-Ribbentrop del 1939. Nel 2015 verrà progettato un secondo gasdotto, il Nord Stream 2, che verrà però temporaneamente bloccato di fatto nel 2020, a pochi km dal completamento, a causa dell’imposizione nei confronti delle aziende coinvolte di pesanti sanzioni americane bipartisan (cioè sostenute al Congresso USA sia dai Democrats che dai Republicans). Oggi, nell’ottobre 2020, Berlino non ha ancora deciso come risolvere davvero la questione Nord Stream 2. A trent’anni di distanza, la Germania è comunque ancora impigliata nella tensione tra la sua irrinunciabile alleanza militare con gli Stati Uniti e il suo rapporto di interessi ed equilibri con Mosca.
Anti-nazionalismo: “Germania chiudi il becco!”
Nel giro dei corrispondenti del Tagesschau manca ancora la reazione alla Riunificazione da Tel Aviv. Al minuto 12:05 il giornalista Friedrich Schreiber racconta che se in Israele c’è, da una parte, soddisfazione per il crollo della DDR, dall’altra la rinascita di una “più grande Germania” ha portato subito a galla il ricordo della Shoah. Schreiber aggiunge che il Presidente del parlamento israeliano, Dov Shilansky (sopravvissuto all’Olocausto e da sempre contrario a rapporti di riparazione tra Israele e Germania) ha dichiarato che il 3 ottobre tedesco è giorno di grave lutto per il popolo ebraico. La questione della colpa tedesca viene qui verbalizzata nella sua completezza, senza mezzi termini. Come già detto, la Germania riunita del 1990 si trova di fronte al doppio compito di superare il passato socialista-distopico dello “stato della Stasi” ed evitare al tempo stesso di dare spazio a un nuovo senso di nazione in qualche modo non abbastanza ermeticamente chiuso rispetto al peccato originale del nazionalsocialismo.Se in Israele c’è, da una parte, soddisfazione per il crollo della DDR, dall’altra la rinascita di una “più grande Germania” ha portato subito a galla il ricordo della Shoah.
Per muoversi in questa dinamica, la nuova Germania riattualizzerà velocemente il paradigma degli opposti estremismi. Paradigma che non potrà in verità contenere la complessità dell’esperienza storica tedesca, ma che è più che funzionale negli anni Novanta, cioè in anni che si auto proclameranno illusoriamente post-ideologici. Al minuto 5:30 il Tagesschau mostra le immagini dei vari festeggiamenti per la Riunificazione in varie città. Vengono mostrati bambini che si arrampicano felicemente sulle austere statue berlinesi di Marx ed Engels, accompagnati dall’animazione di un clown. Un po’ dopo il telegiornale ricorda che l’eventuale sventolare delle bandiere “non è stato nazionalistico” e, inoltre, che non ci sono stati i temuti scontri tra “estremisti di destra e sinistra”. Al minuto 6:46 viene però mostrato un servizio con le immagini del corteo di diversi gruppi dell’Autonome Szene di Berlino ovest, da tempo una delle più vivaci e significative d’Europa. Il servizio racconta che prima di scontrarsi con la polizia i manifestanti hanno sfilato al grido di “Deutschland halt’s maul”: “Germania chiudi il becco”. Il 3 ottobre del 1990 c’è quindi una parte critica del corpo sociale tedesco che è assolutamente convinta che non esista una via non nazionalistica alla Riunificazione e il cui altro motto è infatti “Nie wieder Deutschland!”, “Mai più Germania!”. Sarebbe un errore credere che le manifestazioni mostrate dal Tagesschau siano solo il messaggio isolato dell’estrema sinistra della capitale. Per certi versi il Nie wieder Deutschland! non è altro che la declinazione più radicale dello stesso già citato discorso anti-nazionale con cui gran parte della politica tedesca cerca nel 1990 di ammortizzare la paura in Europa per la Riunificazione tedesca. Per il radicalismo anti-nazionale di sinistra la risposta è “Mai più Germania”, per la narrazione liberale la risposta è una Germania che però sia per sempre agganciata all’idealismo post-nazionale di un mondo sempre più globalizzato.
