L a più delicata delle transizioni”. È la formula che Philippe Lacadée propone, citando Victor Hugo nei suoi lavori, a proposito dell’adolescenza. Transito delicato, viaggio non esente da rischi, precario, fragile. È l’adolescente che transita? Forse, ma sarebbe più preciso dire che l’adolescente è piuttosto il luogo di una transizione, di un processo che spesso non coincide con l’io, ma che è vissuto come un’alterità, con sensazioni di spaesamento, di estraneità. Potremmo dire che l’adolescente è il soggetto della transizione, colui cioè che soggiace e che dovrà fare i conti, che dovrà sbrogliarsela con qualcosa che succede al di là delle sue intenzioni e volontà.
A transitare, nel periodo cosiddetto dell’adolescenza, a “migrare” come un popolo in cerca di nuove terre, dice Freud, è ciò che in psicoanalisi chiamiamo libido, termine caduto un po’ in disuso e che per semplicità possiamo dire che è ciò che si esprime, si manifesta nella ampia e multiforme dimensione della sessualità. Generalmente si individuano questi transiti innanzi tutto nel corpo, con la maturazione in atto del corredo biologico destinato alla genitalità e con la definizione dei caratteri sessuali. Ma la cosa su cui vogliamo qui concentrarci è un’altra: le migrazioni e i movimenti della libido si producono, si manifestano e si fanno sentire nel corpo, come turbamenti emotivi, subbugli, agitazioni, e contemporaneamente fuori corpo, giacché è fuori di sé che il ragazzo o la ragazza proiettano il proprio desiderio e vanno alla ricerca di personaggi, miti, narrazioni presso cui rappresentarsi, ovvero presso cui rappresentare la libido.
Freud parla di “investimento libidico”: come in economia, io investo quote della mia energia (monetaria o libidica) in oggetti della realtà esterna che, in cambio, mi procureranno qualcosa in termini di guadagno. Sta qui uno dei punti chiave della teoria psicoanalitica, secondo cui lo psichismo – facoltà di rappresentazione del mondo, di trasformazione delle percezioni istantanee in immagini e pensieri costanti, durevoli – è un processo che si muove tra l’interno e l’esterno del corpo, o per meglio dire, dell’organismo. Se prendiamo come riferimento l’organismo, possiamo dire che l’apparato psichico si costituisce in una zona di interfaccia tra il dentro e il fuori. Didier Anzieu ha usato l’immagine della pelle per parlare di questa zona di confine tra l’interno e l’esterno dell’organismo, mentre Lacan ha inventato il mito della lamella (una lamina ultrasottile) per dare l’idea di un’interiorità profonda dell’umano (la pulsione) che si esteriorizza e investe il campo sociale, e solo lì, esteriormente, produce i suoi effetti e si rende in qualche modo conoscibile. Realtà interna e realtà esterna dunque si compenetrano e confondono già da sempre.
“La libido è la lamella che fa scivolare l’essere dell’organismo al suo vero limite, che va oltre il limite del corpo”. Dovremmo considerare la libido come un organo, suggerisce Lacan, uno strumento grazie a cui ciò che c’è di sessuale, libidico, desiderante nell’organismo si sposta dal suo luogo fisico, “passa sotto le porte” e investe il campo sociale, si localizza su oggetti, immagini, situazioni che procurano godimento per un verso, identificazione per l’altro verso.
Dovremmo considerare la libido come uno strumento grazie a cui ciò che c’è di sessuale, libidico, desiderante nell’organismo si sposta dal suo luogo fisico e investe il campo sociale.
Con questa premessa teorica, possiamo meglio comprendere il rapporto tra ciò che intendiamo per adolescenza e la moltitudine di oggetti, figure, identità, culture e soprattutto immagini che troviamo nel mainstream, il grande flusso delle “informazioni”, ciò che punta a “modellare secondo una forma”, come scrive Jacques-Alain Miller. Quello che in adolescenza cerca una forma, un rappresentante, è come abbiamo visto la libido, quei turbamenti intimi di cui ragazzi e ragazze testimoniano e per cui spesso non si hanno nomi, parole, possibilità di ben-dire. “L’eccedenza sessuale”, dice per l’appunto Lacadée, “impedisce la traduzione in immagini verbali”. Ricerca di una forma, ma non una qualsiasi; occorrerà una forma che sia particolarmente “eccessiva”, tanto quanto lo è la “eccedenza” libidica che in questo periodo della vita il soggetto sperimenta. Sta qui lo specifico, il punto di contatto tra qualcosa come un’esigenza strutturale dell’adolescente e le varie culture e mode che riescono a entrare in contatto con esso, e che si danno il cambio con tempi sempre più veloci.
