I n Donne amazzoni sulla luna, film collettivo del 1987 diretto da John Landis, Carl Gottlieb, Joe Dante e Robert K. Weiss, il figlio dell’uomo invisibile finisce in prigione perché, credendo di aver rinvenuto la formula magica del padre, si toglie le bende e comincia a girare nudo per le strade. La storia dell’uomo invisibile al cinema si è sempre prestata a registri e rivisitazioni di ogni tipo. Un recente adattamento di Leigh Whannel rivisita il mito di H.G. Wells del 1897 costruendo allucinazioni e ombre intorno alla figura della vittima – abbandonando quindi il punto di vista dell’“eroe” maschile – e in cui la dichiarazione d’intenti politica si legge in filigrana, dietro la paura senza volto della protagonista.
Considerando le quattro tipologie di mostri individuate da David Skal in The monster show: a cultural history of horror: vampiro, zombie, fenomeno da baraccone e doppelganger, dove collocare il nostro uomo? Non destando empatia come la maggior parte dei mostri cinematografici – nani, umanoidi, mutanti, fragilissimi uomini-elefante – l’uomo invisibile potrebbe trovarsi dalle parti della quarta categoria: di un doppio e altro da sé condotto all’assassinio da un delirio di onnipotenza inscalfibile, che già nel romanzo di Wells aveva una connotazione per lo più sociologica. L’invisibilità era infatti ciò che permetteva all’uomo di essere finalmente visto, riconosciuto dagli altri e dalla società, e il modo più efficace per elevarsi a una più alta posizione sociale.
Creatura sfuggente e malleabile più di ogni altro freak, l’uomo invisibile è stato quindi oggetto di frequenti rimodulazioni. Nelle varianti che seguono la prima versione del 1933 diretta da James Whale, prodotte tutte dalla Universal Pictures, il siero per l’invisibilità creato in laboratorio perde progressivamente la connotazione di esperimento scientifico adattandosi alle esigenze drammaturgiche dei singoli personaggi: sarà un dispositivo in grado di far trionfare i diritti di un innocente come ne Il ritorno dell’uomo invisibile (1940) o decreterà la vittoria di una nazione in guerra in L’agente invisibile, uscito in sala due anni dopo. L’adattamento invece più coerente con l’impianto tematico e strutturale del romanzo di partenza resta quello di Whale, dove viene mantenuta la vena umoristica di Wells e perfezionata nello stesso tempo la formula (prima quasi mai sperimentata) dell’horror inserendo elementi comici, evidenti soprattutto nelle reazioni scomposte e melodrammatiche della folla all’apparizione del mostro, mescolando volutamente tensione emotiva e sarcasmo sferzante.
Un uomo, Jack Griffin, dal volto interamente coperto di bende, con lenti scure e ciuffi sparuti di capelli neri, arriva in una locanda di un paesino dell’entroterra inglese, apparizione del perturbante e fantastico nella sonnolenza della provincia, destinata ad incrinarne gli equilibri. È una gelida serata invernale, l’uomo è silenzioso e quasi fa pietà agli abitanti del posto: si pensa abbia avuto un terribile incidente ed è quello che l’uomo avrebbe voluto far credere se la curiosità dei presenti non fosse stata tale da costringerlo alla fine a rivelare la sua vera natura. Dopo aver sperimentato come rendersi invisibile, lo scopo di Griffin era quello di riuscire a tornare a una forma umana attraverso l’utilizzo di una particolare sostanza chiamata “monocaina”. L’ambiguità del personaggio traspare fin dalle prime battute del film: la cancellazione del corpo come entità fisica e percepibile avviene con un pathos che richiama la sofferenza tipica del mostro, la sua solitudine ed estraneità – all’inizio, infatti, l’uomo sembra essere realmente intenzionato a tornare carne ed ossa. Il turning point della vicenda avviene nel momento in cui Griffin si confessa ai clienti della locanda e si rende conto dell’illimitatezza del suo potere. Abbandona il suo progetto iniziale per dare inizio al suo forsennato piano di conquista di persone e cose.
