I n “Live in Punkow”, brano-manifesto del 1984, i CCCP cantano “voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia”, mentre nelle interviste di allora parlano del blocco Est come di una certezza intoccabile: un gruppo del genere – che si autodefinisce “filosovietico” e dunque politico, per quanto romantico, provocatorio, contraddittorio – non può sopravvivere al crollo dell’Unione Sovietica. Così, mentre l’URSS è nel caos e il mondo affronta una trasformazione radicale, il 13 settembre 1990 esce il loro ultimo album, Epica Etica Etnica Pathos, testamento di una band che ha fatto scoprire l’alternative e una certa avanguardia alla canzone italiana, ma ormai al termine della propria esperienza. Anche per questo, è un lavoro diverso dai precedenti: per certi versi anticamera dei Consorzio Suonatori Indipendenti (la loro seconda e più tradizionale incarnazione: meno politica, più mistica), si dipana come un concept in quattro sezioni sulla “fine”, sposando un inedito modo “conviviale” di produzione e un suono world stratificato, d’autore.
E, trent’anni dopo, rimane fondamentale per la nostra musica, sia per tematiche – il rifugio nella tradizione delle campagne, la disillusione, la desistenza politica – che per capacità di raccontare, da testimone e protagonista, la fine della guerra fredda e la caduta del socialismo. È la chiusura, insomma, dei CCCP e della loro capacità di coniugare arte e politica, ma ne è anche l’estrema esaltazione, perché racchiude la geografia sentimentale dei luoghi, degli ideali, dell’estetica. Restituendo a pieno, soprattutto, l’identità originale e complessa.
Un’identità che, non a caso, si sviluppa fra l’Emilia e il Muro: nel 1982, Giovanni Lindo Ferretti, all’epoca operatore psichiatrico cresciuto negli Appennini e poi sceso con la madre a Reggio Emilia, lascia l’Italia in preda al rifiuto per il “mondo moderno” e va a Berlino Ovest; lì incontra Massimo Zamboni, con cui instaura una profonda amicizia. Vengono dallo stesso posto, ma non si sono mai parlati prima; vogliono “fare qualcosa”, e la risposta la suggerisce il contesto: il punk. Nascono i CCCP, in cui Ferretti, con gli occhi spiritati e la voce distaccata e austera, canta (o meglio: parla, recita; come dice lui, salmodia), mentre Zamboni picchia sulla chitarra un suono secco e ruvido. Da Berlino, oltre alla passione per l’estetica dell’Unione Sovietica, si portano dietro la suggestione per l’Oriente e l’industrial rock: qualche mese dopo sono di nuovo a casa, a mescolare in maniera assolutamente personale quelle culture distanti, in un progetto avanguardistico che guarda a Mosca ma resta anche italianissimo.
EEEP è la chiusura dei CCCP e della loro capacità di coniugare arte e politica, ma ne è anche l’estrema esaltazione, perché racchiude la geografia sentimentale dei luoghi, degli ideali, dell’estetica.
Ai concerti, infatti, urlano “non a Berlino a ma Carpi”: il socialismo reale, il punk e l’islam vengono ricondotti nelle balere di liscio, alle Feste dell’Unità, nei circoli Arci lungo la via Emilia. Che loro girano come un circo itinerante: al gruppo si uniscono – oltre al bassista Umberto Negri – i performer Danilo Fatur (“artista del popolo”, sempre pronto a denudarsi) e Annarella Giudici (“benemerita soubrette”, invece vestita con abiti oltremodo kitsch); e lo spettacolo diventa provocatorio, iconoclasta, erotico. Uno show di “punk filosovietico”, lo definiscono, perché rifiuta l’Occidente per l’Est (“Spara Jurij”, la stessa “Live in Punkow”; ma anche Punk Islam), ma nei testi entrano anche la provincia italiana, la accuse di decadenza all’Ovest, Reggio Emilia, come nella generazionale “Emilia paranoica”. Spiegheranno nel libro Cccp. Fedeli alla linea (1990):
Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo. Alla plastica l’acciaio, alla freddezza il calore, ma al calore la freddezza. Ognuno ha l’immaginario che si merita.
E quella del “filosovietismo” è una posizione che – per l’Ovest dell’epoca – Ferretti definisce “una bestemmia laica”, per quanto non perda occasione di ribadire che riguardi più le immagini e la provocazione pura che la politica – anche se, in ogni caso, i quattro dichiarano tutti di votare PCI.
L’esordio 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età (1986) li trasforma quindi in un fenomeno culturale, e oggi – fra cover, citazioni, slogan (“Produci, consuma, crepa”) e riferimenti – è uno dei lavori più influenti della nostra musica, avendo dato spazio di manovra a due generazioni di indipendenti. È un punk ruvido, spartano, con basso e drum machine a puntellare uno scheletro retto dalla chitarra di Zamboni e dalle declamazioni di Ferretti, pieno di suggestioni reggiane ed eurasiatiche. C’è “Io sto bene”, ritratto dei giovani della provincia “cronica” (“Non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport”), “Emilia paranoica” affianca “Noia e Allarme” fra angoscia ed evasione, spuntano l’elemento amoroso-grottesco (“Mi ami?”) e la poesia (“Morire”). E, soprattutto, c’è l’opener CCCP, con uno slogan (“Fedeli alla linea”) seguito dalla smentita (“…ma la linea non c’è”) che racchiude già le contraddizioni di una band da lì in poi in bilico fra devozione e parodia, provocazione e sincerità.