Ci interroghiamo qui sull’elemento della violenza nelle culture frequentate da ragazzi e ragazze alle prese con le loro transizioni. Parliamo di culture rigorosamente web, giacché si tratta di fenomeni che si danno non certo nelle piazze o nei parchi. Computer e smartphone sono i luoghi fisici dove scorrono i flussi dell’immaginario contemporaneo, la cui fruizione, fino a pochi anni fa, era limitata nel chiuso della cameretta, mentre oggi il contatto è pressoché continuo.
Innanzitutto, di cosa parliamo quando parliamo di violenza? Potremmo dire così: violenza è tutto ciò che vìola una legge, che infrange un limite simbolico. Nella prospettiva psicoanalitica, possiamo ad esempio parlare di violenza quando siamo in presenza di infrazioni della legge della parola, una legge non scritta ma al contempo consustanziale all’essere umano, che prescrive che ogni soddisfazione pulsionale debba passare dal circuito della parola e, dunque, dall’Altro, giacché la parola è il principale luogo dell’alterità umana. La parola, prima ancora di essere il “mio” mezzo di espressione, è ciò che viene dall’Altro, ed è anche ciò che altera tutto ciò che presumo essere mio proprio, in primis il mio corpo.
Con “circuito della parola” ci riferiamo non tanto, o non solo, alla sfera del verbale, al linguaggio, ma più in generale a tutto ciò che si rivolge a qualcuno o qualcosa; anche un comportamento, un tic, un sintomo possono essere messaggi rivolti a qualcuno o qualcosa. Parlare di “circuito” a proposito della legge della parola si presta, inoltre, piuttosto bene a quello che dicevamo riguardo la libido e dei suoi transiti. Uno dei compiti più complicati con cui l’adolescente si confronta è l’annodamento tra libido e parola, la “circuitazione” della eccedenza sessuale nel campo della parola, motivo per cui notiamo spesso quella particolare affezione al turpiloquio, linguaggi fioriti di parole “forti” in cui possiamo ipotizzare all’opera un lavoro di traduzione della eccedenza in parole.
Saremo dunque in presenza di violenza propriamente detta quando ciò che fin qui abbiamo chiamato “libido” o “pulsione” o “eccedenza” non si manifesta, annodata alla parola, come messaggio o lettera rivolti a qualcuno o qualcosa (fosse anche nella forma di un agito), ma bensì pretende di realizzarsi senza mediazione alcuna, direttamente, “autenticamente”. È ciò che suggerisce Jacques-Alain Miller quando dice che “la violenza non è un sintomo”, e che anzi essa è “il contrario di un sintomo”, cioè il contrario di un messaggio. La pulsione che si realizza cortocircuitando la dimensione della parola produce episodi di violenza.
La violenza, elevata e sublimata nella dimensione letteraria o musicale o artistica, dunque stornata dalla tendenza al passaggio all’atto nel reale, non è più violenza.
Se questo è vero, risulta difficile parlare di violenza a proposito di qualsiasi tendenza, moda o cultura contemporanee, per il fatto stesso che, di per sé, esse sono già espressioni mediate della libido. La violenza, elevata e sublimata nella dimensione letteraria o musicale o artistica, dunque stornata dalla tendenza al passaggio all’atto nel reale, non è più violenza. Possiamo allora fare un distinguo tra violenza reale, che ha a che fare con il passaggio all’atto e con l’agito “fuori senso”, e violenza simbolica, che è più dell’ordine della trasgressione e riguarda un conflitto nella dimensione delle idee e delle rappresentazioni.
