S ono state moltissime le iniziative di quotidiani, riviste e case editrici per dare una forma e uno spazio alle riflessioni suscitate dalla pandemia di COVID-19 ancora in corso e dal confinamento di cui abbiamo fatto esperienza in Italia da marzo a maggio del 2020. Nottetempo ha creato una collana: “Semi”, ebook fatti circolare gratuitamente, che affrontano le tematiche più urgenti emerse in questo frangente storico tragico e inedito. Democratizzare la cura / Curare la democrazia di Giorgia Serughetti è uno di questi semi.
La connessione tra COVID-19 e cura sembra talmente scontata che potrebbe rivelarsi uno dei cosiddetti falsi amici, che ingannano e inducono all’errore quando si studia una lingua straniera. Il testo di Serughetti non si concentra sul sistema sanitario nazionale, su come abbia funzionato o fallito, ma si inserisce in un filone di quella “letteratura sociologica e filosofica” che studia da anni il concetto di cura e la sua importanza politica, sorto prima negli Stati Uniti e sviluppatosi poi in alcuni paesi europei.
Come giustamente ricorda Serughetti cura è una “parola che in italiano è gravata da non poche ambivalenze”. La questione lessicale non è affatto secondaria anche in altre lingue nazionali: per esempio Pascale Molinier (“Care”: prendersi cura. Un lavoro inestimabile, Moretti e Vitali, 2019), studiosa francese che da anni lavora sul tema, ha deciso di non tradurre la parola inglese care proprio perché essa contiene in sé una molteplicità di significati. Quelli fondamentali su cui concentrarsi per addentrarsi nel testo di Serughetti sono che la cura è un lavoro, svolto per la maggior parte da donne, povere e immigrate, e che essa sta al centro di questioni politiche e sociali cruciali, quali per esempio il conflitto tra lavoro produttivo e riproduttivo e discriminazioni di genere. Per esempio, durante il confinamento
Le donne hanno svolto e continuano a svolgere gran parte del lavoro di riproduzione sociale: per ogni bambina o bambino che non va a scuola, per ogni familiare malato, per la conduzione della casa, per le necessità di alimentazione, vestiario, pulizia. Un carico, quello domestico, che per molte donne si aggiunge alle ore di smart working, nonché alle occupazioni extra-domestiche. Le donne, per esempio, costituiscono i due terzi del personale del servizio sanitario nazionale.
Dalla mancata condivisione equa del lavoro domestico e di cura più in generale, Serughetti muove su questioni di filosofia politica che intendono mostrare come la cura possa essere la chiave di volta per un futuro che faccia tesoro dell’esperienza tragica della COVID-19: “con lo scoppio della pandemia, l’insufficienza di tutti i sistemi di cura iscritti nella logica neoliberale è balzata agli occhi”. Oltre a questo dato incontrovertibile, al fatto cioè che ciò che è accaduto per esempio nelle case di ricovero per anziani ha reso evidente per tutti la barbarie del sistema, Serughetti fa un passo ulteriore rispetto all’esperienza dei mesi scorsi: “nella pandemia siamo tutte e tutti vulnerabili”.
Sarebbe stato più giusto dire che siamo sempre vulnerabili perché dotati di un corpo mortale e fragilissimo, nonché sempre dipendenti dagli altri, ma certamente, come scrive Serughetti, la pandemia ha fatto particolare luce su questi aspetti della condizione umana. Ciò che conta è che “l’enfasi posta sulla vulnerabilità come condizione endemica e universale induce un completo rovesciamento dello sguardo sulla politica, rispetto a una tradizione che ha espulso il corpo (e le donne, insieme ad altri soggetti inferiorizzati) dalla polis”.
Custodire la consapevolezza di questa vulnerabilità, di quanto la vita sia prima di tutto quella del corpo, di come sia importante proprio ciò che vorremmo dimenticare (che siamo dipendenti da chi si prende cura di noi e dallo spazio pubblico e domestico in cui abitiamo), comporterebbe un cambiamento nelle nostre democrazie. Un cambiamento che Serughetti dimostra essere necessario, in questo pamphlet che ha anche l’indubbio merito di far circolare alcuni studi fondamentali sul tema della cura, che spesso non trovano il giusto spazio nel dibattito femminista italiano.
La contingenza epidemica e il conseguente confinamento a cui ci hanno sottoposti, isolandoci, così come le misure, necessarie, di distanziamento sociale che sono ancora in vigore, costituiscono, come nota Serughetti, una prospettiva privilegiata da cui riflettere sulla cura. Se infatti la cura intesa come dispositivo critico induce a soffermarsi sulla vulnerabilità condivisa da contrapporre all’invincibilità del self made man, essa ci costringe nella dinamica relazionale. La cura, infatti, è costituzionalmente una relazione: tra chi è nel bisogno e chi se ne occupa.
Ora la distanza che dobbiamo mantenere come prevenzione al contagio non rappresenta solo un rischio per la vita sociale del singolo, ma per la comunità e, ampliando lo sguardo, per la democrazia. Serughetti cita Roberto Esposito e i suoi studi sull’“immunità come contrario di comunità”. Il filosofo, interpellato durante il confinamento, ha ricordato come la necessità di proteggersi dal contagio fosse necessaria, ma ugualmente importante è non superare il limite per cui la protezione si trasforma in negazione. Serughetti inserisce a questo punto della riflessione la cura come monito alla relazionalità:
Il tema non è dunque mettere in discussione la concretezza del pericolo, ma mettere in guardia contro esiti capaci di minare il senso di relazionalità di cui le nostre vite sono intessute. Solo se la tentazione immunitaria non prevarrà sulla forza dell’evento pandemico, se la forza che questo ha avuto nello svelare agli esseri umani la loro condizione vulnerabile saprà durare e tradursi in politica trasformativa, potremo mettere al centro la cura come capacità di preoccuparsi degli altri, ma anche di occuparsi attivamente di loro.
Nel momento in cui la cura fa capolino nella riflessione politica, però, si va incontro a quello che Serughetti definisce un “fraintendimento: si sta forse facendo appello a un modello di Stato che si comporti verso i cittadini come una madre verso i suoi figli?”. No, si tratta di una visione che pone al centro della riflessione politica i bisogni dei corpi, a partire dalla necessità di salvaguardarli e di prendersi cura al contempo dell’ambiente in cui abitano. Joan Tronto e Berenice Fisher (Toward a feminist theory of caring, Suny Press, 1990) infatti definiscono la cura come “un’attività della specie che comprende tutto ciò che facciamo per mantenere, perpetuare e riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere al meglio. Questo mondo include il nostro corpo, il nostro io, il nostro ambiente”.
È risultato evidente da subito che al cuore della pandemia ci fosse uno scontro tra la necessità di curare e salvare vite umane e l’economia. Segno di una assuefazione per la quale accettiamo di vivere in un sistema socio-economico in cui “le ragioni dell’economia (…) appaiono incompatibili con quelle della vita”. La cura, come scrive Serughetti, può rappresentare uno strumento molto utile per affrontare questa aberrazione, perché se nel sistema dominante gli interessi economici sono in contrapposizione con la manutenzione e la salvaguardia del vivente “significa che il capitalismo così come attualmente lo conosciamo non è compatibile con la democrazia”.