C on Helgoland (Adelphi) Carlo Rovelli ritorna agli albori eroici della meccanica quantistica: all’isola di Helgoland, dove il giovanissimo Werner Heisenberg gettò i fondamenti della nuova teoria. Rovelli ne racconta, col suo stile accattivante, le prime formulazioni, mette a fuoco le sorprendenti novità teoriche e i problemi – senza entrare in troppi dettagli tecnici –, per poi dar conto delle strategie principali con cui gli scienziati hanno provato a trarne una teoria pienamente soddisfacente. Ma il libro è solo in piccola parte un racconto delle discussioni del passato. Rovelli vuole indicare una soluzione: presenta la sua “interpretazione relazionale” della meccanica quantistica, sostenendo che essa permette di sfuggire ai paradossi e alle difficoltà della teoria meglio delle strategie alternative, e riflette sulle implicazioni di ampio respiro che questa interpretazione può avere per la nostra comprensione della realtà fisica e della mente umana, addentrandosi sempre più decisamente nel campo delle ipotesi filosofiche.
La storia della meccanica quantistica è stata raccontata molte volte, e continua ad esserlo – da storici, filosofi e scienziati – per buone ragioni: non soltanto perché è fatta di idee geniali e scoperte rivoluzionarie, una saga della fisica contemporanea che non ha più avuto eguali, ma anche perché il finale della storia sembra ancora aperto. La meccanica quantistica fa previsioni di una esattezza senza precedenti, finora mai smentite dagli esperimenti, e ha avuto fondamentali applicazioni tecnologiche. Nello stesso tempo, fin dall’inizio, è stata una teoria controversa: per alcuni, come lo stesso Einstein che introdusse l’ipotesi dei quanti di luce (i fotoni), si trattava di una teoria efficace come strumento matematico per descrivere i fenomeni, ma fondamentalmente incomprensibile e sbagliata, destinata a farsi sostituire da una teoria migliore; per altri, come Werner Heisenberg e Niels Bohr, era invece portatrice di una verità che poteva essere compresa e accettata soltanto con l’abbandono di intuizioni e pregiudizi molto radicati. Per questi ultimi il rifiuto opposto da Einstein era l’ostinazione di un conservatore, incapace di staccarsi dalla vecchia immagine del mondo. Poiché l’efficacia delle previsioni sperimentali della teoria non era in discussione, ma si trattava di ridefinire il significato e i limiti della conoscenza scientifica, le dispute fin dal principio sconfinarono nella filosofia.
La rottura fu così profonda e duratura che il filosofo Karl Popper parlò di uno “scisma” nella fisica, e ancora oggi la spaccatura tra “ortodossi” e “ribelli” attraversa come una crepa la comunità scientifica. In questa situazione non tutti possono avere ragione, e qualcuno sospetta che a tutti sfugga qualcosa. Ecco perché si continua a raccontare la storia dall’inizio: ricostruirne le varie fasi è come ripercorrere più volte una scena alla ricerca di un indizio, di un particolare che aiuti a capire che cosa sia successo e dove, eventualmente, si è commesso un errore.
Helgoland solleva tante importanti questioni. Proverò a metterle in luce, citando passaggi del libro e coinvolgendo direttamente Rovelli, che ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda.
Una rivoluzione scientifico-filosofica
Rovelli ha spesso sottolineato la continuità di problemi tra fisica e filosofia. In un libro, Che cos’è la scienza, ha descritto il filosofo presocratico Anassimandro come il primo grande scienziato per le sue idee rivoluzionarie sulla posizione della Terra nel cosmo. In più occasioni, ha sostenuto l’importanza di affiancare una dimensione filosofica alla formazione scientifica, concordando con una tesi sostenuta da diversi filosofi della scienza, oltre che da Einstein. La stessa interpretazione della meccanica quantistica elaborata da Rovelli si presenta come uno sviluppo di alcune intuizioni concettuali di Bohr, che a sua volta affermava di avere fonti di ispirazione filosofiche.