Più generalmente, dal 1990 in poi, in Germania si svilupperanno alcuni dei tentativi di narrativa politica più avanzata di superamento del nazionalismo e di sviluppo del cosiddetto “Verfassungspatriotismus”, cioè di quel “Patriottismo costituzionale” innanzitutto legato ai valori e ai principi liberal-democratici intesi come autosufficienti e scevri da elementi identitari o, ancora di più, etno-nazionali dominanti. Oggi è soprattutto il partito dei Verdi, attualmente considerato seconda forza politica del paese, a portare avanti questa impostazione. Un’impostazione che trova molto sostegno in una parte liberal-ambientalista e tendenzialmente internazionalista-cosmopolita della Germania, ma che riceve anche moltissime critiche da parte di quel pezzo di società tedesca che è invece di nuovo alla ricerca di una “Leitkultur”, vale a dire di una “cultura guida” tedesca — concetto originariamente immaginato come insieme di valori secolari occidentali, ma poi sempre più spesso anche riformulato in senso più tradizionale, di orgoglio identitario e in opposizione al multiculturalismo e alla percepita debolezza tedesca-europea di fronte all’importazione di nuove culture considerate più pericolose di quello stesso tradizionalismo occidentale di cui il pensiero liberal anti-nazionalista vuole attuare il superamento.
Un dibattito, quello tra cosmopolitismo green, secolarismo tendente all’occidentalismo e nuovo conservatorismo identitario, che si è ampiamente sviluppato in occasione della Willkommenspolitik (politica dell’accoglienza) scelta da Angela Merkel in occasione della cosiddetta crisi dell’immigrazione del 2015. Dibattito che si insinua quindi nell’evoluzione di lungo respiro di una società multiculturale e multietnica in Germania e che non è certamente destinato a scomparire nei prossimi anni (come ha dimostrato l’entrata nel Bundestag nel 2017 del primo partito di destra identitaria tedesco, Alternative für Deutschland).
Neonazismo riunificato
Se il 3 ottobre 1990 chi scrive i testi del Tagesschau può far notare con soddisfazione di non aver visto dimostrazioni di estrema destra, il neonazismo saprà comunque allungare velocemente la propria ombra sulla nuova Germania unita. Negli anni Novanta e Duemila ci sarà di fatto un’altra riunificazione: quella tra il neonazismo carsico, etno-suprematista e più tradizionalista che per decenni si è autoriprodotto nella Germania Ovest, da un lato, e il neonazismo resuscitato nel malessere sociale e nell’alienazione culturale delle periferie e delle lande più desolate in cui vive e sopravvive il proletariato bianco della Germania Est, dall’altro. Il risultato di tale integrazione sarà soprattutto un crescendo di violenza. Secondo le stime di un report presentato dal Ministero degli Interni tedesco del 2018, a partire dal 1990 le vittime di quella che viene chiamata “criminalità motivata politicamente – settore estrema destra” sono state 83. Negli ultimi 2 anni il numero è ulteriormente cresciuto.
