I l lungo ponte sul fiume Inguri si presenta ai miei occhi in tutto il suo derelitto splendore di cemento sgretolato, ferro arrugginito e aria pesante: ho appena lasciato l’ultimo barlume di autorità georgiana, un casotto di lamiera improvvisato che ripara dalla pioggia di marzo le guardie annoiate. Sulla mia sinistra svetta un’enorme pistola di metallo con la canna annodata su se stessa, monumento al cessate il fuoco; sulla mia destra, cartelli consumati dalla muffa; alle mie spalle, la strada per Zugdidi e il resto della Georgia, incantevole repubblica ex sovietica ormai succube del turismo di massa. Davanti a me, invece, c’è il ponte, porta d’accesso per un paese che sulle carte geografiche non si riesce a trovare.
Una decina di babuški, le stoiche vecchiette dell’ex URSS, accompagna il mio cammino attraverso questa frontiera in bilico su piloni di acciaio. Una targa ci dice che furono eretti durante i tardi anni Cinquanta, epoca di grandi opere e immense speranze per il popolo sovietico. Un trapassato remoto che sembra ormai appartenere al mito più che alla storia. Le arzille signore, quasi tutte un po’ sovrappeso, parlano tra loro un pidgin socialista di parole georgiane e lessico russo mescolati in un armonico caos semantico. Sono ricoperte di stracci scuri e bagagli cangianti e si coprono come possono dalla pioggia incessante, mentre, con passo affrettato, si avviano verso il posto di controllo dei soldati russi all’altra estremità del ponte. Pochi uomini. Quelli presenti camminano lenti e apatici lasciandosi bagnare dalle gocce d’acqua scura. I più pigri, o i più fortunati, si fanno dare un passaggio da estemporanei traghettatori alla guida di carrette di legno trainate da cavalli emaciati. Provo anch’io a cercare rifugio sotto il telone di plastica impermeabile che ripara i passeggeri infreddoliti, ma il Caronte di turno mi respinge senza troppe cerimonie, giustificandosi con un’apparente mancanza di posto. Continuo così a camminare lento attraverso pareti di pioggia grigia, mentre nelle scarpe, ovviamente inadatte alla situazione, si stanno formando due piccoli stagni che fanno splash-splash ad ogni mio passo.
Fradicio, giungo finalmente al termine del ponte. Davanti a me si staglia ora un’improbabile costruzione di metallo verde, una sorta di grande cancello d’ingresso con tanto di arco decorativo, simile a quelli che danno il benvenuto ai vacanzieri presso l’entrata di un camping o di una pineta attrezzata sul mare. Ad accogliermi non c’è, però, nessuna carta turistica da villaggio “Bellavista”, ma solo una grande mano bianca tesa su sfondo rosso: inequivocabile simbolo della destinazione appena raggiunta. La mano bianca rappresenta infatti l’emblema nazionale della Repubblica di Abcasia, misconosciuto stato separatista schiacciato tra le impervie montagne del Grande Caucaso e le languide coste del Mar Nero. Non è facile trovare l’Abcasia sul mappamondo, il suo nome non compare nei nostri libri di storia, la sua splendida geografia non si studia nelle aule di scuola. L’Abcasia è, infatti, uno stato che ufficialmente non esiste neanche, una terra di mezzo sospesa in un limbo geopolitico senza fine cominciato con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli abcasi, il popolo da cui il paese prende il nome, rappresentano una delle tante ramificazioni etnolinguistiche dell’antica nazione circassa, una fiera stirpe caucasica la cui terra è stata a lungo contesa tra i sultani d’Istanbul e gli zar di Mosca.
Della millenaria epopea degli abcasi e delle altre circa venti tribù circasse sparse per il Caucaso poco si evince, però, durante il tragitto che dal confine abcaso-georgiano porta a Sukhumi, la capitale di questa sedicente repubblica post-sovietica. La storia che i miei primi momenti abcasi mi raccontano è assai lontana dai mitici eroi delle saghe nebbiose che i figli e le figlie d’Abcasia studiano sui sussidiari di scuola. I paranoici controlli di frontiera, le atmosfere da sogno infranto, i volti duri e gentili allo stesso tempo, i giganti di cemento che si sgretolano ai bordi della strada, l’odore dolciastro di gasolio e socialismo mi parlano piuttosto di vicende recenti e racconti moderni. Ormai da tempo assoggettata all’Impero Russo, l’Abcasia passò, dopo alcune brevi ma travagliate peripezie geopolitiche, sotto il controllo dei bolscevichi, che nel 1921 ne fecero una repubblica socialista liberamente associata al resto della neonata URSS. L’Abcasia sovietica, che nel 1931 venne accorpata da Stalin alla Repubblica Socialista Sovietica di Georgia, divenne presto, assieme alla Crimea, una delle destinazioni predilette per le vacanze dei cittadini sovietici. La nomenklatura, l’intellighenzia e le masse lavoratrici dell’URSS si mischiavano ogni estate sui pittoreschi lidi d’Abcasia, arricchendo ulteriormente una già variopinta popolazione indigena composta da abcasi, georgiani, ebrei, russi, armeni, greci del Mar Nero e persino émigré estoni.