Ora, notiamo che c’è un rapporto molto stretto e di vecchia data tra violenza simbolica, o trasgressione, e ciò che fino a non molti anni fa si era soliti chiamare “controculture”. La storia del rock, per prendere un esempio paradigmatico, potrebbe essere sintetizzata come la storia delle rotture e delle sovversioni rispetto a quelli che di volta in volta si sedimentavano come canoni estetici dominanti. Dal rock’n’roll all’hard rock, dal punk al grunge, passando per post-rock e post-punk fino ad arrivare al noise, l’elemento principale per passare oltre il genere consolidato è sempre la destrutturazione, la rottura. Dobbiamo riconoscere un certo ruolo di questa violenza simbolica nei momenti di nascita delle varie controculture che hanno scandito i ritmi estetici del Novecento. Nel 1909 Filippo Tommaso Marinetti scriveva nel Manifesto del Futurismo: “La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”. Mentre nel 1930, André Breton dice nel Secondo manifesto del Surrealismo: “L’atto surrealista più semplice consiste nello scendere per strada, pistole alla mano, e sparare a caso sulla folla, fino a quando si può”.
Di volta in volta, assistiamo a ciò che potremmo tentare di delineare come una logica: 1) Momento della rivolta, cioè della negazione, quando non del rifiuto o del rigetto, dello status quo; 2) rottura o sovversione; 3) creazione artistica di qualcosa di inaudito, del nuovo, dell’utopia. Un’analogia con il movimento caratteristico di quella trasformazione che definiamo adolescenza balza all’occhio. Quel soggetto impegnato nella trasformazione di ciò che non è più in ciò che non è ancora, quel transito in atto che chiamiamo adolescente, è colui che è impegnato nell’invenzione di un sapere nuovo sulla vita e sul godimento, colui che dovrà rimescolare le carte in tavola (le carte del sapere familiare) dal momento che una questione inedita gli si pone, quella del “risveglio di primavera” della sessualità in tutta la sua potenza, che come dicevamo va oltre i limiti dell’organismo.
Fino a un certo momento, la storia delle controculture ha seguito la logica che abbiamo visto, per cui l’istante del “No”, della rivolta e della ribellione culturale, si espandeva, prendeva corpo, tempo e spazio nella costruzione di un movimento, un’arte, una cultura nuovi, al cui interno si dispiegava un programma, l’invenzione di un futuro, di un orizzonte verso cui guardare e camminare. Avvicinandoci ai giorni nostri, accade in questa storia qualcosa che non è più inquadrabile secondo lo schema che abbiamo delineato. Negli anni ’70 nasce il movimento punk, che porta in sé, forse per la prima volta nel corso degli avvicendamenti culturali, un elemento che potremmo dire di pura negazione, che si condenserà nello slogan “No future”, tratto da uno dei maggiori successi dei Sex Pistols, God save the queen. “No future in England’s dreaming” urlava Johnny Rotten nel 1977, anno che per molti segna un punto di svolta. La generazione che si affaccia sui rampanti, edonisti, liberisti e kitsch anni Ottanta lancia un allarme: “Non si vede più il futuro”.
Quel soggetto impegnato nella trasformazione di ciò che non è più in ciò che non è ancora, quel transito in atto che chiamiamo adolescente, è colui che è impegnato nell’invenzione di un sapere nuovo sulla vita e sul godimento.
Secondo diversi autori, intorno al 1977 si avvia un nuovo periodo storico all’interno del quale la logica rottura-trasgressione-sovversione non spiega più la produzione di quelle che si definivano avanguardie o controculture. La distinzione tra cultura di massa, da una parte, e controcultura, che si produceva per rotture e sovversioni, dall’altra, non è più così marcata. Le cause di questo mutamento sono chiaramente molteplici e complesse. Per ragioni di spazio, qui seguiamo una pista singola, in tutta la sua limitatezza, su cui però buona parte dei critici della nuova medialità sembra convergere.