Il caso più incredibile della presa del neonazismo tedesco nella Germania unita sarà quello della cellula terroristica e razzista NSU (NSU-Nationalsozialistischer Untergrund, “Clandestinità Nazionalsocialista”). Per anni la polizia e l’intelligence interna tedesca (Bundesamt für Verfassungsschutz nazionale e vari uffici regionali) si riveleranno incapaci di riconoscere la matrice neonazista degli omicidi. Quando lo faranno, molto tardivamente, solo nel 2011, verranno travolti da numerose accuse di incompetenza, bias razziali e ideologici, incapacità di gestire e/o addirittura attiva e cosciente mancata volontà di utilizzare una seppur vasta e fitta rete di informatori nella galassia neonazista. Se nel 1990 qualcuno in Germania pensa e spera ancora di poter finalmente uscire dal Dopoguerra, lasciandosi alle spalle anche i propri estremismi ed entrando agevolmente in una mitologica era di liberal-democrazia post-conflittuale, le cose andranno in maniera estremamente più complicata. Dal 2015 in poi, con la già citata Willkommenspolitik, il neonazismo e l’estremismo etno-nazionalista potranno poi inserirsi ancora meglio nelle contraddizioni del multiculturalismo e del binomio immigrazione-integrazione in Germania, puntando a forme di normalizzazione del proprio discorso e adottando tattiche di vero e proprio entrismo nel nuovo nazional-populismo. Il 1 giugno 2019, Walter Lübcke, politico CDU dell’Assia favorevole alla Willkommenspolitik, verrà ucciso sulla terrazza di casa sua da un militante neonazista. Il 9 ottobre 2019 un giovane uomo con simpatie neonaziste cercherà di assaltare la sinagoga di Halle (Sassonia- Anhalt) nel giorno dello Yom Kippur, uccidendo poi due persone. Il 19 febbraio 2020 un uomo mosso da odio xenofobo ucciderà nove persone in due differenti shisha bars ad Hanau, vicino a Francoforte. Oggi il tema del neonazismo in Germania continua a occupare le prime pagine di qualsiasi giornale.
Possiamo fidarci dei nostri soldati?
Nel giugno 2020, dopo lunghe indagini interne alla Bundeswehr (l’esercito tedesco) la ministro della difesa Annegret Kramp-Karrenbauer decide lo scioglimento di un’intera compagnia del KSK (i Kommando Spezialkräfte, le squadre speciali dell’esercito). Il motivo sono le pesanti infiltrazioni di estrema destra nel commando. La ministro pone poi tutto il resto della KSK sotto severa osservazione e riforma. A fine settembre la stessa Kramp-Karrenbauer destituisce Christof Gramm, presidente dell’intelligence militare tedesca MAD (Militärischer Abschirmdienst. Il compito del MAD è in questi mesi proprio indagare a fondo sull’estremismo di destra nell’esercito. La notizia dello scioglimento dei KSK, così come altre indagini che scoperchiano gruppi di estrema destra nella polizia tedesca, fanno in queste settimane il giro di tutti i media del mondo. Quello che però non si approfondisce molto è perché, soprattutto nel caso dell’esercito, l’azione del governo vada proprio ora così in profondità.
Se nel 1990 la Germania pensa e spera di poter entrare agevolmente in una mitologica era di liberal-democrazia post-conflittuale, le cose andranno in maniera estremamente più complicata.
Al minuto 8:56 del Tagesschau del 3 ottobre 1990, ancora prima dei servizi dalle capitali estere, Veigel legge una dichiarazione di Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione che governerà la Germania ancora per 8 anni. Le parole di Kohl sono relative allo status politico e militare della Germania: “La Germania non rivendicherà mai più nuovi territori e riconosce il carattere definitivo delle proprie frontiere… I tedeschi sanno che dovranno ora assumersi più responsabilità nella comunità internazionale. La Germania è pronta a partecipare con soldati tedeschi a truppe di pace dell’ONU”. La prima frase non è per niente scontata: la caduta del Muro sta scatenando un effetto domino dalle conseguenze ancora imprevedibili, che raggiungeranno conseguenze orribili e tragiche in ex Jugoslavia (non senza una responsabilità politica della stessa Germania appena riunificata e di altre nazioni europee). Per Helmut Kohl assicurare paesi come la Polonia o l’allora Cecoslovacchia di non voler rivendicare nuovamente territori contesi prima del ‘45 è fondamentale. La seconda frase di Kohl è però oggi ancora più importante: il Cancelliere parla sostanzialmente del destino dell’esercito tedesco, fino ad allora sotto direttissima direzione strategica americana. Fino al 1990 la Bundeswehr della Germania Ovest si è infatti mossa solo rivolta verso la cortina di ferro e con un’azione vincolata a operazioni di difesa NATO all’interno confini tedeschi. Kohl dice che ora la Germania sarà però pronta a muoversi diversamente, sostanzialmente anche all’esterno, anche se restando agganciata alle dinamiche ONU. Negli anni Novanta la Germania deciderà di ridurre il personale del proprio esercito, ma proprio in quegli anni alcuni rappresentanti dell’esercito tedesco compariranno per la prima volta in piccole missioni di peacekeeping nel Golfo Persico, in Somalia o nei Balcani.