L’incanto ovattato della pax sovietica (solo apparente per i suoi detrattori occidentali, assai reale per chi l’ha vissuta) cominciò, però, a sgretolarsi con l’avvento della perestrojka e il risorgere di nazionalismi assopiti ma mai realmente sconfitti. Gli abcasi cominciarono a desiderare sempre più apertamente una maggiore autonomia dalla Georgia e si cominciò anche a pensare di elevare lo status dell’Abcasia: trasformare, cioè, la semplice autonomia politico-territoriale all’interno della Georgia sovietica in una vera e propria indipendenza da Tbilisi, rendendo così l’Abcasia una repubblica sovietica di primo livello, dipendente solo dagli ordini di Mosca e non da quelli di altre repubbliche dell’unione. Quando, poi, l’URSS implose sotto il peso dell’ormai palese inefficienza delle sue riforme democratiche, le richieste di scissione da parte degli abcasi si fecero sempre più concrete: adesso che la grande patria sovietica era stata uccisa definitivamente, non aveva più senso chiedere di essere assoggettati direttamente a Mosca, adesso si chiedeva l’indipendenza totale. Dal canto loro, i georgiani d’Abcasia, quasi la metà della popolazione locale, cominciarono a protestare contro le mire secessioniste dei loro concittadini e chiesero al governo centrale di Tbilisi di intervenire. Le proteste divennero poi scontri e gli scontri presto battaglie. Senza più i carrarmati di Mosca a mantenere l’ordine e le buone apparenze, le strade e i campi d’Abcasia si trasformarono rapidamente in teatri di orrore e violenza.
Nel 1992, un anno dopo l’inglorioso commiato della bandiera rossa dal Cremlino, le forze separatiste dell’Abcasia dichiararono l’indipendenza della repubblica. Seguirono due anni di conflitto conclusosi con la vittoria delle forze separatiste abcase più o meno ufficialmente appoggiate dall’esercito regolare russo e supportate sul campo da corpi di volontari circassi provenienti dal Caucaso del Nord. Nel 2008 la Georgia ha poi perso un altro pezzo di paese, quando la regione autonoma dell’Ossezia del Sud, sulla quale Tbilisi aveva maldestramente cercato invano di riasserire una sorta di controllo politico e militare dopo anni di tacita indifferenza, dichiarò formalmente la sua indipendenza. Cinque giorni di bombe imprecise, retoriche assordanti e vite svendute alla morte, divenuti poi famosi come la “Guerra d’Agosto”, sancirono la definitiva scissione politica, militare e amministrativa dell’Ossezia del Sud: la Georgia già claudicante perdeva così il secondo dei suoi figli ribelli e a Tskhinvali, la minuscola capitale osseta, si instaurava un governo paramilitare apertamente filorusso.
L’indipendenza dell’Ossezia e dell’Abcasia è oggi riconosciuta solo dalla Federazione Russa e da pochi altri suoi alleati, Venezuela e Siria in primis. Per la NATO, l’Unione Europea e la stragrande maggioranza delle Nazione Uniti, i governi secessionisti di Sukhumi e Tskhinvali non possiedono, ufficialmente, alcuna legittima autorità, anche se i tediosi controlli e le kafkiane burocrazie che si incontrano alle frontiere di queste terre sospese riescono ben presto a convincere il viaggiatore dell’esatto contrario. Oggi l’Abcasia e l’Ossezia del Sud possiedono ciascuna una propria bandiera, un inno, un parlamento, un governo con tutti i ministeri del caso, un esercito, una camera di commercio e una compagnia telefonica nazionale: le autorità di Tbilisi non hanno alcun controllo e, salvo rare eccezioni, non è concesso ai cittadini georgiani l’ingresso nei territori controllati dalle autorità abcase ed ossete. Per quanto singolari i loro status quo possano apparire, l’Abcasia e l’Ossezia del Sud non sono, però, gli unici stati indipendenti de facto ma non riconosciuti de jure dell’ex Unione Sovietica. A tenergli compagnia ci sono la Transnistria, staccatasi dalla Moldova nel 1992, il Nagorno-Karabakh, separatosi dall’Azerbaijan dopo un sanguinoso conflitto durato ben sei anni, e le repubbliche filorusse del Donbass, in Ucraina orientale. A questa lista si deve poi aggiungere la Repubblica Autonoma di Crimea, che non ha perseguito l’obiettivo dell’indipendenza totale, ma ha deciso bensì, in maniera più o meno democratica, di cambiare nazione di appartenenza, passando dall’Ucraina alla Russia dopo i sanguinosi eventi dell’Euromaidan a Kiev.
