D ifendersi. Una filosofia della violenza di Elsa Dorlin usciva a maggio per Fandango Libri, nella traduzione dal francese di Annalisa Romani. In quei giorni circolava l’immagine delle ginocchia del poliziotto premute sulla testa di George Floyd a Minneapolis.
A quattro mesi dall’uscita del libro, in Italia due episodi di violenza riempiono le pagine di cronaca: 6 settembre, Colleferro, periferia a Sud di Roma, Willy Monteiro, un ragazzo di 21 anni di origini capoverdiane viene ucciso a calci e pugni da quattro coetanei bianchi per aver difeso un suo amico. 13 settembre, Caivano (Napoli) Maria Paola Gaglione perde la vita dopo essere stata speronata dallo scooter del fratello mentre era sul motorino con Ciro, il suo compagno trans, che viene picchiato e accusato di averla “infettata”. Molti giornali – e persino Arcilesbica – hanno continuato a chiamare Ciro “ragazza”, invisibilizzando la sua scelta di essere trans.
C’è un filo che unisce, dalle loro diverse angolazioni, le violenze subite da George Floyd, da Willy, da Maria Paola e Ciro? Come agisce la violenza sui corpi che sfuggono alla norma e quali strategie di autodifesa questi corpi mettono in campo quotidianamente contro la violenza?
Quando difendersi smette di essere “legittima difesa” e diventa una questione di vita?
Scavando nelle nicchie e nei silenzi della storia ufficiale, Dorlin traccia una storia costellare dell’autodifesa, che va dai saperi e dalle culture sincretiche dell’autodifesa schiava alle pratiche dello ju-jitsu utilizzate dalle suffragiste per difendersi nello spazio pubblico, dalle tecniche di combattimento messe in campo nell’Europa dell’est dalle organizzazioni di ebrei al Black Panthers Party, passando per le brigate queer. Tracciare una genealogia dell’autodifesa, per l’autrice, docente di Filosofia all’Università di Parigi VIII, significa innanzitutto volgere lo sguardo alla storicità dei rapporti di potere, indagare la costruzione del soggetto moderno e farlo a partire da un posizionamento femminista e decoloniale.
“Attingere dall’attualità sarebbe stato schiacciante” dice la filosofa durante la presentazione di Difendersi ospitata dalla libreria Tuba a Roma il 6 settembre (la cui registrazione si può seguire qui) – “avevo bisogno di relazionarmi a quella che viene chiamata ‘la storia lunga’, ma allo stesso tempo so di non poter lavorare a un concetto senza che questo sia mangiato dal mio corpo, dalla mia storia: sono obbligata, quindi, a essere situata”.
Di padre meticcio, originario della Guyana francese, pronipote di schiavi africani, Dorlin situa la sua genealogia a partire dal governo delle colonie francesi, che chiama la fabbrica dei corpi disarmati, dove a schiavi, nativi e indigeni era impedito di maneggiare persino grossi bastoni (secondo il Code noir francese del 1685) e di riunirsi in danze marziali notturne, interpretate dai bianchi come propedeutiche allo scontro.
L’esclusione del diritto a essere difeso-a ha implicato la produzione di soggetti indifendibili, perché reputati “pericolosi”, violenti e sempre già colpevoli, proprio mentre si faceva il possibile per renderli impotenti a difendersi.
Dorlin fruga negli archivi dei vincitori per indagare il silenzio dei vinti.
Quello che mi interessa è il silenzio di questo archivio, restituire la resistenza schiava attraverso le scritture dei coloni che hanno paura di questa resistenza, del silenzio che prepara alla sollevazione. (…) D’altronde, è proprio nel silenzio che avviene quel momento di passaggio all’autodifesa, dove è il muscolo che parla.
Nell’aprire questi archivi e nell’interrogarne i silenzi, il testo conduce in una costellazione di voci ed echi in cui epoche, storie e pratiche si cercano e si rimandano continuamente l’un l’altra:
I testi principali che costituiscono il fondamento della filosofia del Black Panther Party for Self Defense rendono omaggio agli/alle insorti-e del ghetto di Varsavia, le pattuglie di autodifesa queer sono in un rapporto di citazione con i movimenti di autodifesa neri; il ju-jitsu praticato dalle suffragiste anarchiche internazionaliste inglesi diviene loro accessibile, in parte, a causa di una politica imperiale di captazione dei saperi e delle competenze dei/delle colonizzati-e, del loro disarmo.