L’invisibilità avrebbe permesso all’uomo di essere finalmente visto, riconosciuto dagli altri e dalla società, il modo più efficace per elevarsi a una più alta posizione sociale.
Incentrato sul delirio solipsistico del protagonista, il film di Whale non è una parabola sulla tragedia della diversità che è sempre grottesca e ripugnante agli occhi degli altri: troviamo questo tema, ad esempio, in tutta la mitologia cinematografica di Frankenstein o anche nel processo di umanizzazione del deforme di The elephant man di David Lynch. L’uomo invisibile è piuttosto il racconto di un Faust moderno che non prende mai coscienza del fallimento scientifico dei propri esperimenti e soprattutto dell’inutilità collettiva delle proprie ricerche, che è anzi intenzionato a volgere al male. Griffin regredisce ad un linguaggio e ad azioni folli e sconclusionate. Fa deragliare treni, uccide, terrorizza. Profetizza al collega e rivale in amore, il Dr. Kemp, l’avvento di un regno del terrore, evocando, nella gestualità, nella postura e nell’ostinazione, la figura dittatoriale che di lì a poco avrebbe effettivamente preso il potere.
Se James Whale propone un discorso beffardo sul carattere illusorio dell’esperienza scientifica che rende offuscati i confini della razionalità e in cui l’invisibilità rappresenta uno strumento di rivendicazione sociale, in L’uomo senza ombra (2000), Paul Verhoeven esplora matericamente le potenzialità e derive di un corpo non visibile, creatura illusoria capace di confondersi ma non di cancellare le sue impronte. Paul Verhoeven non è mai stato propenso ai compromessi. In barba al perbenismo della società e cultura statunitensi e ai codici dell’industria hollywoodiana, Verhoeven ci mostra ciò che non dovremmo vedere, oltrepassando senza sentimentalismi i confini della morale e di un’estetica cinematografica predeterminata. La carne, il sangue e i corpi maschili e femminili così ossessivamente ripresi e mostrati nella loro interezza sono infatti espressione della necessità di opporre un realismo assoluto e nitido alla rappresentazione idealizzata della violenza, del sesso e della corporeità divulgata da molto cinema di Hollywood.
Fin dai primi film girati nei Paesi Bassi, tra cui Fiore di carne (1973), a Basic Instinct (1992) o Showgirls (1995) – per tacere dei violentissimi e caricaturali RoboCop (1987), Total Recall (1990) e Starship Troopers (1997) – il regista è stato da subito oggetto di critica feroce per il realismo osceno e crudo di cui erano imbevute le sue immagini e spesso definito omofobo, pornografo, perfino nazista e misogino. Fiore di carne venne accusato dai gruppi femministi per la banalità in cui venivano delineati i personaggi femminili, o ninfomani o bambine viziate e per il fatto che il protagonista si sarebbe mostrato gentile con la compagna solo quando lei era in punto di morte. Le riprese e le proiezioni di Basic Instinct furono continuamente disturbate dalle associazioni gay di San Francisco e il film tacciato di omofobia perché avrebbe rappresentato bisessuali e lesbiche maldisposte nei confronti del sesso maschile. Showgirls è stato all’inizio sfortunatissimo, riabilitato in seguito, tra i tanti, dai nomi di John Waters e della studiosa femminista Linda Williams per aver messo a nudo il darwinismo sociale della realtà capitalista attraverso il mondo dello spettacolo di Las Vegas, a dispetto di misoginia e superficialità rimproverategli fin dagli inizi della sua carriera.
Reduce dunque da sfiancanti vicende produttive e distributive, Verhoeven decide di girare L’uomo senza ombra, un film più commerciale, con meno violenza ed efferatezze e che fu anche il primo a non dover essere ripetutamente rimontato e somministrato alla MPAA (The Motion Picture American Association). Dopo aver scoperto come rendere invisibili gli esseri viventi e testato il processo di inversione su un gorilla, un gruppo di scienziati americani guidati da Sebastian Caine/Kevin Bacon decide di non rivelare l’esito della ricerca al governo, procedendo a verificarne l’impatto direttamente sull’essere umano: Sebastian stesso. Trascorsi pochi giorni, al momento della seconda fase qualcosa non va come previsto e i ricercatori non riescono più a farlo tornare visibile.