La meccanica quantistica fa previsioni di una esattezza senza precedenti, finora mai smentite dagli esperimenti, e ha avuto fondamentali applicazioni tecnologiche. Nello stesso tempo, fin dall’inizio, è stata una teoria controversa.
“La fertilizzazione incrociata fra filosofia e fisica c’è da sempre ed è sempre stata molto viva”, mi racconta Rovelli. “Molti fisici si sono sempre nutriti di filosofia e viceversa. Il motivo è perché i metodi e gli strumenti sono molto diversi, ma c’è una grande somiglianza, comunanza di obiettivi: trovare delle strutture concettuali efficaci per comprendere meglio il mondo. In entrambi i casi si tratta di una evoluzione e di un approfondimento continuo. Le intuizioni e i chiarimenti da una parte e dall’altra sono poi sfruttati da entrambe le parti. Kant non ci sarebbe stato senza Newton, e Einstein non ci sarebbe stato senza Kant, eccetera”.
Per quanto riguarda la meccanica quantistica, la storia, dunque, inizia nell’estate del 1925. Da anni i fisici si interrogano su alcuni fenomeni che sfidano le teorie correnti: nel 1900 Planck ha scoperto che l’energia del calore non si irradia con qualsiasi grado di intensità, come ci si aspettava, ma secondo “pacchetti” discreti, corrispondenti a un multiplo intero di una energia elementare. In altre parole, la radiazione in natura ha solo determinati valori possibili, come tacche sulla manopola di un frigorifero. Una simile discontinuità era stata riscontrata da Bohr nelle radiazioni emesse dagli atomi, portando a un modello dell’atomo in cui gli elettroni potevano ruotare intorno al nucleo soltanto entro determinate orbite concentriche, e il passaggio dall’una all’altra comportava un istantaneo “salto” da un’orbita all’altra.
I fisici sono ancora perplessi da tutto questo, quando il giovanissimo Heisenberg, ritirandosi nell’isola di Helgoland, scopre una complessa teoria matematica capace di dedurre tutti questi fenomeni. Ma qui, come ricorda Rovelli, entrano in gioco anche le questioni filosofiche: la meccanica di Heisenberg, sviluppata in pochi mesi con la collaborazione di altri fisici, non è soltanto matematicamente complessa – “un vero e proprio calcolo di stregoneria”, scrisse Einstein – ma comporta l’abbandono di alcune intuizioni fondamentali della fisica classica. La teoria non descrive più gli stati di una particella (come posizione e velocità), ma tratta di proprietà “osservabili”, cioè di risultati che si osservano negli esperimenti, rinunciando in linea di principio a dare una descrizione completa dello stato di una particella in ogni dato istante e a prescindere dall’osservatore.
A questa rinuncia reagisce Erwin Schrödinger, che in poco tempo presenta una teoria alternativa, la cui equazione fondamentale è assunta ancora oggi in meccanica quantistica per descrivere il decorso delle proprietà fisiche. Nella teoria di Schrödinger (nota come “meccanica ondulatoria”) la materia non è descritta più come un insieme di particelle, ma come un insieme di onde materiali che si propagano nello spazio, riempiendolo con densità variabile: la continuità e la “visualizzabilità” sembrano salve.
Ma la teoria non riesce a spiegare come mai la materia si osservi sempre localizzata come una particella e ben presto Max Born, che aveva guidato le ricerche di Heisenberg, replica con un nuovo fondamentale contributo: l’equazione di Schrödinger non descrive gli stati di un’onda, ma la “probabilità” di ottenere determinanti risultati con un esperimento di misura. Non si tratta di una probabilità soggettiva, cioè quella che riguarda la previsione fatta da un osservatore su una situazione oggettiva che conosce solo in modo limitato, ma di una probabilità intrinseca, insuperabile: il caso diventa un fattore della natura.