Nel 1999 la Germania parteciperà alla missione NATO in Kosovo e nel 2001, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il Bundestag voterà l’appoggio della Bundeswehr alla missione americana in Afghanistan. Nel 2006 i tedeschi prenderanno il comando operativo della regione Nord dello stesso Afghanistan: sarà la prima volta per la Bundeswehr in un paese straniero. Nel gennaio 2017 (76 anni dopo l’operazione Barbarossa del Terzo Reich), l’esercito tedesco rientrerà in Lituania, questa volta da alleato, per una missione di “dissuasione” in funzione anti-russa. Al di là delle singole operazioni, nel corso degli anni la Germania sarà sempre più costretta a puntare a una propria maturità militare dopo almeno 50 anni in cui le istituzioni tedesche si erano assestate in una geometria di potere in cui il ruolo militare era stato sempre marginale. Capacità militare da sviluppare non più solo all’interno del proprio ruolo nella NATO (e quindi spendendo di più, come richiesto da Washington), ma potenzialmente anche oltre. Come dirà nel maggio 2017 Angela Merkel, in pieno shock da nuovo trumpismo e riferendosi alla questione militare tedesca: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti, come ho sperimentato nei giorni scorsi… Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani… Naturalmente dobbiamo avere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti e il Regno Unito e con altri vicini, inclusa la Russia… ma dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro”.
Niente di più emblematico: a 3 decenni dalla propria Riunificazione, seppur continuando ad appoggiarsi all’alleanza NATO e ai crescenti progetti di framework militare europeo, l’hardcore power di Berlino deve oggi essere militarmente in grado di aiutarsi da solo in un mondo che rispetto al 1990 non è diventato più liberale e multilaterale, ma più nazionalista e unilaterale. Operazione che Berlino non può però fare senza la certezza che l’esercito tedesco, così a lungo estromesso dalle dinamiche di potere, sarà assolutamente fedele ai consolidati equilibri istituzionali della Repubblica federale di Germania, al suo patriottismo che si proclama assolutamente liberal-democratico e costituzionale e, di fatto, anche espressioni partitiche tradizionali-costituzionali tedesche. Da questa ormai irrinunciabile esigenza di avere assolutamente sotto controllo la dimensione politica del monopolio della forza nasce quindi oggi l’attivismo del governo tedesco CDU-CSU-SPD nell’epurare l’estremismo di destra dall’esercito (e, in parte, nella polizia). Un estremismo che magari in passato era già presente e forse anche parzialmente noto, ma che ora non può più essere ignorato e deve essere visibilmente e anche mediaticamente combattuto.
La vendetta degli “Ossis”
Al minuto 12:39 dietro a Werner Veigel compare la mappa della Germania infine riunita: è un altro momento sicuramente storico della tv pubblica tedesca. La cartina indica però Dresda e la notizia in uscita non è molto entusiasmante: la storica azienda di macchine fotografiche Pentacon, per anni fiore all’occhiello dell’industria della DDR, annuncia proprio il 3 ottobre di chiudere i battenti. La motivazione? “Non ci sono più possibilità nella concorrenza con l’Asia dell’est”. La chiusura è frutto di una decisione del Treuhandanstalt, l’agenzia creata nella DDR in dismissione per gestire e privatizzare le aziende del socialismo al collasso. Il marchio Pentacon verrà poi fatto rinascere in seguito, ma oggi la sua produzione è da tempo esternalizzata proprio in Corea del Sud. Il Treuhandanstalt opererà dal 1990 al 1994, provvedendo alla ristrutturazione, alla chiusura o alla vendita di quasi 9000 aziende della Germania orientale. Il lavoro sarà mastodontico, incredibilmente difficile, perennemente schiacciato tra gli interessi irrefrenabili delle industrie dell’Ovest a caccia di buoni affari e la crescente protesta dell’Est fisiologicamente incapace di accettare ed elaborare velocemente le esigenze della razionalità capitalistica.
