P rima della crisi edilizia e della pensione, mio zio è stato per quasi mezzo secolo un fiero, infaticabile muratore. Ha cominciato ragazzino, e a interrogarlo oggi non ricorda nemmeno quante case ha costruito dal nulla, dove prima c’era soltanto un rettangolo di terreno spoglio; cento, forse trecento. Usciva di casa al volante del suo furgone carico di attrezzi che ancora non c’era il sole. Più era rapido a posare mattoni, meno c’era bisogno di pensare. Negli anni buoni comprava un lotto su cui edificare per poi trattare la vendita degli immobili direttamente con gli acquirenti, e ogni tanto, se andava bene, chiudeva l’affare prima ancora di avviare il cantiere. L’incantesimo si rompe nel 2008, con la crisi finanziaria, quando il mattone smette di essere un bene rifugio e la buona stella che accompagnava lo zio si offusca. Le entrate non bastano più: dichiara il fallimento e vende la gru a un affarista che in quegli anni ne accumula decine.
Quella di mio zio è una delle migliaia di storie di quel secondo Novecento che dal dopoguerra in avanti è stato anzitutto il secolo del boom edilizio, alimentato ideologicamente dall’ossessione per la casa di proprietà. Nell’arco della sua vita attiva, il consumo di suolo a mezzo cemento, asfalto o altri materiali artificiali è quasi triplicato in Italia: +180%. Stando all’ultimo rapporto dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente, nel nostro paese è oggi più probabile camminare a piedi nudi sul cemento che sull’erba e, superata la crisi finanziaria, la cementificazione ha ripreso ad avanzare inesorabile, senza rallentamenti, indifferente persino allo spopolamento demografico degli ultimi anni.
Qui da noi le nuove colate di cemento ingoiano 2 metri quadrati di terreno al secondo, che in un anno diventano 456 in più per ogni abitante in meno. Il paradosso è che l’Italia è zeppa di edifici inutilizzati: 7 milioni di abitazioni vuote su 31 esistenti, 700mila capannoni dismessi, 500mila negozi chiusi definitivamente, 55mila immobili confiscati alle mafie. Più che versare nuovo cemento, come fa notare Sarah Gainsforth su Che Fare, servirebbe un piano per riempire quello che c’è già. E ciononostante si continua a costruire.
Ovunque sia arrivato, il cemento ha portato cambiamento, ma soprattutto l’ha portato velocemente, trasformando il profilo delle città a un ritmo forsennato.
La “febbre edilizia” è notoriamente un tratto peculiare del nostro Paese ma ne contagia molti altri, in particolare la Cina: è lì che dal 2010 si concentra metà della crescita globale del mattone, con molti edifici decretati a essere demoliti nel giro di trent’anni soltanto in favore di nuove e più imponenti costruzioni. Una statistica stupefacente e spesso citata è quella secondo cui, tra il 2011 e il 2013, in pochi anni la Cina ha colato più cemento che gli Stati Uniti in tutto il Novecento.
“Costruisci e la gente verrà” amano ripetere gli ottimisti leader cinesi, ma la verità è che la capacità edilizia del Paese è ormai tale da dover essere esportata all’estero – soprattutto in Africa e in Europa, con la Nuova Via della Seta – oppure sfogata in opere faraoniche e sottoutilizzate, come l’aeroporto internazionale Daxing di Pechino, il ponte Hong Kong-Zhuhai-Macao e le tante città fantasma alla Ordos Kangbashi, in Mongolia Interna. Megaprogetti presentati dalle autorità come indispensabili e avveniristici, quando in realtà celano tutta la fragilità di un sistema economico che subordina l’edilizia all’imperativo della crescita e dell’occupazione a tutti i costi – anche se continuare a versare cemento non è più necessario e oltre una certa soglia diventa addirittura controproducente, per non dire nocivo.
Come scrive lo storico dell’ambiente Vaclav Smil nel suo Making the Modern World: Materials and Dematerialization (2013), accade sempre così nei Paesi affamati di progresso: all’inizio il cemento migliora enormemente le condizioni di chi vive nell’indigenza materiale (la pavimentazione del terreno nudo può ad esempio ridurre le malattie parassitarie fino all’80%), ma presto i suoi effetti benefici rallentano, continuare a costruire si tramuta in una necessità di ordine economico e la crescita del PIL si ritrova a essere dipendente dalle nuove colate. La cementificazione rampante, col suo mastodontico indotto, diventa quindi l’unico antidoto alla stagnazione economica che torna ciclicamente a fiaccare i mercati.