Con la “legge di Born” si componevano gli elementi essenziali della teoria che è ancora insegnata sui manuali e che Rovelli, dopo un breve resoconto delle vicende sopra ricordate, elenca con chiarezza: 1) La “granularità”: l’energia si trasmette per quanti discreti; 2) Gli “osservabili”: la teoria si riferisce solo a risultati sperimentali e non a proprietà degli oggetti che sono definite a prescindere dalle osservazioni; 3) La “probabilità”: un fattore oggettivamente probabilistico, stocastico, concorre a definire le proprietà dei sistemi fisici.
A partire dalle ultime due caratteristiche le discussioni assunsero inevitabilmente una dimensione filosofica. Con i lavori di Bohr e Heisenberg si costituì la cosiddetta “interpretazione di Copenhagen” (dalla città dove insegnava Bohr), quella “ortodossa”: Heisenberg difese la tesi che la conoscenza si limita alle osservabili come un principio di rigore epistemologico, richiamandosi ora al positivismo, ora alla filosofia di Kant. Bohr generalizzò questa limitazione affermando che “è sbagliato pensare che il compito della fisica sia descrivere come la Natura è. La fisica si occupa solo di quanto possiamo dire della Natura”. I vari difensori della teoria avevano idee filosoficamente diverse, ma il messaggio comune era chiaro: la teoria è buona, si tratta solo di capirla. Anche Rovelli la pensa così.
Capire la meccanica quantistica significava ridefinire le condizioni e i limiti della conoscenza, mentre chi – come Einstein e Schrödinger – pretendeva di conoscere tutti gli stati della materia e di visualizzarli s’ispirava a un ideale ormai scientificamente superato, tipico di quello che Heisenberg definiva in modo sprezzante “il materialismo ottocentesco”. Einstein, da parte sua, invocava il postulato del realismo, secondo cui le proprietà degli oggetti fisici devono esistere indipendentemente dall’atto di osservazione, come nel celebre aneddoto per cui avrebbe chiesto a Born: “davvero lei crede che la Luna esiste solo quando la guardiamo?” Ai suoi avversari filosofici, Einstein finì con l’attribuire una posizione “idealista” assimilabile a quella di George Berkeley, il pensatore che nel Settecento aveva ridotto tutta la realtà alle idee, negando l’esistenza della materia. Quanto al fattore “caso”, Einstein continuò a rifiutarlo e sostenere l’esigenza di una teoria deterministica, che di solito si illustra con la famosa massima “Dio non gioca a dadi” – a cui Born avrebbe risposto: “Smettila di dire a Dio cosa deve fare”.
Risolvere i paradossi
Dopo aver tratteggiato brevemente le origini della meccanica quantistica, Rovelli racconta lo sviluppo del dibattito fino a oggi e elenca le alternative in campo per uscire dalla difficoltà, sottolineando che la situazione è ancora aperta: “Questo libro è un episodio del dialogo in corso: cerco di fare il punto su dove a me sembra sia ora la discussione, e in che direzione ci stia portando”.
Le discussioni hanno messo in luce sempre meglio le caratteristiche più straordinarie della teoria, che Rovelli introduce con chiarezza. I due casi più discussi sono gli stati di sovrapposizione e l’entanglement.
Dopo aver tratteggiato brevemente le origini della meccanica quantistica, Rovelli racconta lo sviluppo del dibattito fino a oggi e elenca le alternative in campo per uscire dalla difficoltà, sottolineando che la situazione è ancora aperta.