In L’uomo senza ombra, Paul Verhoeven esplora matericamente le potenzialità e derive di un corpo non visibile, creatura illusoria capace di confondersi ma non di cancellare le sue impronte.
Perdita di controllo della propria identità e di uno sguardo lucido sulle cose sono temi che riguardano l’adattamento di Whale e L’uomo senza ombra, in cui Verhoeven compie uno scarto rispetto al precursore nel modo in cui porta avanti la riflessione sulla corporeità e sulle conseguenze dell’azione di un corpo invulnerabile su uno vulnerabile. Verhoeven mette in luce l’uomo come macchina pulsionale ed erotica quando è privo di un corpo: non c’è più empatia per gli altri né inibizione nella messa a nudo delle zone d’ombra della personalità solitamente oscurate dall’evidenza delle proprie azioni e ogni cosa sembra lecita. Insinuatosi tra l’horror e lo slasher per la resa plastica e pulsante del corpo e delle sue parti interne, alcune sequenze in particolare collocano il film nell’universo di sangue e desiderio di Verhoeven: violenza predatoria e voyeurismo si esplicano nella scena in cui il topo da laboratorio viene mangiato da un gorilla invisibile e nei ripetuti momenti in cui Sebastian viene distratto da una donna che si spoglia nell’appartamento di fronte e prima sua vittima una volta divenuto invisibile.
Per lo studioso di cinema e letteratura Douglas Keesey, le figure maschili che abitano la filmografia di Verhoeven sono tutte “tormentate dal timore della castrazione e dall’ansia che suscita in loro il sesso femminile, da cui scaturiscono istinti violenti e malsani” e questo ne inquadrerebbe questo genere di anarchismo e violenza. E se, tornando nuovamente al film del 1933, la figura femminile viene rappresentata da Whale come elemento di contrappunto rispetto alla pazzia di Griffin che sembra trovare quiete soltanto in sua presenza, Verhoeven non esita a mostrare la nudità e vulnerabilità del “senza-corpo” maschile di Sebastian. Egli diventa malvagio e violenta la vicina di casa, oltre che per un perverso bisogno di autocompiacimento, soprattutto per sfogare la propria rabbia nei confronti di una sua collega e precedente amante, Linda McKay/Elizabeth Shue, che lo aveva lasciato per un altro e con cui si scontrerà nelle battute finali del film. Il sesso ha in questo caso connotazioni cupe e non mitizzate in cui lo stato di alterazione psicosomatica di Sebastian lo spinge a spiare Linda e il suo amante mentre sono a letto, sfruttando l’invisibilità per terrorizzarli e metterli sotto scacco.
Facendo emergere l’inquietudine di Linda e di una sua collega che temono di essere osservate perfino quando vanno alla toilette, Verhoeven anticipa l’aspetto della paranoia della vittima che costituirà il centro nevralgico del film di Leigh Whannel. In quest’ultimo adattamento non c’è nessuna sostanza chimica o siero che permetta di smaterializzarsi e l’invisibilità è qualcosa che acuisce uno stato d’essere preesistente. La paranoia ha il volto – ancora una volta, dopo Il racconto dell’ancella – di Elizabeth Moss, che interpreta una donna, Cecilia, che cerca di affrancarsi dall’autorità di un partner già malato e violento ancor prima di rendersi invisibile ai suoi occhi. Whannel ribalta il canone portandoci nella paura indefinibile e senza oggetto della donna: il timore dell’onnipresente sguardo su di sé dell’altro sembra non abbandonare mai la protagonista (e lo spettatore) che prova inutilmente a convincere i suoi affetti del piano diabolico del suo stalker.