Oggi il cemento evoca sentimenti ambivalenti e si tenta di tutto per nasconderlo, eppure niente come la polvere grigia e i suoi derivati (su tutti il calcestruzzo, la “roccia artificiale” composta da cemento + sabbia + ghiaia + acqua) hanno mostrato quanto un semplice materiale possa trasformare la cultura e la società. Economico, resistente e facile da lavorare, è stato il cemento a permettere la ricostruzione fulminea del dopoguerra e aprire alle masse il mercato edilizio, diventando sinonimo di sviluppo economico e modernità.
La sua industria ha saputo unire le ideologie libertarie e totalitarie, i valori politici di destra e di sinistra, ponendosi al centro tanto delle utopie comuniste quanto di quelle capitalistiche. Ma il cemento è stato anche il materiale che meglio di qualunque altro ha incarnato l’era del nation building e del welfare state, il periodo d’oro dei grandi edifici pubblici col grezzo a vista secondo i canoni dell’estetica brutalista, trionfo della grigia e austera funzionalità su ogni altro ideale di bellezza compositiva o armonia con la natura. Il cemento ha finito per modellare i rapporti umani, una certa idea di famiglia e di morale borghese, di classe lavoratrice. Ha reso di fatto possibile un nuovo ordine sociale fondato su urbanizzazione spinta, benessere materiale, mercato dei consumi domestici, mutui trentennali e dipendenza dal credito. Ovunque sia arrivato ha portato cambiamento ma soprattutto l’ha portato velocemente, trasformando il profilo della città a un ritmo forsennato, superiore persino a quello della capacità di comprensione e dei sentimenti umani.
E tuttavia, come spesso accade con le storie di progresso, i vantaggi palesi del cemento quale materiale da costruzione scontano e occultano un prezzo ambientale insostenibile. “Il cemento è il mezzo attraverso cui cerchiamo di domare la natura”, osserva Jonathan Watts sul Guardian. “Lastre di calcestruzzo [che è fatto di cemento per il 20% circa] ci proteggono dalle intemperie, riparano le nostre teste dalla pioggia, le ossa dal freddo e i piedi dal fango. Ma seppelliscono anche vaste aree di terreno fertile, costipano i fiumi, soffocano gli habitat, e agendo come una seconda pelle dura come la roccia ci desensibilizzano da ciò che avviene al di fuori delle nostre fortezze urbane”.
Più che blu o verde, il nostro potrebbe davvero essere definito il “pianeta grigio”: il cemento e i suoi derivati esistenti superano per peso la biomassa di tutti gli alberi della Terra e, se li appiattissimo sulla superficie terrestre, potremmo ricoprire l’intero pianeta con un sottile involucro roccioso di due millimetri di spessore. Ma cemento e calcestruzzo sono già dappertutto e dove vengono versati esercitano un dominio totale, cambiano il suolo in maniera permanente e irreversibile, lo impermeabilizzano alla vita e non cresce più nulla. Seppelliscono tutto, anche la storia, e distruggono irreparabilmente i servizi ecosistemici del suolo: una risorsa finita e non rinnovabile che, una volta ingoiata dalle colate, il più delle volte è persa per sempre.
Dal punto di vista dell’impatto ambientale, il cemento e i suoi derivati fanno comparsa in tutti i ranking più deplorevoli. Dopo l’acqua, il calcestruzzo è il materiale in assoluto più utilizzato al mondo ed è di gran lunga il più comune materiale da costruzione. Il settore edilizio assorbe da solo metà dell’energia elettrica globale, un decimo delle risorse idriche (ed è anche tra i più oligopolistici e corrotti al mondo). Il problema maggiore è però rappresentato dalle emissioni di CO₂: considerando l’intera filiera, il cemento è responsabile dell’8% delle emissioni mondiali – solo carbone, petrolio e gas fanno peggio. Se l’industria del cemento fosse una nazione sarebbe al terzo posto per emissioni, dietro a Cina e Stati Uniti, ma non è facile misurare con precisione l’impronta ecologica di un comparto produttivo così vasto, frammentario e complesso. Per avere una rappresentazione più realistica del suo impatto ambientale, oggi si discute molto di “embodied emissions”, l’ammontare complessivo delle emissioni dalla costruzione di un edificio alla sua demolizione. Tanto per tornare all’esempio della Cina, nel 2015 le emissioni “incorporate” dell’edilizia sono state tre volte più di quelle operative e circa il 18% di quelle totali. Un’enormità, soprattutto perché l’industria del cemento è in assoluto una delle più difficili da decarbonizzare.