La sovrapposizione è un fenomeno tipico delle onde, che nel caso dei sistemi quantistici (per esempio, nel caso di un’emissione luminosa) dà luogo però a un fenomeno enigmatico: gli esperimenti rilevano sempre una posizione ben definita dei fotoni, come se questi fossero semplicemente particelle che si muovono in determinate traiettorie nello spazio fino a colpire gli apparati di misura; al tempo stesso, modificando con degli ostacoli i possibili percorsi attraversati dai fotoni, i risultati di successivi esperimenti di misura compongono delle figure di interferenza che possono essere prodotte soltanto da onde e non da particelle. È come se la materia, prima di essere osservata, fosse al tempo stesso onda e particella. Ne risulta la difficoltà di stabilire, posti due percorsi possibili, dove passi effettivamente un fotone. Come scrive Rovelli: “Questa è la ‘sovrapposizione quantistica’: il fotone è ‘in entrambi i percorsi’. Se lo guardo, salta su un percorso solo e sparisce l’interferenza. Non ci si crede”.
In generale, la teoria assegna a un sistema più stati oggettivamente “sovrapposti”, e solo l’osservazione permette di stabilire quale si realizzi effettivamente. Una delle conseguenze più note della sovrapposizione degli stati è il famoso paradosso del gatto di Schrödinger: mediante un collegamento tra gli stati di un sistema quantistico e un interruttore che sprigiona un veleno, il gatto risulta essere allo stesso tempo vivo e morto fintanto che il suo stato non venga osservato.
L’entanglement complica ulteriormente la situazione: due “particelle” (ma abbiamo visto che questo stesso termine è problematico) possono avere stati tra di loro collegati nella descrizione di un sistema quantistico, per cui l’osservazione di una di esse determina immediatamente il valore dello stato dell’altra (come se scoprire un calzino è destro stabilisse che l’altro è un calzino sinistro). Dato però che, secondo la stessa teoria, i valori di questi stati sono indefiniti prima dell’osservazione, è solo l’osservazione di una delle due particelle a definire la proprietà della particella associata (entangled): in altre parole, i “calzini” non sono né destro né sinistro prima di essere osservati. Ma il punto è che uno dei due, al momento della misura, potrebbe trovarsi a una distanza tale che nessun segnale fisico potrebbe raggiungerlo. Si tratta di un fenomeno noto come “non località” quantistica, cioè una trasmissione istantanea di segnali a distanza che viola i principi di tutta la fisica precedente, in particolare dell’altro caposaldo della fisica contemporanea, la teoria della relatività di Einstein.
Questi paradossi sono stati a lungo esaminati e confermati dai fisici. Come se ne esce? Rovelli classifica ed esamina brevemente quattro modi in cui si è tentato di risolvere il rompicapo. Il primo è la cosiddetta interpretazione a “molti-mondi”, che gode di credito soprattutto tra fisici e filosofi di area britannica, dove si è sviluppata originariamente. Questa teoria elimina il problema per cui l’atto di osservazione “decide” quali tra le proprietà previste come probabili dalla descrizione di un sistema sia effettivamente reale. Prendiamo il caso della posizione: quando facciamo un esperimento e osserviamo il valore della posizione, l’effetto non è di decidere quale posizione ha realmente la particella; in realtà, al momento dell’osservazione si producono diversi mondi, in ognuno dei quali sono realizzate le diverse posizioni della particella che l’equazione presentava come sovrapposte. In questi mondi esistono anche tanti diversi osservatori che misurano le diverse posizioni, perciò noi stessi, in quanto parte della natura, siamo soggetti alla moltiplicazione. Rovelli – condivisibilmente – accantona questo tipo di ipotesi perché estremamente antieconomica sul piano ontologico: con essa la teoria si salva e funziona, ma al costo di avere una infinita proliferazione di mondi, peraltro inosservabili.