L’album, infatti, è un successo che li porta a firmare con una major, la Virgin. Qualcuno sogghigna: “Fedeli alla Lira”. Intanto, Ferretti vive di eccessi, il progetto sbanda di fronte ai grandi numeri e lo protegge Amanda Lear (con cui collaborano in una cover di “Tomorrow”). Poi escono altri due dischi, che moltiplicano le sfumature di un’estetica sempre più contraddittoria e kitsch: da un lato, l’epica devozione di “A ja ljublju SSSR” e il socialismo di “Manifesto”; dall’altro, le aperture all’Asia (“Hong Kong”), alla religione (“Madre”), al pop (“…And the radio plays”), al reggae (“Per me lo so”). I pezzi non sono più schegge punk, ma la formula – al di là dei buoni riscontri commerciali e di una dirompente forza immaginifica – sonora si appiattisce su sterili soluzioni sintetiche, “di plastica”.
Sembrano al capolinea, ma la svolta – anche qualitativa – di Epica Etica Etnica Pathos arriva proprio dall’Unione Sovietica, quando nella primavera del 1989, in una sorta di “scambio culturale”, il Cremlino li invita – insieme ai Litfiba – a Mosca e Leningrado per due live. Per la prima volta Ferretti e Zamboni oltrepassano il Muro, trovando un paese scoperchiato dalla perestrojka, sull’orlo del collasso; in risposta, imbastiscono il loro spettacolo più erotico e provocatorio di sempre, per avvisare i russi che non avrebbero dovuto aspettarsi “niente di buono” dall’Occidente. Infine, quando al culmine dello show suonano “A ja ljublju SSSR” e i soldati all’interno del palazzetto si alzano in piedi, il cortocircuito è all’apice, e il limite fra parodia e tributo su cui avevano giocato per anni raggiunge il proprio scopo. Dirà Ferretti:
Era l’apoteosi della storia dei CCCP. Usciti di lì, i CCCP non avrebbero potuto dare più nulla. Dopo aver cantato a Mosca, con addosso i postumi di una sbronza colossale, nel mezzo di uno spettacolo secondo me straordinario, con i militari in piedi durante
A Ja Ljublju SSSR; che altro potevo chiedere?
Con la consapevolezza di aver esaurito un ciclo e la prospettiva della scomparsa dei loro riferimenti, insieme a Zamboni inizia a meditare la fine del progetto. Ma con una novità fondamentale: in viaggio i due hanno conosciuto Gianni Maroccolo, bassista dei Litfiba, fra i più importanti di quella generazione, che qualche mese dopo, di fronte al cambio di stile della coppia Pelù-Renzulli (dalla new wave all’hard rock), lascia la band fiorentina per entrare nei CCCP, seguito dai compagni Francesco Magnelli (tastiere), Ringo De Palma (batteria) e il fonico Giorgio Canali (da lì in poi alle chitarre). I nuovi CCCP contano quindi otto elementi (del nucleo originale restano, oltre agli stessi Ferretti e Zamboni, Annarella e Fatur), e nella primavera del 1990 si stabiliscono nella campagna reggiana vicino Rio Saliceto, a villa Pirondini, in una casa colonica settecentesca abbandonata. Il Muro è già in macerie, mentre l’idea è impiegare quella convivenza per concepire e registrare in presa diretta un disco che utilizzi l’eco degli ambienti domestici al posto della sala d’incisione – “Tutto lo sporco degli anni ’90 con la tecnologia degli anni ’70”, scriveranno sulla copertina realizzata da Luigi Ghirri, che come fotografo seguirà quelle sessioni. Il risultato dopo mesi di lavoro è, appunto, Epica etica etnica pathos, concept in quattro sezioni i cui pezzi sono co-firmati anche da Maroccolo e Magnelli: esce a nome CCCP, ma di fatto si tratta già di una band diversa.
In primis, a livello tecnico. Come racconterà Zamboni a Repubblica, “era la prima volta che [io e Ferretti] incontravamo musicisti ‘capaci’. E ampliare gli arrangiamenti, fare qualcosa di diverso dal nostro stile iniziale fu qualcosa di naturale”. Il gruppo, prima prigioniero di suoni sintetici, grazie agli ex Litfiba scopre quindi un’inedita profondità fra world music, sensazione rupestri, musica etnica e virate austere e liturgiche. Ci si allontana dal punk, gli arrangiamenti diventano curati e stratificati con cori e distorsioni (merito di Canali), su strutture articolate (“Maciste contro tutti” è un tour de force che mescola registri diversi per quasi dodici minuti), mentre lo stesso Ferretti – pur mantenendo un tono ieratico – lascia in parte lo spoken per seguire le linee melodiche, come poi avverrà in futuro.