Sia Whannel che Verhoeven si servono dell’horror intriso di alcuni elementi splatter con obiettivi ed esiti differenti. Verhoeven usa le caratteristiche del genere per osservare il progressivo emergere di una dimensione mostruosa e fuori controllo e per restituire la sanguinolenta materialità e sofferenza di un corpo che scompare. Fondamentale la sequenza della transizione, realizzata con il massimo della verosimiglianza e lontanissima da quella quasi magica che vive l’uomo invisibile di Whale sul finale. Per L’uomo senza ombra il processo sembrava dolorosissimo e lento ed ogni cosa è stata mostrata, muscoli flessi e ossa che scomparivano: “solo se avessi rappresentato la transizione nel miglior modo possibile” dichiarava il regista in un’intervista apparsa sul New Yorker poco dopo l’uscita del film “mostrando tutte le vene, avrei potuto vendere meglio la simulazione.”
L’ossessione muove l’uomo invisibile che, da un lato, si confonde tra le maglie del quotidiano e dall’altro assurge a correlativo-oggettivo della paura senza volto del cinema horror degli ultimi anni.
D’altra parte, in linea con le specifiche idee di messa in scena degli horror prodotti dalla Blumhouse, Whannel fa collimare perfettamente riflessione socioculturale con le coordinate del cinema di genere di riferimento. La paura si annida nell’intensificazione degli spazi vuoti dell’inquadratura ispezionati dallo sguardo attonito della donna e il montaggio teso nei passaggi dalle soggettive ai primi piani sul suo volto deformato concorre ad accrescerne la dose. La sequenza iniziale è emblematica: non c’è prologo e la backstory la si percepisce tutta dalle pieghe del volto terrorizzato dell’attrice. Cecilia fugge dall’abitazione-castello in cui viveva con il compagno e in un climax crescente di tensione accentuato dall’incrociarsi di enormi vani e totale assenza di colonna sonora – l’unico rumore che si sente è l’infrangersi delle onde del mare sulla spiaggia – Whannel ha voluto fin da subito portarci nello stato mentale della protagonista.
Lo stalker la segue e pedina e l’irruzione nella sua quotidianità e privacy diventa così invasiva da farla ricoverare come accade per la protagonista di Unsane di Steven Soderbergh, che riesce farsi intercettare ovunque dal suo persecutore fatto di carne ed ossa. Soderbergh e Whannel realizzano due film sullo stalking e sulla pervasività di un’osservazione continuativa. L’ossessione è ciò che muove l’uomo invisibile che, da un lato, si confonde tra le maglie del quotidiano del suo bersaglio e dall’altro assurge a correlativo-oggettivo di quella paura senza volto e oggetto che il cinema horror degli ultimi anni ha sapientemente messo in scena, negoziando con l’agenda politica e culturale del presente. Rispetto al paradigma della localizzazione fobica tipica dell’horror, in un articolo su It follows di David Robert Mitchell, Pietro Bianchi parla in questo senso di una vera e propria “esperienza d’angoscia” vissuta dalla protagonista del film che non riesce a individuare né localizzare precisamente l’elemento perturbante: “la paura non è più il cavallo per strada, il mostro che viene dal basement di casa etc., è paura che non ha più alcun oggetto rilevabile nella realtà. È la paura per il solo fatto di essere un soggetto senza alcun appiglio simbolico, e quindi è paura di morire”. L’it del titolo allude per Robert Mitchell non tanto a una creatura ma all’esperienza d’angoscia inspiegabile dei giovani protagonisti che si sentono perseguitati da un mostro indefinibile e che mai realmente li tocca.
È l’inquietudine per un mondo senza più appigli che li induce all’immobilità e alla paura di muoversi per evitare di cadere o fallire. La riflessione di Whannel non è dissimile perché contempla la dimensione di uno sguardo soverchiante che impedisce il movimento e anzi favorisce la regressione a una condizione di solitudine e alienazione, dispiegatasi allo stesso modo sul versante della paura per qualcosa o qualcuno che non si può definire. Benché alla fine Cecilia riesca a smascherarlo, risultando una specie di moderna final girl che s’impone contro una narrazione che le viene imposta, l’uomo invisibile resta ad ogni modo lo stalker invisibile socialmente. Quello che manipola e fa di tutto per non apparire nei suoi scopi irrazionali e che di solito è creduto vivere soltanto nelle presunte visioni assurde della sua vittima.