La seconda ipotesi è l’introduzione di variabili nascoste, considerate una rispettabile alternativa da una più piccola ma agguerrita minoranza della comunità scientifica. Nella teoria alternativa, formulata per la prima volta da David Bohm (meccanica bohmiana), la materia è nuovamente fatta di particelle che occupano determinate posizioni e si muovono lungo determinate traiettorie senza che l’osservatore abbia alcun misterioso ruolo nella determinazione di queste variabili. Alle particelle è però associata un’“onda pilota” che si propaga nello spazio e condiziona il movimento di queste particelle, dando conto così degli aspetti ondulatori dei fenomeni quantistici (come i fenomeni di interferenza). In questo modo, si salvano molte delle caratteristiche di una fisica realistica, ma si pongono nuove difficoltà: prima di tutto, la teoria è non locale, cioè assume che degli effetti si trasmettano istantaneamente, il che richiede una profonda modifica della nostra visione della natura; sussistono poi difficoltà tecniche ad applicarla a sistemi di molte particelle e a metterla d’accordo con la relatività; a queste difficoltà, forse superabili, Rovelli aggiunge un’obiezione epistemologica di fondo, sottolineando che l’onda pilota è inosservabile: “Il prezzo da pagare per prendere sul serio questa teoria è assumere l’esistenza di un’intera realtà fisica a noi inaccessibile. Il cui unico scopo, a ben vedere, è solo quello di confortarci rispetto a quanto la teoria non ci dice. Vale la pena assumere l’esistenza di un mondo inosservabile, senza alcun effetto che non sia già previsto dalla teoria dei quanti, con l’unico obiettivo di evitare la nostra paura dell’indeterminatezza?”
C’è ancora una terza proposta, i modelli del collasso della funzione d’onda, introdotti nel 1986 da Giancarlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber (per cui si parla anche di teoria GRW). Stavolta il paradosso è risolto considerando la materia come un’onda, che si localizza spontaneamente in determinate posizioni in caso di interazioni con apparati di misura. Bisogna ricordare che nella meccanica quantistica standard, quella insegnata nei manuali, esiste già il “collasso della funzione d’onda”: si tratta semplicemente di quello che accade quando l’atto di misura determina lo stato di una particella tra quelli probabili descritti nella sua equazione. I modelli del collasso sostituiscono questo misterioso effetto dell’osservazione con un processo fisico descritto all’interno della teoria, e cioè appunto la localizzazione dell’onda. Anche qui c’è un notevole prezzo da pagare: la teoria è nonlocale, come quella di Bohm, e introduce dei parametri stocastici (casuali) nelle sue equazioni, consolidando l’ipotesi che nella natura agisce il caso. Ma questo tipo di teoria salva la rappresentazione della materia, salva le proprietà degli oggetti macroscopici (come i gatti) e non assegna alcun ruolo magico all’osservatore.
Inoltre, particolare notevole, la teoria GRW fa previsioni sperimentali parzialmente diverse dalla meccanica quantistica: è insomma una teoria a tutti gli effetti diversa, che in linea di principio si può confrontare con quella standard mediante opportuni esperimenti. Proprio questa possibilità è in procinto di essere realizzata sotto la guida di Angelo Bassi, uno dei pochi “ribelli” della comunità scientifica – assieme al premio Nobel Steven Weinberg – che credono alle potenzialità scientifiche dei modelli GRW. In realtà, Bassi riconosce che anche questa teoria potrebbe non essere definitiva, ma crede che certamente essa offra un’alternativa preferibile a quella tradizionale e un passo verso una teoria ancora impensata: su questo, Bassi la pensa come Einstein. Lo stesso Rovelli riconosce che la nuova teoria è in fase di ricerca sperimentale, ma scommette che la teoria tradizionale resisterà.
A questo proposito, entra in gioco una dimensione di incertezza che Rovelli considera come caratteristica fondamentale del sapere scientifico, in alternativa alla presunta certezza assoluta che apparterrebbe piuttosto a certe forme di religione. Scrive in Helgoland:
La ricerca della conoscenza non si nutre di certezze: si nutre di una radicale assenza di certezze. Grazie all’acuta consapevolezza della nostra ignoranza, siamo aperti al dubbio e possiamo imparare sempre meglio.