Un’irrefrenabile curiosità per le aree grigie del nostro pianeta e un amore sfrenato per le architetture e i popoli dell’ex Unione Sovietica mi hanno portato più volte ad attraversare i labili confini di queste terre rinnegate. Questi luoghi di conflitti insoluti sono spesso affascinanti e deprimenti allo stesso tempo, un caleidoscopio bizzarro di squallore post-sovietico e colore esteuropeo. Qui, come da nessuna altra parte nell’assordante vastità dell’ex URSS, si percepisce ancora l’intensità delle crudeli conseguenze del risveglio dal sogno e dal sonno bolscevico. Il processo di decomposizione del corpo sovietico è assai lontano dall’essersi concluso. Eppure, proprio qui, fra questi conflitti congelati ma mai risolti, tra queste tensioni constanti, si riesce ancora, di tanto in tanto, a respirare il profumo di un mondo che fu. Ce ne si accorge nei piccoli gesti e nell’osservazione quotidiana: il saluto entusiasta di un vecchio direttore del fatiscente museo locale che ti racconta vita, morte e miracoli della sua patria improbabile pensando tu sia un antropologo inviato da Mosca o dalla misteriosa America, il monito tenero e severo di una passante che ti vede seduto sul cemento freddo di uno scalino e si preoccupa dei tuoi reumatismi futuri, o lo stupore ancora genuino di chi non ha mai visto un turista in vita sua.
In Abcasia, a onor del vero, una parvenza di turismo esiste. I primi villeggianti a tornare sulle spiagge di ciottoli scuri lisciati dal mare furono, ovviamente, i russi. Le famiglie meno abbienti del vasto e non ben definito ceto medio della Federazione cominciarono ad avventurarsi a sud di Soči attraversando il confine settentrionale dell’Abcasia, opposto a quello con la Georgia sul fiume Inguri. La riviera russa del Mar Nero era diventata per molti proibitiva da quando discutibili progetti di espansione e modernizzazione delle strutture ricettive della zona avevano trasformato gli economici sanatori e modeste pensioni della costa in grandi hotel che scimmiottano la Costa Azzurra e chiassosi resort con piscine e scivoli acquatici inclusi che tanto ricordano Riccione e i Lidi Ferraresi. Qualche pioniere della vacanza estiva si era probabilmente già addentrato oltre frontiera poco dopo la fine della guerra, ma le vere ondate di turisti arrivarono nei primi anni Duemila, quando le piccole agenzie di viaggio delle afose città della sterminata provincia russa cominciarono a proporre vantaggiosi pacchetti ai loro clienti squattrinati. Si immaginavano l’Abcasia come il ritorno un tempo perduto: lunghi viaggi in treno fino alla costa, scorci idilliaci, atmosfere serene e prezzi stracciati. Ma il tempo non si era fermato, e una guerra era appena passata su quei luoghi tanto decantati dalle brochure. Fare vacanza in Abcasia significa immergersi in uno splendore lacerato nel quale non si è mai troppo distanti da un edificio crollato, un hotel abbandonato o un muro screziato da colpi di mitraglia e mortaio. Gli inclementi anni Novanta hanno lasciato il segno sul volto curato dell’Abcasia sovietica. L’incanto apparente dell’URSS e i suoi lasciti umani e architettonici sopravvivono fra macerie, fatiscenza e maldestri tentativi di ricostruzione, ma non sono altro che le rovine di una civiltà ormai lontana, fatta di sgargianti mosaici realsocialisti, eleganti facciate neoclassiche ed eccentriche architetture moderniste anni Settanta.
