S e non li terrorizziamo, non accetteranno la Legge di sicurezza nazionale” dichiara un personaggio in Ten Years, film antologico del 2015 che prova a immaginare cinque visioni di Hong Kong nell’anno 2025. Uscito l’anno successivo ai movimenti di Occupy Central e alla Rivoluzione degli ombrelli, è un’opera di speculative fiction in cui lo sguardo è dichiaratamente distopico: i diritti umani e le libertà diminuiscono man mano che il governo cinese esercita una crescente influenza sul territorio semi-autonomo, il cantonese (il dialetto cinese parlato dal 98% della popolazione di Hong Kong, contro il mandarino che è il dialetto più diffuso nella Cina continentale, dove ha lo statuto di lingua ufficiale) viene marginalizzato e proibito l’uso della parola “locale” (perché manifesta una sommessa ribellione), si ricorre a magazzini clandestini per poter conservare libri e dischi banditi.
Come sappiamo, non sono serviti dieci anni per arrivare a questo punto, e la storia ha anticipato l’immaginazione. Ad aprile di quest’anno un libraio indipendente di Hong Kong – uno di quei cinque che nel 2015 sparirono nel nulla e ricomparvero alcuni mesi dopo in Cina continentale rivelando di essere stati detenuti con l’accusa di diffusione di materiale che criticava l’establishment politico – ha riaperto la sua attività, Causeway Bay, a Taiwan – al momento ancora un’isola relativamente sicura nell’area geografica. A Hong Kong invece, a fine giugno di questo 2020, in seguito a mesi di proteste scatenate dall’ormai noto disegno di legge sull’estradizione, la Cina – che censurò il film quando uscì – ha effettivamente imposto una Legge di sicurezza nazionale su Hong Kong. Le immagini di un anno prima, più precisamente del 9 giugno 2019, quando un milione di manifestanti scesero in strada (ovvero una persona su sette dell’intera popolazione della città) sembrano ormai ineluttabilmente appartenere a un sogno di futuro fallito.
Abbiamo già visto persone nelle strade adottare lezioni sparse da Hong Kong e da altri punti caldi nel ciclo globale di ribellioni dello scorso anno: una barricata probabilmente in stile Hong Kong di carrelli fuori dall’edificio assediato del terzo distretto a Minneapolis; tecniche per estinguere i gas lacrimogeni a Portland; l’uso di laser per abbagliare le telecamere e le visiere della polizia in diverse città; ombrelli schierati contro lo spray al peperoncino durante le proteste a Columbus e Seattle; graffiti che rimandano agli abitanti di Hong Kong sulle vetrine di negozi sbarrati o saccheggiati in più città. Le somiglianze sono così sorprendenti che Hu Xijin, il paranoide capo del tabloid di stato cinese
The Global Times, ha concluso che “i rivoltosi di Hong Kong si sono infiltrati negli Stati Uniti” e hanno “ideato” gli attacchi.
Questa connessione con Black Lives Matter è tracciata in “Welcome to the Frontlines: Beyond Violence and Nonviolence”, un articolo pubblicato su una rivista cinese (della Cina continentale), 闯 Chuǎng, il cui focus d’indagine sono lo sviluppo del capitalismo in Cina, le sue radici storiche e le rivolte di coloro che ne sono schiacciati. Alcuni caratteri cinesi hanno un potere grafico particolare e nella loro bellezza manifestano una complessità che ne arricchisce la comprensione. Ad esempio 闯 è l’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e significa liberarsi; attaccare, caricare; sfondare, forzare l’entrata o l’uscita; agire impetuosamente. Combinato con altri caratteri diventa sempre meglio: 闯关 (Chuǎngguān) significa montare una barricata, e 闯座 (Chuǎngzuò) partecipare a una festa senza essere invitati.