Per il resto, per evitare di scadere nella riesumazione posticcia dell’Est, i CCCP ripensano i propri riferimenti, scegliendo soluzioni più auliche nei testi e meno provocatorie ed esplorando le loro contraddizioni secondo quattro blocchi tematici: l’epica, l’etica, l’etnica e il pathos. Nel primo, svetta il canto gregoriano-provinciale di “Aghia Sophia”, che col suo incedere marziale riporta nella dimensione di paese quattro anni dopo “Io sto bene”, fra cori eucaristici, domeniche di noia e tossicodipendenza (“Tedio domenicale: quanta droga consuma. / Tedio domenicale: quanti amori frantuma”), ma subito dopo tornano già l’Oriente e i riferimenti religiosi e mistici di “Paxo de Jerulasem”, una new wave in stile Litfiba in cui è evidente la mano di Maroccolo. L’etica, invece, recupera la canzone politica, stavolta declinata per la fine dell’impero: la spettrale “Narko’$ (contiene Baby blue)” denuncia che “il mondo si sgretola e rotola via”, mentre la disillusa “Depressione caspica” – con dilatazioni dub e cantato ipnotico di Ferretti – cita una “pingue immane frana” nell’ideologia. Non c’è più tempo per riprendersi dal dramma collettivo: “No, non ora, non qui”.
Il rifugio, allora, oltre al rifiuto della vita urbana di “Campestre”, è la tradizione (etnica), che sia nei canti calabresi di “In occasione della festa”, in quelli arabi di “Al Ayam” o nel tango scheletrico da balera “Amandoti”, unica, classica canzone d’amore della loro discografia, che nelle mani di Gianna Nannini diventerà un formidabile singolo pop perdendo però la sua disperazione intrinseca (“Amarti m’affatica, / mi svuota dentro; / qualcosa che assomiglia / a ridere nel pianto”). Ma la politica torna persino in questa terza sezione, col rock casalingo “L’andazzo generale” che scandisce a mo’ di mantra un “Cosa nostra, colpa nostra”. Per quanto è soprattutto in pathos che Ferretti lancia l’anatema più nero della propria discografia, con la suite alt-rock “Maciste contro tutti” che – mentre il gruppo e il suo immaginari recitano il testamento – urla rivolto al domani un “Soffocherai tra gli stilisti, / imprecherai tra i progressisti, / maledirai la Fininvest, / maledirai i credit cards“. È il culmine di un crescendo di quattordici tracce, di cui in chiusura resta un epitaffio malinconico: lo struggente valzer di “Annarella”, una ballata che riprende l’amore di “Mi ami?” spogliandolo del grottesco e rivestendolo d’intimità, individuando nell’emozione passeggera e nel romanticismo insensato l’unico involucro in cui spegnersi senza soffrire (“Lasciami qui, lascia che sia così / non dire una parola che non sia d’amore”).
Con Epica Etica Etnica Pathos, oltre a firmare il disco più iconico da Affinità-divergenze e più articolato a livello strumentale e compositivo, Ferretti e Zamboni tornano quindi a fare ciò che li ha resi unici nella musica italiana: prendere riferimenti e sonorità dall’alt-rock, dall’Oriente e dalle balere dell’Emilia per ricondurre il tutto dentro la loro personalissima estetica punk e provocatoria, internazionale e reggiana. E stavolta, poi, con una ricerca sonora senza eguali nella loro discografia, affrontano per l’ultima volta la propria irripetibile natura politica e collettiva, in un viaggio al termine dell’utopia socialista e della musica filosovietica, al tempo stesso aperto e dubbioso alle incognite di un futuro in cui non hanno più motivo di esistere.
Ma i concerti della band – che nel frattempo, da mesi, si aprono con la sigla “L’importante è finire” di Mina – non fanno in tempo ad accogliere questo lavoro: un mese dopo l’uscita, il 3 ottobre, il gruppo si scioglie. Tornerà nel 1992, con la stessa ossatura (però senza Annarella, Fatur e De Palma, che sarebbe morto per overdose nel giugno del 1990) ma sotto il nome di Consorzio Suonatori Indipendenti (C.S.I.); e ripartiranno con un impianto estetico e sonoro meno avanguardista, più tradizionale e vicino al rock d’autore, rinunciando in parte alla canzone politica per il misticismo e l’esistenzialismo, e cancellando del tutto l’estetica d’impatto e provocatoria degli esordi. Infine, al termine dei Novanta, l’amicizia fra Ferretti e Zamboni si spezzerà, la band si perderà in progetti paralleli, carriere soliste e rivisitazioni, con un radicale ripensamento ideologico dello stesso cantante – a oggi quasi un eremita tornato a vivere sugli Appennini, irremovibile su posizioni reazionarie, di destra e ultra-cattoliche. Ma nessun disco che avrebbero pubblicato dopo il 1990, sotto qualsiasi nome, avrebbe avuto il peso di Epica etica etnica pathos, che è testamento impellente e sincero di un’epoca, di un credo, delle sue contraddizioni. E della band che, da sola, aveva rappresentato tutto ciò.