I turisti occidentali hanno scoperto l’Abcasia solo di recente, e la stragrande maggioranza di loro entra nel Paese passando dalla Georgia, visto che quest’ultima considera illegale il transito dalla Russia. La Georgia, infatti, continua a non riconoscere l’indipendenza abcasa e pertanto accedere a questo territorio conteso senza passare dai tediosi controlli georgiani è considerata violazione dei confini di stato, un reato grave per il quale si può anche finire arrestati. Ai villeggianti russi, è superfluo dirlo, delle direttive georgiane interessa assai poco. Il turismo in Abcasia sembra, infatti, dividersi in categorie nette e ben definite. Da una parte ci sono coloro che vengono qui solo per il mare e le amenità ad esso connesse. Trascorrono languide ore a passeggiare per il litorale di Sukhumi o di Gagra (una città rivierasca situata presso il confine con la Russia), sorseggiano bevande ghiacciate e zuccherine, si bagnano nelle acque spesso torbide del Mar Nero e di tanto in tanto si concedono una gita in giornata al monastero ortodosso di Novyj Afon o al lago alpino di Rica. I più avventurosi fra loro noleggiano un fuoristrada e si lanciano in rumorose avventure fra i boschi e i monti d’Abcasia, per poi tornare sulla costa in serata, giusto il tempo per spendere qualche rublo in uno dei tanti ristoranti del litorale. C’è poi chi, invece, viene in Abcasia per conoscere un paese seducente, una cultura misteriosa, una storia travagliata e un popolo tanto fiero quanto ospitale. I rappresentanti di quest’ultima categoria, alla quale, nolente o volente, sono anch’io costretto ad appartenere, si dividono poi ulteriormente in chi è più che altro guidato da mero voyeurismo e chi realmente è interessato all’Abcasia e alle sue genti. E qui è difficile capire con che squadra si gioca. La componente voyeuristica è innegabile e chi la nega non è sincero. Il fascino morboso di visitare un paese che “non esiste” ed esplorarne le ferite di guerra è un corollario fastidioso ma imprescindibile. Per molti, anzi, è proprio questo l’unico motivo per il quale valga la pena andare in Abcasia.
Fortunatamente, però, ci sono altre ragioni che guidano il mio continuo viaggiare e ritornare sia in Abcasia sia nelle altre repubbliche non riconosciute dell’ex Unione Sovietica. Innanzitutto si tratta, spesso, di posti realmente bellissimi. L’Abcasia, in modo particolare, sembra una promessa edenica, il paese di latte e di miele. Ad ovest ci sono i monti del Grande Caucaso che nascono verdi e rigogliosi vicino alla costa e poi crescono aspri, austeri e sublimi man a mano che si sale; ad est ci sono le città e villaggi della costa e del primo entroterra che, sfaceli bellici a parte, conservano ancora quello stile unico degli agglomerati urbani del Caucaso, un misto tra mondo slavo e medio oriente cosparso poi da un fitto strato di glassa socialista. A questa cornucopia di gioielli naturali e gemme urbane, si aggiunge poi la signora anziana che ti invita a pranzo nella sua dacia, la coppia di ragazzi che si mette a passeggiare con te per praticare il proprio inglese, il tassista di mezza età che ti vuole far conoscere per forza tutta la sua famiglia e il poliziotto annoiato che ti si avvicina minaccioso e dopo cinque minuti già prova a cantare una canzone di Toto Cutugno, incurante del mio palese imbarazzo. Ci sono poi attrazioni singolari e bizzarre, come il desolato zoo delle scimmie spaziali poco fuori Sukhumi, che ospita i discendenti di quei primati da laboratorio che al tempo dell’URSS venivano usati per ricerche mediche e aeronautiche.
Oppure la città fantasma di Akarmara, un ex villaggio di minatori sperduto sui monti al confine con la Georgia che sembra un museo a cielo aperto dedicato alla caduta della chimera sovietica. La cittadina era una fiorente comunità di oltre cinquemila abitanti che vivevano in appartamenti moderni e spaziosi e godevano di uno standard di vita elevato per i parametri dell’URSS. La stragrande maggioranza dei cittadini di Akarmara era impiegata nelle miniere di carbone che circondavano la città. In seguito alle disastrose riforme economiche della perestrojka, la maggior parte delle miniere fu chiusa e i minatori, assieme alle loro famiglie, iniziarono a lasciare Akarmara per sempre dirigendosi verso la costa. L’esodo è aumentato a un ritmo esponenziale dopo la caduta dell’Unione Sovietica e lo scoppio del conflitto con la Georgia. Oggi solo dieci famiglie abitano Akarmara, e i suoi splendidi edifici e condomini sono lasciati a marcire nei boschi: souvenir inquietanti, cupi ma fotogenici di un mondo e un modo di vivere che appaiano ormai distanti anni luce.
Il filosofo e sociologo russo Alexander Herzen scrisse già sul finire del XIX secolo che “un mondo che scompare non lascia mai un erede ma una vedova incinta: tra la morte del primo e la nascita del secondo vi è sempre una lunga notte di caos e disperazione”, ma, e questo Herzen non lo scrisse, in questo costernato disordine il mondo da poco dissolto non se ne è andato del tutto: rimane ancora sospeso a metà, come un tramonto infinito che non vuole cedere alla notte, come le vecchie abcase e georgiane sospese sul ponte di Inguri che non vogliono cedere all’odio moderno e, camminando affannate e fiere, ancora si parlano in una lingua comune.