In questo reticolato, piani storici diversi e diverse esperienze dialogano costantemente col presente, e così Difendersi aiuta a leggere le violenze razziste della polizia contro Floyd, e più recentemente gli spari alle spalle di Jacob Blake a Khenosa, in continuità con i linciaggi operati dai vigilantes negli Usa nel diciottesimo secolo con l’obiettivo di purgare la società da tutte le persone considerate come indesiderabili e come minaccia per la società coloniale bianca. È proprio in questo periodo che si assiste, secondo Dorlin, “alla fondazione inedita di uno Stato razziale nel vero senso del termine, a una razionalizzazione della razza come fondatrice del diritto” – più che all’espressione di una rudimentale giustizia fai-da-te – dove il vigilantismo è divenuto un modello di cittadinanza in cui ogni bravo cittadino americano può riconoscersi.
La violenza che ha portato alla morte di Floyd e di Blake non è l’ennesima espressione di una polizia razzista, ma è la violenza operata da chi è convinto di amministrare la giustizia contro “corpi pericolosi”. La storia segregazionista statunitense si lega qui a doppio filo con la “fabbrica dei corpi disarmati” messa in atto nelle colonie e mossa da quel che Dorlin, rifacendosi a Butler chiama paranoia bianca:
Dal momento che i corpi minoritari sono una minaccia, fonte di pericolo, agenti di qualsiasi pericolo, agenti di qualsiasi violenza possibile, la violenza che si esercita su di loro, a cominciare da quella della polizia e dello stato, non può mai essere vista nella sua indecenza: è una reazione sempre legittima.
Il monopolio statale dell’uso della violenza è tutt’altro che monolitico, ci suggerisce la filosofa e, a seconda delle linee di razza, classe e genere che intercetta, agisce attraverso una “economia imperiale della violenza” radicata nell’idea di supremazia bianca, ossia in una gerarchia di vite al cui vertice sta il soggetto bianco, etero, che aderisce alla norma e la rassicura. È su questa gerarchia, d’altronde, che si sono fondate le tecniche di dominio moderne, su cui si traccia quel confine che divide soggetti degni di essere difesi da quelli che non sono legittimati a farlo, poiché definiti “pericolosi”.
Il pericolo da cui il libro ci mette in guardia è quello di banalizzare la violenza, di considerare questi episodi come casi isolati, che non parlano alle nostre vite, e soprattutto di non cogliere il nodo che li lega a quell’economia imperiale della violenza che produce, da una parte, soggetti degni di essere difesi e, dall’altra, corpi disarmati, violentabili.
E qui veniamo al cuore del lavoro di Dorlin, ossia la distinzione operata nel testo tra “legittima difesa”, che presuppone già un “soggetto di diritto”, e autodifesa intesa come “etica marziale di sé”, la cui posta in gioco è la difesa della vita:
A questi corpi vulnerabili e violentabili spettano solo delle soggettività a mani nude. Tenute a bada nella violenza e attraverso di essa, queste vivono o sopravvivono solo se riescono a impossessarsi di tattiche difensive. Queste pratiche subalterne formano quella che io chiamo l’autodifesa propriamente detta, in contrasto con il concetto giuridico di legittima difesa.
Lo sguardo di Dorlin, come le soggettività di cui compone e intreccia le pratiche, è uno sguardo lucido che si dispiega oltre le enunciazioni accademiche-identitarie, che non lascia spazio a facili conclusioni. L’autodifesa, infatti, non viene mai eretta a principio politico tout court.
Così mentre riconosce la possibilità rivoluzionaria del Black Panthers Party di riscrivere la storia segregazionista statunitense, la filosofa osserva anche come questo abbia perso la sua forza rivoluzionaria quando si è ancorato a una mitologia della mascolinità nera e alla fascinazione per le armi. O ancora fa notare come i safe space reclamati dalle comunità gay a San Francisco negli anni ‘70 abbiano dato il via alla gentrificazione sessuale e razziale di alcuni quartieri, portando al dislocamento delle minoranze razziali e delle sessualità considerate unsafe (queers of colors, trans etc).
La questione non è essere al sicuro in un “tra di noi” fantasmatico, ma di costruire e di creare territori da cui politicizzare, capitalizzare rabbia
L’autodifesa può dirsi tale se va nella direzione di una trasformazione radicale del sistema di oppressione, ci suggerisce Dorlin, dove la richiesta di diritti e giustizia non si traduca in uno stato più repressivo.
Chi legge Difendersi sentirà forse di avere tra le mani una lente, una bussola, uno specchio, o le tre cose insieme, perché questo libro interroga la storia così come le nostre esperienze, i nostri muscoli, la nostra rabbia, i nostri silenzi.
Il libro lascia aperta, tra le tante, una domanda, che fa da eco a tutte le voci e le riflessioni che compongono questo tracciato:
Cosa fa la violenza, giorno dopo giorno, alle nostre vite, ai nostri corpi e ai nostri muscoli? E a questi ultimi, a loro volta, cosa è consentito fare all’interno della violenza e attraverso di essa?