“La generazione che viene al mondo negli anni Ottanta è destinata a essere la prima generazione videoelettronica, la prima che si forma in un ambiente in cui la mediatizzazione prevale sul contatto col corpo umano”, scrive Franco “Bifo” Berardi. Con l’avvento del cyberspazio, di internet e del world wide web, la dimensione del sociale si trasferisce progressivamente e inesorabilmente nella Rete, per diventare social network. Tra le altre cose, il sociale è quel luogo in cui si danno conflitti intergenerazionali, rotture e trasgressioni, conformismi, divergenze controculturali e tante altre dinamiche transindividuali. Tutto questo, con l’avvento dei nuovi media, si trasferisce, e progressivamente si trasforma in ciò che oggi definiamo social network. Parliamo di una vera e propria mutazione antropologica: la macchina, che l’uomo ha inventato e a lungo comandato, da sempre a lui esterna, oggetto nelle sue mani, si fa progressivamente più vicina, fino a entrare in rapporti sempre più intimi e “organici” con il corpo umano. Nello stesso periodo, assistiamo infatti allo sviluppo del genere cyberpunk e del personaggio del cyborg, l’ibridazione tra l’uomo e la macchina.
Ma cosa sono, nello specifico, il cyberspazio e il social network? Scrive sempre Bifo in Dopo il futuro:
Ciberspazio è la sfera di interazione di innumerevoli fonti umane e macchiniche di enunciazione, la sfera di connessione tra menti e macchine: questa sfera è in espansione virtualmente illimitata, può crescere indefinitamente, perché essa è il punto di intersezione del corpo organico con il corpo inorganico della macchina elettronica. Ma lo stesso non si può dire del cibertempo.
Il cibertempo è la faccia organica del processo, il tempo necessario perché il cervello umano possa elaborare la massa di dati informativi e di stimoli emozionali provenienti dal ciberspazio. Il cibertempo non è illimitatamente espandibile, perché la sua espansione è limitata da fattori organici, culturali, emozionali, storici. Si può espandere la capacità di elaborazione del cervello con droghe, con l’addestramento e l’attenzione, e con l’ampliamento delle capacità intellettuali, ma il cervello organico ha limiti che sono connessi con la dimensione emozionale e sensibile del sistema cosciente
È come se tutto ciò che prima si muoveva su un piano prettamente simbolico, cioè ben presente a tutti ma in fondo trascendente, ambiguo, inafferrabile nella sua concretezza, trovi ora nel cyberspazio una grande superficie di iscrizione e di produzione. Non più i luoghi mentali del pensiero, dell’immaginazione, delle fantasmagorie, ma un’unica grande rete che connette tutto e tutti. Che ne è dunque di quella linea di fuga che chiamiamo utopia o futuro, quando tutto è già qui?
Il futuro appare preso in questa contrazione ciber-temporale. Appiattito dalla saturazione dell’attenzione. Il presente è talmente denso che il cervello non può staccarsene, non può proiettare la sua esperienza al di fuori del momento presente. Per proiettare la profondità temporale la mente ha bisogno di disporre gli oggetti mentali in prospettiva, di elaborarne la relazione, la successione, la potenzialità. La saturazione del cervello sociale da parte degli stimoli informativi tende a impedirlo. Il futuro diviene inimmaginabile.
In questa nuova configurazione psico-sociale, la tecnologia ha un ruolo predominante. Per un verso, niente accade, nessun evento si dà fuori dal social network; al contempo, gli eventi di cui esso si nutre e che scorrono sulle “bacheche” dei social media vanno tutti a costruire questa specie di pasticcio che è il presente saturato di cui parla Bifo.
Nel piano di immanenza del sociale evoluto in social network non c’è modo di rompere e sovvertire l’ordine per dare vita, tramite una “slogatura” del presente, al nuovo, all’inedito, al limite all’utopia, dunque al futuro. Sembra invece che “nuovo” e “presente” siano congiunti fino quasi alla coincidenza, costituendo la trama stessa del cyberspazio. Tutto il presente è già nuovo, e il nuovo è già qui. Nella storia recente delle ultime ondate di controcultura musicale, nessuno, dice Mark Fisher, ha incarnato e sofferto questo stallo più di Kurt Cobain.
Con la sua straziante inedia, con la sua rabbia senza scopo, il leader dei Nirvana sembrò l’esausta voce dell’avvilimento che attanagliava la generazione venuta dopo la fine della storia, la stessa generazione cui ogni singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e venduta prima ancora di compiersi. Cobain sapeva di essere soltanto un altro ingranaggio dello spettacolo, che su MTV niente funziona meglio della protesta contro MTV; sapeva che ogni suo gesto era un cliché già scritto, e che persino questa consapevolezza era essa stessa un cliché.