I lunghi mesi di sperimentazione delle proteste di Hong Kong e l’esito della lotta offrono un inquietante scenario a tinte fosche per i movimenti nel mondo. Anche negli 11 punti per la rivoluzione nelle parole degli stessi abitanti di Hong Kong elaborati dal collettivo di scrittori, traduttori, artisti Lausan – Sharing decolonial left perspectives from Hong Kong (“prospettive decoloniali di sinistra da Hong Kong”) appare “Quello che Black Lives Matter ci dice a proposito di razzismo e sorveglianza violenta a Hong Kong”. La connessione con le proteste americane è stata dibattuta anche nel corso di una webinar che ha coinvolto attivisti di HK, Seattle e North Carolina.
Anche nel caso di Lausan i caratteri parlano: scritto 流傘 contiene 傘 (san), che significa ombrello e fa riferimento al coinvolgimento del collettivo nei movimenti sociali di Hong Kong. Inoltre è un omofono di 流散 (decentralizzato/diaspora) perché gli autori sono sparsi nel mondo.
Ciò che spesso manca all’analisi di quello che accade in Asia e alla sua correlazione con gli eventi globali sono le voci dirette dei partecipanti. In questo caso, la capacità di comprensione della lingua (ovvero del cantonese, quando meno del 50% conosce il mandarino o l’inglese) limita fortemente il nostro accesso a fonti di informazione dirette. Si aggiunge l’erosione progressiva del dibattito, che al momento è dichiaratamente sotto assedio e questo emerge dall’instaurarsi di autocensura e allontanamento, meccanismi tipici delle dittature. Molti attivisti hanno lasciato la città, tra cui Nathan Law, co-fondatore del Partito Demosisto, e la stessa scelta è stata presa da diversi corrispondenti internazionali, riducendo anche la qualità della copertura dei media mainstream. Oltre alle notizie giornalistiche e ai contatti personali, agli osservatori non rimane che ricorrere a una complessa triangolazione delle fonti più disparate, thread su reddit, discussioni su Twitter e alcuni preziosi siti che fanno del loro internazionalismo una chiave della lotta e per questa ragione scrivono in inglese o sono inseriti in network, di cui sono propulsori, che fino a pochi mesi fa parevano oasi globali di resistenza, ma che adesso sembrano sempre più necessarie e affrante reti di salvataggio.
Per accedere in modo non filtrato a informazioni ed elaborazioni più teoriche bisogna avvicinarsi a voci indipendenti impegnate a esprimere e articolare la complessità del movimento: un percorso nei meandri di Hong Kong per incontrare collettivi anarchici, di sinistra, di poeti, scrittori e giornalisti grazie al cui lavoro in inglese o tradotto possiamo percorrere vie spesso ignorate dai pregiudizi dei corrispondenti esteri, scoprendo una diversa profondità nelle immagini di pubblicità, vetrine di centri commerciali e banche ricoperte da caratteri cinesi e nella lotta quotidiana che registriamo dai video delle violenze della polizia (l’ultimo di qualche giorno fa vedere una dodicenne che, mentre fa compere di cartoleria per la scuola, scappa terrorizzata all’arrivo delle squadre anti assalto per essere poi inseguita, messa a terra e bastonata).
Assistendo all’escalation degli scontri e della repressione di Hong Kong, in molti hanno minimizzato il peso politico delle manifestazioni, rintracciando nei manifestanti i rappresentanti di quella stessa élite finanziaria che sta divorando il mondo, ma altrettanti hanno ammirato con un misto di cautela e fiducia la tenacia, le tattiche, le strategie di organizzazione, i linguaggi, l’estetica della rivolta, nella speranza di individuare finalmente un movimento rinnovato di resistenza alla pervasività di un sistema totalitario e sorvegliante come quello cinese, o come quello capitalista.