È interessante quindi domandargli: perché i modelli del Collasso, nonostante siano testabili, gli sembrano poco promettenti, e non ci scommetterebbe? “Essere testabile non significa essere plausibile. La possibilità che sulla luna esista una razza di draghetti arancioni che vive dietro i sassi e per ora gli astronauti non l’hanno vista perché si nascondevano è testabile, ma non è plausibile. Se qualcuno proponesse di andare a testare la teoria dei draghetti arancioni sulla luna, io darei parere negativo per spendere energie per questo”. Ci sono infinite possibilità testabili, quello che è interessante non è testarle tutte, perché “testarle tutte è come la strategia di un detective che per trovare l’assassino decida di interrogare uno a uno tutti gli abitanti del pianeta. Prima di arrivare all’assassino passerebbero secoli. Purtroppo la fisica moderna soffre un po’ dell’idea che qualunque cosa non testata sia possibile, e valga la pena studiarla. È un’idea sbagliata, che viene da una lettura superficiale di filosofi come Popper. I modelli di collasso fisici esistenti sono estremamente crudi e così come sono, sono abbastanza implausibili. In più visti da vicino non li trovo concettualmente molto chiari. Comunque ci sono esperimenti in corso, quindi se dovessero essere realistici lo sapremo”.
Tutto è relazione
Di fronte al disorientamento e alla proliferazione di alternative molti scienziati, come ricorda Rovelli, preferiscono prendere la meccanica quantistica come un potente strumento scientifico e rinunciano a comprenderne il significato. Questo approccio, scrive Rovelli, “rinuncia a un’immagine realistica del mondo, al di là di ciò che vediamo o misuriamo. La teoria parla solo di quello che un agente vede. Non è lecito dire nulla del gatto o del fotone, quando non li guardiamo”.
Rovelli, benché insoddisfatto dalle interpretazioni avanzate fino a oggi, non ci sta e insiste: “Il mondo esiste anche se non lo osservo”. La soluzione, allora, potrebbe essere a portata di mano, in piena evidenza come la lettera rubata, nella teoria che già possediamo. Si tratterebbe non di arricchire la teoria con nuovi mondi, variabili o parametri, ma di prenderla alla lettera rinunciando ai pregiudizi. È questo, per Rovelli, uno dei principi del pensiero scientifico:
Non aver paura di ripensare il mondo è la forza della scienza: da quando Anassimandro ha eliminato le colonne su cui si appoggiava la terra, Copernico l’ha lanciata a roteare nel cielo, Einstein ha sciolto la rigidità della geometria dello spazio e del tempo e Darwin ha smascherato l’illusione dell’alterità degli umani… la realtà si ridisegna in continuazione in forme via via più efficaci.
La soluzione di Rovelli – l’interpretazione relazionale della meccanica quantistica – è un ripensamento di questo genere. In breve, per risolvere i paradossi della teoria, si tratta di riconoscere che le proprietà dei sistemi quantistici non esistono indipendentemente dalla loro interazione con gli osservatori, ma sono il modo in cui questi sistemi si manifestano.
La scoperta della teoria dei quanti, io credo, è la scoperta che le proprietà di ogni cosa non sono altro che il modo in cui questa cosa influenza le altre. Esistono solo nell’interazione con altre cose […] è a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati.
È questo il senso di quello che aveva intuito Bohr quando affermava l’impossibilità di separare l’osservatore e gli oggetti osservati: le proprietà sorgono con l’interazione. Rovelli propone così, con fluidità, di risolvere i paradossi della fisica con un esercizio di pensiero.
Invece di vedere il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, la teoria dei quanti ci invita a vedere il mondo fisico come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi.
Questo relazionismo costituisce una posizione radicale che Rovelli presenta come lo sviluppo di tesi già canoniche della fisica moderna. Per esempio, Galilei considerava colori e calore come proprietà secondarie, prodotte dall’effetto del movimento delle particelle sui sensi dell’osservatore, “il corpo sensitivo”. La meccanica quantistica richiede un passo ulteriore e più radicale: anche proprietà come la posizione e la velocità non sono intrinseche a un oggetto, ma dipendono dal suo manifestarsi a un altro oggetto. “Se l’elettrone non sta interagendo – scrive Rovelli – non ha proprietà”.