Legalmente la Riunificazione non fu tale, ma fu formalmente un’annessione dell’Est all’Ovest.
Il 1 aprile del 1991, il chairman del Treuhandanstalt, Detlev Rohwedder, manager pubblico e membro del partito socialdemocratico, verrà assassinato da un cecchino mentre si trova all’interno della sua abitazione a Düsseldorf. Per l’omicidio comparirà una rivendicazione della RAF – Rote Armee Fraktion, il più noto gruppo terroristico tedesco di estrema sinistra (della Germania Ovest). Il responsabile materiale dell’omicidio non verrà però mai individuato e sull’attentato rimangono ancora molti interrogativi. L’assassinio di Rohwedder sarà uno dei momenti più bui del lavoro politico-burocratico di aggancio economico dell’Est all’Ovest. Aggancio che si svolgerà in un contesto ideologicamente e geopoliticamente estremamente teso, ma che proseguirà senza sosta. Oggi, trent’anni dopo, nonostante centinaia e centinaia di miliardi di investimenti e un’apposita e celebre tassa di solidarietà per sostenere l’Est, l’economia dei cosiddetti Neuen Bundesländer (cioè gli stati tedeschi dell’ex DDR) rimane ancora diversi passi indietro rispetto a quella dei Länder dell’Ovest. Se i grandi centri come Lipsia e Berlino sono cresciuti velocemente, le aree più provinciali vivono da tempo una sostanziale depressione economica e sociale, spesso collegata a un drammatico calo demografico.
La lettura su cosa sia stata la riunificazione economica delle due Germanie è contenuta tra due estremi. Da una parte c’è chi giudica la seppur imperfetta integrazione economica della DDR nella potenza industriale della BRD come il più grande miracolo e il più chiaro successo della Riunificazione. Dall’altra parte c’è chi accusa la ex Germania Ovest, i suoi manager e i suoi funzionari di aver usato metodi sostanzialmente coloniali con l’Est, usando gli asset economici orientali solo come tasselli periferici dell’economia dell’Ovest e tamponando i vari danni collaterali tramite massicce iniezioni nel tessuto sociale di welfare-sedativo. In questo senso viene spesso fatto notare che legalmente la Riunificazione non fu tale, ma fu formalmente un’annessione dell’Est all’Ovest. Anche burocraticamente fu infatti molto più facile sciogliere la DDR nella BRD occidentale, nella sua Costituzione e nei suoi accordi internazionali (scelta che fu sicuramente funzionale, ma continua e continuerà ad avere conseguenze politiche). Una cosa è certa: a oggi nella Germania dell’est non si trova ancora una sola delle aziende del segmento DAX30 (cioè i 30 titoli a maggiore capitalizzazione della Borsa tedesca di Francoforte).