In tale trionfo dell’immaginario, in cui il simbolico stesso si dedica all’immagine – “come nei nostri computer, dove il simbolico si dissimula in quanto hardware, dietro lo schermo su cui esso appare come sembiante”, osservano Miller e Laurent – in questa nuova cornice mediatica occorre collocare le nostre riflessioni su adolescenza, cultura e violenza. Possiamo allora ipotizzare che una ripercussione importante del divenire social del sociale sia rintracciabile nel passaggio da quella che prima indicavamo come una violenza simbolica a un tipo di violenza che possiamo facilmente dire immaginaria. Non assistiamo più, cioè, a quella logica per cui il conflitto per l’egemonia culturale si giocava a colpi di produzioni e invenzioni su un piano concettuale, estetico e culturale. L’orizzontalità della rete, il peer to peer, un certo ideale di comunicazione e partecipazione democratiche, sono tutte coordinate che veicolano un altro tipo di composizione del conflitto tra due o più rappresentazioni della realtà, che indichiamo come immaginario nel senso in cui Jacques Lacan parla di questo registro dell’esperienza umana. La violenza nell’immaginario prende le forme della guerra, dell’ingiuria, della denigrazione di un personaggio ben preciso, un alter ego, cioè un mio simile, un prossimo. È il dissing tra io. In un tempo in cui anche le più alte cariche istituzionali, con tutto il valore simbolico che l’ordine del discorso politico riserva loro, abitano i social e li scelgono come terreno preferenziale per comunicazioni, interventi e dichiarazioni, non sarà strano vedere all’opera lo stesso tipo di conflitto che si può osservare tra dirimpettai.
La violenza nell’immaginario prende le forme della guerra, dell’ingiuria, della denigrazione di un personaggio ben preciso, un alter ego, cioè un mio simile, un prossimo. È il dissing tra io.
I fenomeni di interesse del momento sono calcolati in base a “milioni di visualizzazioni” e like totalizzati, mentre il messaggio, il concetto, la produzione artistica o culturale sembrano collassare su un’unica, ridondante dimensione: l’esaltazione dell’io, che rimanda tautologicamente alle visualizzazioni e ai like. Nella musica trap vediamo per esempio darsi il cambio una serie di “io” che cantano la propria prestanza fallica, sempre di pari passo alla relegazione degli “altri” (pressappoco, tutti gli altri) nel ruolo di scarto (con un’ossessione particolare per le donne). L’espressione del disagio assume qui una direzione molto diversa da quella che abbiamo tratteggiato sopra: la rivolta non consiste più nel negare il presente e inventare il futuro; essa sembra invece manifestarsi in una strana forma di “realismo”, per cui cantare la “vita vera” fuori da tutti i fronzoli del politically correct è ciò che fa di te, se non un eroe, quanto meno un fiero realista. È come se la trasgressione avesse cambiato di segno: l’ordine che oggi si trasgredisce non riguarda più l’autorità, il costume, la decenza, quanto piuttosto la dimensione dell’etica, del riconoscimento, dell’empatia e di tutti quei “buoni” valori (che in Italia diventano “buonisti”) che caratterizzano le fondamenta del legame sociale.
Dalla grande sfera del cyberspazio e dal mito della connessione di tutti con tutti, abbiamo visto spesso emanare negli ultimi anni la guerra di tutti contro tutti, l’idea che il mio domani sia minacciato, o meglio ingombrato, dal mio simile, l’odio dell’uomo per l’uomo. Come questione più attuale e problematica, sul piano clinico e sociale, vediamo i processi di identificazione impoverirsi e cedere il passo alle trappole dell’identità. E dove c’è identità monolitica, appare sempre specularmente anche un programma di estinzione. Giocare contro l’estinzione dell’inconscio (nome del futuro in psicoanalisi) può essere allora uno dei modi per dire, oggi, il lavoro della psicoanalisi.
Estratto da Adoviolenza. La psicoanalisi e la violenza degli adolescenti, a cura di Paola Bolgiani (Rosenberg&Sellier, 2020).