Quanto la lotta a Hong Kong si sia dimostrata divisiva anche a livello internazionale, lo spiega bene un collettivo anarchico di cui si trova un’intervista tradotta anche in italiano, dove si racconta come su fronti opposti si siano trovati molti teorici delle cospirazioni determinati a leggere qualsiasi forma di protesta contro il governo cinese come una macchinazione del dipartimento di stato degli Stati Uniti, come se fosse impossibile per i manifestanti distinguere la propria agenda dalla supervisione dello stato. Altri sostengono il movimento senza preoccuparsi dei miti nazionalisti e neoliberisti che ancora dominano al suo interno. Gli eventi di Hong Kong mostrano come un movimento possa rifiutare attivamente la legittimità di un governo e delle sue leggi e della polizia pur mantenendo una fede ingenua in altri governi, altre leggi, altre forze di polizia. Finché questa fede rimane in qualche forma, il ciclo è destinato a ripetersi. Eppure gli ultimi mesi di insurrezione a Hong Kong possono aiutarci a immaginare come potrebbe essere una lotta mondiale contro tutte le forme di capitalismo, nazionalismo e stato – e aiutarci a identificare gli ostacoli che ancora rimangono all’emergere di una tale lotta.
“Il fatto che Hong Kong sia sostanzialmente intrappolata nella rivalità tra l’impero statunitense e quello cinese la pone in una posizione ideale da dove criticare nazionalismo, estrazione neoliberista e la stessa forma dello stato-nazione” dichiarava Lausan. Forse la poneva, viene da aggiungere, dando il senso del devastante effetto di rimbalzo indietro sancito dall’emanazione della Legge di sicurezza nazionale, letteralmente il colpo di rinculo di una deflagrazione, percepito tanto più violentemente da chi militava nel movimento quanto più pareva palpabile la possibilità che una nuova alterità si stesse costituendo, con l’appoggio della comunità internazionale e in considerazione della mobilitazione della cittadinanza.
Sono voci come queste che negli ultimi anni hanno provato a costruire un’alternativa. Fondamentalmente internazionaliste nella loro pratica, adottano un linguaggio “di sinistra” e insistono su un immaginario radicale in cui il futuro è fondato su una solidarietà oltre i confini nazionali, basata sulla lotta di classe, sulla giustizia in tema di migranti, sull’antirazzismo e sul femminismo. “Ciò che costituisce la ‘sinistra’ a Hong Kong è tutt’altro che chiaro”, proseguono. Essa va intesa come categoria politica “in tensione” contro le élite capitaliste locali e l’imposizione autoritaria di Pechino.
“Per generazioni, la popolazione di Hong Kong ha resistito agli imperialismi occidentali e cinesi in una lotta continua contro l’espropriazione, lo sfruttamento e la cancellazione. La popolazione non solo è schiacciata dallo sfruttamento disumanizzante del lavoro e dalla grave disuguaglianza come risultato degli ultimi decenni di politiche neoliberiste, ma è anche oppressa da forze dell’ordine militarizzate, sorveglianza totalizzante e un sistema carcerario sempre più irresponsabile. Questo è ciò contro cui si scaglia il movimento di Hong Kong.”
Nel tempo, molti attacchi alla città hanno creato le condizioni perché si definissero con sempre maggiore consapevolezza critica i termini della protesta. Ad esempio, la radicale trasformazione di Lee Tung Street, non a caso nominata nella presentazione di Lausan: conosciuta come la via degli inviti di nozze, perché puntellata di piccole tipografie che li stampavano, è stato un evento che ha provocato uno slittamento ontologico nella concezione delle dinamiche urbane. Il primo progetto risale al 1998, cui sono seguiti anni di proteste, finché Lee Tung Street è stata demolita nel dicembre 2007 e il sito riqualificato come complesso residenziale e commerciale di lusso. Molti ritengono che la demolizione abbia causato un danno irreparabile al patrimonio culturale e, come per tutti gli altri progetti dell’Urban Renewal Authority, nessun inquilino originale è stato reinsediato sul posto. Con gli interventi urbani implementati in seguito alla bancarotta del settore immobiliare e alla crisi dell’economia asiatica del 1997, si è passati da una lettura dominante che vi vedeva un progresso migliorativo, a un approccio critico che, in risposta al drastico aggravarsi delle ineguaglianze sociali, fece emergere anche un’analisi di classe del mercato immobiliare. In sostanza, si iniziarono a riconoscere i segni di una gentrificazione in atto.
Nelle news
si legge degli abusi
subìti (verbali, fisici, sessuali).