Già a proposito della fisica di Newton, Kant sosteneva che tutte le proprietà oggettive (incluse le “sostanze materiali”) non sono che “relazioni” interne ai fenomeni, mentre non possiamo affermare nulla su come sarebbero le “cose in se stesse”, a prescindere dal modo in cui le osserviamo e le conosciamo. Diversi filosofi del Ventesimo secolo hanno interpretato la fisica contemporanea sviluppando queste idee kantiane, e alcuni – come di recente Michel Bitbol – hanno apertamente accostato la concezione di Rovelli a questa filosofia neokantiana. Ma come è imparentato questo relazionismo con simili posizioni filosofiche e scientifiche elaborate in passato? “È imparentato strettamente. La critica filosofica alla nozione di sostanza è precedente alle scoperte della fisica quantistica. Molte delle idee che ci permettono di pensare alla meccanica quantistica sono idee di origine filosofica. Quello che è bello in questa relazione è il fatto che esperimenti di laboratorio ci possono spingere verso una posizione filosofica o l’altra. Ci possono aiutare o meno a capire scoperte scientifiche”. Nel libro scrive: “Il mondo è un gioco prospettico, come di specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro”, e commenta: “C’è qualcosa di disorientante in tutto questo. La solidità della realtà sembra sciogliersi fra le nostre dita, in una regressione infinita di referenze”.
Ma questo relazionismo, per Rovelli, non vuol dire che la natura diventi un ammasso disordinato, in cui ognuno ha il suo punto di vista, riducendo la conoscenza a un relativismo puramente soggettivo. Un caso cruciale per capire la posizione di Rovelli è la soluzione del paradosso di Schrödinger. Come dobbiamo considerare i punti di vista diversi di chi non abbia ancora osservato il gatto e chi invece, avendolo osservato, scopre che è vivo? Come evitare la conclusione relativistica che esistano “molti mondi in uno”, e ritrovare l’ordine della natura? “L’ordine è ricomposto dal fatto che i diversi punti di vista non sono monadi indipendenti e incomunicanti”, mi dice. “Sono incarnati in realtà fisiche, in sistemi fisici, che possono essere osservati. Quindi i diversi punti di vista comunicano. La teoria stessa descrive come e mostra la coerenza: se io vedo il gatto addormentato e tu mi chiedi cosa ho visto, poi puoi essere sicuro che anche tu vedrai il gatto addormentato, se lo guardi. È questa intersoggettività che fonda l’immagine oggettiva del mondo. Ma ci sono dei limiti a piccola scala, dove invece l’intersoggettività è limitata e bisogna distinguere ciò che si realizza rispetto a un sistema fisico da ciò che si realizza per un altro”.
La proposta di Rovelli costituisce un modo di fare chiarezza sulle posizioni originariamente elaborate da Bohr e Heisenberg, per stabilire finalmente un principio di intelligibilità della meccanica quantistica, che ha suscitato un notevole interesse tra i filosofi della scienza.
La materia, la mente, il nulla
Posta la sua interpretazione, Rovelli dedica molte pagine a congetturarne le possibili conseguenze per la nostra visione della realtà. Mi limito qui a toccare uno dei temi, di grande interesse, su cui si sofferma: la spiegazione della mente e del suo rapporto con il corpo. Nella scienza moderna il problema è stato complicato, all’epoca di Cartesio e Newton, dalla concezione meccanicistica della materia: se la materia è fatta di volumi di massa inerte, com’è possibile che da essa sorga la mente? Rovelli prende le distanze da tante speculazioni che hanno tentato di collegare, non senza incontrollate fantasie, fenomeni quantistici e coscienza. Ma egli ritiene che la meccanica quantistica, proprio perché fa a meno del concetto tradizionale di proprietà oggettiva, possa aprire uno spiraglio per risolvere il problema: se le proprietà dei corpi sono relazioni, la loro distanza dai fenomeni mentali sembra ridotta.