Al minuto 4:00 del Tagesschau ARD del 3 ottobre 1990 viene trasmesso un frammento dell’intervento di Rita Süssmuth, presidente del Bundestag, che la sera prima ha preso la parola poco dopo il Presidente della Repubblica von Weizsäcker. Süssmuth dice: “Se adesso non supereremo la prova della solidarietà interna, nel nostro piccolo, chi avrà fiducia nelle nostra capacità di superarla poi in Europa e nel conflitto Nord-Sud?”. Parole che saranno più o meno volontariamente profetiche. La percezione di essere cittadini di serie B (materialmente e/o simbolicamente) vissuta da una parte degli abitanti della Germania dell’est, emergerà d’un tratto con prepotenza con la più volte citata Willkommenspolitik del 2015. Vale a dire nel momento in cui l’establishment politico tedesco e i settori più progressisti della società civile apriranno la Germania all’arrivo di oltre un milione di richiedenti asilo provenienti da Sud (dalla Siria, e non solo). Esattamente a partire dal 2015 emergeranno in Germania anche tutti i semi più velenosi di una Riunificazione incompiuta, in cui parte dei cittadini dell’Est, quella spesso descritta con l’appellativo (talvolta discriminatorio) di “Ossis”, si scaglierà contro il governo Merkel, accusandolo di mostrare una generosità e una comprensione verso i nuovi arrivati che non sarebbe stata mai mostrata internamente alla Germania della Riunificazione. Per protestare contro il governo della Willkommenspolitik, a Est verranno rispolverati gli slogan usati contro il regime della DDR, a partire da “Wir sind das Volk – Noi siamo il popolo”, ma il motto più implicito dell’insofferenza verso l’immigrazione sarà piuttosto un emblematico “Integriert doch erst mal uns!”, “Integrate un po’ prima noi”. Il partito che più saprà approfittare dell’insoddisfazione-risentimento dell’Est sarà la già citata Alternative für Deutschland, che saprà procedere all’etnicizzazione delle rivendicazioni orientali (sia quelle degli strati più disagiati sia quelle delle mancate élite locali), affermandosi così sia come partito etnonazionalista e anti-immigrazione genericamente tedesco sia come specifica forza territoriale dello scontento e della vendetta politica di parte dell’attuale Germania dell’est.
Un patriota sul tetto del carcere
Al minuto 13:03, Werner Veigel spiega che “l’ultimo capo della Stasi”, Werner Großmann, è stato arrestato e dovrà comparire davanti ai giudici federali di Karlsruhe. Un arresto spettacolare eseguito in un giorno speciale: Großmann verrà accusato di tradimento, ma le accuse verranno ritirate 5 anni dopo. Al minuto 13:26 del Tagesschau parte invece un servizio su una rivolta nel carcere di Rheinbach, nel Nord Reno Vestfalia, vicino a Colonia. Le immagini mostrano i detenuti sui tetti del penitenziario. Siccome nelle carceri orientali della ormai ex DDR è stata da poco concessa un’amnistia, ora anche i carcerati di vari istituti dell’Ovest chiedono una possibilità simile. La telecamera inquadra uno dei manifestanti, capelli e barba lunga, accento forse bavarese, che esclama: “Einigkeit und Recht und Freiheit” (Unità, Giustizia e Libertà), citando consapevolmente il motto più importante dell’inno nazionale tedesco.
L’onda lunga dell’entusiasmo per la caduta del Muro continua a emergere anche nelle porzioni più marginalizzate del corpo sociale, che la declinano autonomamente e secondo necessità. Ancora per alcuni anni il crollo della cortina di ferro e la Rivoluzione pacifica tedesca faranno talvolta sperare che dalla dimensione anti-autoritaria della vittoria liberale contro il socialismo reale si possa presto passare ad evoluzioni direttamente libertarie. C’è chi sogna che la storia particolare della “libertà”, in altre parole, sia solo all’inizio. Ma al minuto 14:01 Werner Veigel passa già a un altro argomento: il presidente francese Mitterand è in missione diplomatica ad Abu Dhabi, è il primo leader occidentale a recarsi nell’area dall’inizio della “crisi”. Al minuto 14:23 Veigel spiega poi che il presidente dell’Iraq Saddam Hussein si trova in Kuwait, dove si è recato per la prima volta di persona nella zona da poco occupata dalle truppe irachene. La Storia ha già ripreso il suo corso e, anzi, sta per accelerare.