L’industria del cemento ha saputo unire le ideologie libertarie e totalitarie, i valori politici di destra e di sinistra, ponendosi al centro delle utopie comuniste e di quelle capitalistiche. Ha finito per modellare i rapporti umani, una certa idea di famiglia e di morale borghese, di classe lavoratrice.
Il primo 10% di emissioni dell’intero processo produttivo viene dall’estrazione e dal trasporto del calcare, la roccia sedimentaria costituita da organismi marini mineralizzati nel corso delle epoche geologiche e oggi alla base della miscela grezza del Portland, la varietà di cemento divenuta lo standard internazionale col 98% del mercato. La roccia calcarea viene poi miscelata assieme ad altri minerali come il silicio o il ferro e scaldata a circa 1.500° C per avviare la reazione chimica di fusione in agglomerati chiamati clinker, che una volta polverizzati vanno a costituire l’ingrediente precipuo del cemento.
La calcificazione del clinker avviene solitamente in fornaci cilindriche alimentate a gas naturale, la cui combustione rilascia nell’aria il 40% delle emissioni del processo produttivo del cemento. Resta fuori un 50% di emissioni, riconducibili intrinsecamente alle reazioni di sintesi del clinker che liberano da sole fino a 800 chili di diossido di carbonio per ogni tonnellata prodotta. Certo, efficientando il sistema e sostituendo i combustibili fossili impiegati in fase di fusione si potrebbe aggredire metà delle emissioni di anidride carbonica del settore, ma l’altra metà dipende dalla chimica della calcificazione ed è dunque difficile da alienare.
Se in base agli accordi di Parigi del 2015 le emissioni annuali dell’industria edilizia dovrebbero diminuire del 16% entro il 2030, la domanda globale di cemento continua invece a salire irrefrenabilmente: si stima il 25% in più da qui al 2030 e il 12-23% al 2050, quando la curva della crescita potrebbe scollinare il plateau. Allora il consumo di cemento sarà quattro volte quello del 1990 e il suolo ricoperto dalle colate addirittura il doppio rispetto a quello attuale. “Il materiale con cui è stato costruito il mondo moderno”, avverte Akshat Rathi su Quartz, “sta paradossalmente contribuendo a distruggerlo”. Come impedire un tale scempio? I margini di miglioramento sono considerevoli e chi è impegnato oggi a rendere l’intero settore più sostenibile lavora su diversi fronti di intervento. Jocelyn Timperley cita su Carbon Brief i quattro principali: recupero edilizio e riciclo del cemento, sostituzione del cemento con materiali più sostenibili, efficientamento dei combustibili impiegati nella produzione del cemento e riduzione della quota di clinker presente nelle miscele.
Per quanto riguarda i materiali alternativi, in bioedilizia si sperimenta di tutto, dalla canapa ai biomattoni composti da colonie di batteri, anche se per ora è il legno a fare la parte del leone, e per un motivo molto semplice: a parità di peso e di costo, gli alberi cresciuti in silvicoltura sequestrano più anidride carbonica delle altre fibre vegetali, e una volta trasformati in pannelli per le murature possono stoccare il carbonio in maniera stabile e duratura, con effetti pressoché certi sulla mitigazione del riscaldamento globale.