Questo tipo di ragionamento, per cui il problema del rapporto tra mente e materia si semplifica in base all’analisi dei due concetti, che non appaiono più tanto diversi, è stato proposto più volte nella filosofia e nella scienza moderna. Tra la fine dell’Ottocento e il Novecento scienziati e filosofi come Ernst Mach e William James sostengono che l’Io non è una sostanza, ma un flusso di percezioni in continuo mutamento, tenute insieme solo dalle loro relazioni reciproche; negli stessi anni molti fisici arrivano – per vie diverse e all’epoca ancora congetturali – a sostenere, come scrive Henri Poincaré, che “la materia non esiste”, cioè che la massa delle particelle si risolve in qualcosa di più astratto e diffuso, come il campo o l’energia. In questo contesto, molti cominciano a pensare che mente e materia possano essere due modi diversi di considerare una realtà dello stesso genere, un genere di tesi nota come “monismo” (in opposizione al “dualismo” di mente e materia).
Rovelli sembra allinearsi a questa tradizione, ma in realtà sostiene qualcosa di diverso. Dopo una lunga divagazione su Aleksandr Bogdanov (medico, economista, filosofo, scienziato naturale russo che ebbe un acceso scontro filosofico-epistemologico con Lenin che anticipò, secondo Rovelli, alcuni aspetti del dibattito quantistico) in Helgoland espone la sua prospettiva, che chiama “naturalismo senza sostanza”, secondo la quale esistono solo prospettive diverse interne a un mondo di relazioni, privo di un fondamento sostanziale di qualsiasi genere. Alla base della realtà manifesta, quindi non c’è nulla di oggettivo: c’è il nulla. Rovelli afferma di aver trovato tante “suggestioni” che vanno in questa direzione nelle letture dei filosofi, da Eraclito e Platone ai contemporanei. “Quello che ci interessa davvero dei testi antichi non è cosa volesse inizialmente dire l’autore: è quello che il testo può suggerire oggi a noi”.
Nel complesso, però, Rovelli non riconosce in nessun filosofo una formulazione esattamente coincidente con quello che intende. La cosa più simile la trova in un antico filosofo indiano, Nagarjuna, per il quale tutte le cose (inclusi gli oggetti fisici e l’io) sono vuote, “nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro […] la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è”.
Il mondo è un gioco prospettico, come di specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro – scrive Rovelli. C’è qualcosa di disorientante in tutto questo. La solidità della realtà sembra sciogliersi fra le nostre dita, in una regressione infinita di referenze.
Si tratta di una forte posizione metafisica. Se la intendiamo come un modo di determinare la natura ultima della realtà, questa tesi sembra contraddire il principio affermato da Leibniz secondo cui “in ogni effetto non può trovarsi nulla che non sia già nella causa”. In questa prospettiva, risulta sconcertante pensare che la caleidoscopica e mutevole varietà del mondo sorga dalla “vacuità”. Se le cose stanno così – domando a Rovelli – com’è possibile che tutto il molteplice della realtà provenga dal nulla?
“Non credo che il molteplice della realtà ‘provenga da nulla’. La vacuità non è un nulla da cui il resto proviene. Il molteplice della realtà esiste ed è reale, e non ha bisogno di provenire da qualcosa per esserci. Quello che mi sembra di poter imparare da Nagarjuna è proprio non cadere in domande che non hanno significato, come per esempio ‘da dove proviene tutto?’ Tuttavia, non direi che ho trovato in Nagarjuna le idee più simili a quello che intendo. Nagarjuna ovviamente non sapeva nulla di quanti. Piuttosto, direi che nei suoi testi, così come sono stati discussi ed elaborati attraverso i secoli, ho trovato alcune idee che per me erano nuove e che mi sembrano poter giocare un ruolo per orientarsi nel mondo dei quanti”.