Si preoccupano dei figli degli altri
mentre sbirciano i propri
conservati sugli schermi dei telefoni.
Si spera
che non tutte le loro storie siano grigie,
non solo di fatica
e di provare a far sì che l’esilio paghi.
Perché, dopo tutto:
Ho visto i loro volti straordinari
raggi di sole
Ho visto i loro volti sorprendenti,
i raggi della domenica
e quelle abbaglianti sagome danzanti.
Estratto da Dancing Silhouettes (An Extraterrestrial in Hong Kong, 2018).
Nei versi di Tammy Lai-Ming Ho, i protagonisti sono i lavoratori sfruttati di Hong Kong che “stanno portando avanti questa città”. Tammy Ho ha fondato Cha: An Asian Literary Journal nel 2007, esattamente un decennio dopo il passaggio di consegne da Regno Unito a Cina, ed è la prima rivista letteraria internazionale in lingua inglese con sede a Hong Kong. Tammy Ho è un’instancabile attivista culturale che nel corso della stagione di protesta ha commentato quasi quotidianamente ciò che accadeva con nuove poesie sul suo profilo Facebook. È anche la direttrice di PEN Hong Kong, la branca locale di PEN International, nota associazione di scrittori con decine di sedi sparse in tutto il mondo e specialmente attiva a difesa della libertà d’espressione, del lavoro e della vita di molti autori che vivono in contesti a rischio. PEN Hong Kong è stata ri-fondata nel 2016 come centro bilingue, trasformando il precedente centro che invece lavorava soltanto in inglese, escludendo il cantonese. Il pomeriggio del 4 giugno hanno ospitato su Zoom una veglia per le vittime di Piazza Tiananmen, un amaro e significativo rimpiazzo al classico raduno che ogni anno si tiene a Victoria Park e che nel 2020 è stato proibito con la scusa della pandemia da COVID-19. Durante il lockdown le attività online si sono strette tra loro.
Quanto le azioni politiche e sociali si intrecciano con l’editoria indipendente e quanto i sistemi di distribuzione hanno a che vedere con il fare o non fare comunità, e come farla, sono stati argomenti di discussione in una delle conversazioni ospitate da Folding Horizons, una serie di talk che registrano lo stato di eccezione e il clima di emergenze (ecologici, politici, sociali, tecnologici) come base da cui partire per individuare “le coordinate della futurabilità e della sopravvivenza”.
Questo tragitto che parte dal riconoscere una correlazione tra le proteste di Hong Kong e Black Lives Matter e passa attraverso altri fenomeni, come la gentrificazione o lo sfruttamento dei migranti, evidenzia come viviamo tutti nello stesso tempo, come questi mondi siano coevi. Quando dipingiamo Hong Kong come una metropoli cyberpunk, dunque proiettata in un futuro distopico in cui noi non viviamo, concedendoci di credere che abbiamo ancora chances per salvarci, stiamo mettendo all’opera un meccanismo orientalista, come scrive Gabriele De Seta in Sinofuturism as Inverse Orientalism: China’s Future and the Denial. I preconcetti che condizionano moltissima informazione sull’Asia sono vittime di quell’orientalismo con cui siamo più familiari, quello individuato da Edward Said, per cui l’Altro vive in un presente dai tratti antichi e passati.
Ma c’è un altro orientalismo all’opera in questi tempi di big data e tecnologia della sorveglianza, quello per cui l’Altro (nel nostro caso Hong Kong) vive in un presente dai tratti futuri. La negazione originaria messa in atto da ogni orientalismo è che noi e l’Altro non siamo coevi, non condividiamo il tempo (e la temperie) in cui viviamo. Ma trincerarci in un “Presente occidentale” non fa che attivare uno sguardo cieco, che impedisce di vedere e comprendere il tempo che tutti condividiamo. Quindi siamo già nel più spaventoso dei mondi possibili? Hong Kong, capitale finanziaria globale sottoposta alla legge del Partito comunista cinese, è il peggiore incubo autoritario e capitalista o è già la nostra realtà?