“Mentre l’edilizia tradizionale è tra le attività con le maggiori emissioni di CO₂”, spiega Rowan Moore sul Guardian, “gli edifici in legno hanno il potenziale per ridurle”. E per giunta senza troppi vincoli per i progettisti, dal momento che tecnologie d’avanguardia come il legno lamellare a strati incrociati o le costruzioni modulari permettono già oggi di arrivare a edificare anche i monumentali plyscrapers, o “grattacieli in legno”. Oltre che dalla bioedilizia in legno, un contributo parziale alla sostenibilità del settore edilizio può venire dal riciclo di cemento e calcestruzzo degli edifici demoliti. Al momento i rifiuti edili finiscono in parte nelle discariche e in parte vengono smaltiti in sottolavorazioni come la manutenzione delle strade, in un processo noto come downcycling. La sfida, in questo caso, è quella di valorizzare i rifiuti edili in upcycling, allestendo una filiera circolare del cemento e del calcestruzzo che conduca al loro riutilizzo nelle costruzioni e pertanto alla sensibile riduzione del materiale “vergine” richiesto dal mercato.
Un’altra frontiera del settore è quella dei cosiddetti novel cements, o “nuovi cementi”. In alcuni di questi il clinker è parzialmente rimpiazzato da materiali succedanei come la cenere o la loppa di altoforno, un residuo di scarto del processo di produzione della ghisa. In altre varianti vengono invece alterate le reazioni chimiche e la composizione dei minerali della miscela grezza per produrre cementi in grado di accumulare energia termica, a basse emissioni (fino al 90% in meno del Portland) o addirittura a emissioni negative, capaci cioè di assorbire più anidride carbonica di quella rilasciata nel corso del processo produttivo. Si tratta di soluzioni innovative e promettenti che si scontrano però con la competizione a basso costo del cemento tradizionale e con le inveterate lobby della sua industria miliardaria.
“Il settore edilizio è intrinsecamente conservatore, all’oscuro delle alternative esistenti e refrattario al cambiamento”, scrive John Vidal sul Guardian. Eppure basterebbe una modestissima tassa sul cemento – o in generale sulle emissioni di carbonio – per sbilanciare l’intero settore e incoraggiare l’adozione di materiali più sostenibili. Dal Pantheon romano alle abitazioni modulari stampate oggi in 3D, architetti, muratori e committenti continuano a prediligere il cemento convenzionale, considerato più resistente e sicuro, ma se una “spinta gentile” riuscisse ad aprire una piccola breccia nel sistema, le inefficienze del Portland verrebbero tutte a galla e le start-up del settore conquisterebbero rapidamente quote di un mercato apparentemente inscalfibile.
Il benessere materiale schiuso dal cemento nasconde danni ambientali e rischi ecologici; per quanto riguarda i materiali alternativi, si sperimenta di tutto, dalla canapa ai biomattoni composti da batteri, soluzioni ancora fallimentari contro il basso costo del cemento tradizionale.
Si stima che un approccio diverso alle costruzioni, votato a materiali alternativi, nuovi cementi, riciclo dei rifiuti edili ed efficientamento del processo produttivo, potrebbe ridurre da solo almeno il 50% delle emissioni dell’industria edilizia, senza tuttavia portare alcuna soluzione alle altre ambiguità ecologiche della cementificazione, prima su tutte il consumo di suolo. Per evitare ulteriore degradazione ambientale e la dissipazione delle emissioni incorporate da cemento e calcestruzzo già in essere, non c’è che da limitare la domanda di nuove costruzioni valorizzando il patrimonio immobiliare esistente e massimizzando il ciclo di vita degli edifici. Allentare la nostra dipendenza dalle nuove colate ci porterebbe poi anche vantaggi immediati in termini di qualità della vita: il cemento è infatti un materiale innegabilmente durevole, resistente e lento a degradarsi, le superfici lisce e cerulee che disegna appaiono innocue e asettiche, ma ostacolano la dispersione dell’inquinamento atmosferico da polveri sottili (causa di una morte su otto) e assorbono molto calore solare, rendendo le città fino a 10 gradi più calde rispetto alle aree extraurbane.
È fuori discussione che il cemento abbia fatto la fortuna economica del secolo scorso, con la sua ombra che pare ora volersi allungare anche sugli anni a venire. In questo presente ibrido, però, sveliamo il rovescio della medaglia e scopriamo che il benessere materiale schiuso dal cemento nasconde danni ambientali irreparabili e rischi ecologici lampanti. C’è in gioco il dilemma di sempre, il solito trade-off: quanto ambiente siamo disposti a degradare per mantenere una crescita economica che, prima o poi, ci causerà una lunga serie di imprevedibili sventure?
Tutte le foto sono tratte dal progetto Architecture of Density di Michael Wolf.