Q uando esplode il colera a Napoli, nel 1836, Leopardi si trova lì. Non ne scrive, lo cita soltanto tra le sue lettere, però in quel periodo compone la Ginestra, dove compare tutta la forza annientatrice del Vesuvio, “utero tonante”, e ci sono presenze animali, una serpe, una capra per esempio, e poi ancora nebulose, “nodi quasi di stelle”, e ovviamente la ginestra. Insomma c’è quella che chiamiamo natura in varie forme, distruttrice, lontana o familiare, renitente. In Leopardi la riflessione sulla natura è complessa, centrale. È una complessità su cui Antonio Prete, tra i critici più importanti del poeta, è tornato a riflettere nel suo ultimo libro, La poesia del vivente (Bollati Boringhieri).
I capitoli raccolgono ricerche e temi diversi: critica della civiltà, interessi cosmologici di Leopardi – osservazioni astronomiche che diventano domande poetiche – rapporto con le scienze dell’epoca, attenzione per le forme del vivente, come gli animali. Leopardi si interroga sul senso e sulle forme dell’esistere: la sua, scrive Prete, è una poesia “delle domande estreme”. Ha una forte cultura scientifica e vede i rischi di quello che oggi chiameremmo riduzionismo, “critica la matematizzazione dell’esistenza”.
C’è poi nel suo pensiero una forma di anti-antropocentrismo, che passa attraverso l’immaginarsi nei vuoti dello spazio e di stelle lontane, o per lo sguardo bestiale, non umano, delle forme animali. Sono animali veri o figure da bestiario, come l’immenso gallo silvestre protagonista di una sua operetta. Animali ai quali Leopardi non si sente, né descrive, superiore, come quando con compassione guarda a una lucciola torturata per gioco da alcuni ragazzi: “Quegli se n’accorse tornò – porca buzzarona – un’altra botta la fa cadere già debole com’era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere finché la cancella.”
Leopardi non scrive quasi niente di esplicito sull’epidemia che vive, anche se, dice Prete, “forse quel colera può aver fatto da sfondo alla scrittura della Ginestra”. Ho incontrato la prima volta Prete in un bar di Brescia, a febbraio, prima della pandemia di COVID-19. Nei mesi a seguire giornali e riviste avrebbero parlato molto di animali (pipistrelli, pangolini), del rapporto squilibrato tra uomo e ambiente, di un ente minuscolo capace di stravolgere il quotidiano e di natura che “si riprende il suo spazio”. Nei giorni scorsi ho ricontattato telefonicamente Prete, per riordinare gli appunti presi durante le nostre chiacchierate. Decidiamo così di partire simbolicamente da quello che molti ritengono il principio dell’epidemia, il criminale: l’animale.
C’è un capitolo del suo libro che si chiama “Il corpo animale”. Cosa scrive Leopardi sul non umano?
Inoltre, se per Buffon e gran parte del mondo illuminista la coscienza era la soglia di separazione tra l’uomo e l’animale, per Leopardi la coscienza umana è solo quello che permette la percezione dello stato di infelicità, ma quanto al sapere, l’animale ha il principio della conoscenza, comune all’uomo. Certo, Leopardi riconosce un maggiore o minore grado di complessità delle forme animali, ma non vede l’uomo come vertice della scala dell’esistente. Per lui, solo la lingua è quanto ci rende diversi.
Lo sguardo sul mondo animale lo porta a considerazioni di antropologia. Per esempio l’animale, dice, se combatte, combatte corpo a corpo: vede l’altro. Nella sua società raramente può arrivare a uccidere un individuo della propria specie. Mentre la civiltà umana ha astratto dalla corporeità del singolo, ha cancellato la singolarità vivente, e così può uccidere nello stesso momento migliaia di individui senza vederli in faccia, senza vedere i loro corpi. È in questo modo che, in un passo implacabile dello Zibaldone, spiega la guerra moderna, come esempio della progressiva “spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo”. C’è poi quel frammento sulla lucciola, calpestata dai ragazzi: un esempio di ordinaria violenza sull’animale.
Quale rapporto abbiamo rotto con la natura?
Ma una trascrizione contemporanea di questo discorso è subito visibile: il mondo snaturato è quello inquinato, irriconoscibile, intransitabile, per esempio della natura fuori delle grandi città. E allora il verbo abitare che usa Leopardi acquista oggi un altro significato, e cioè: abitare la natura in un mondo snaturato significa ritrovare un’abitabilità della natura in un mondo che l’ha esclusa e resa inabitabile, perché irrespirabile, squilibrata.
Ma quando si pensa alla natura per Leopardi, di solito si dice: prima è benigna e poi perversa, persecutrice.
È una riduzione schematica: non c’è una cesura netta tra i primi e gli ultimi scritti. Il discorso attorno alla natura permea infatti tutto il suo pensiero. La svolta del 1824, cara a molta critica, è solo un passaggio che non modifica la complessiva visione leopardiana della natura. Dove soprattutto domina il concetto greco di physis: la natura è vita e morte, bellezza e spegnimento, fiorire e sfiorire. Nella Ginestra, per esempio, c’è il fiore che consola il deserto, fiore che nel suo vivere appartiene perfettamente al ritmo del nascere e del morire: ha il sapere della finitudine, della morte. E nel sapere della morte c’è l’attenzione al vivente in quanto vivente. L’uomo invece, separato da quel ritmo, perde anche quello che c’è in quel ritmo: non sa più leggere l’orizzonte della morte. Ecco allora le magnifiche sorti del progresso, della tecnica e della storia che sconfiggerebbero la natura. D’altra parte, in quello stesso canto, oltre al fiore del deserto, appare anche il Vesuvio, lo sterminator, attraverso cui la natura mostra il volto della distruzione sulla storia e sull’individuo.
Possiamo definirlo un “pensiero della catastrofe”?
Si parla spesso di Leopardi in relazione alla scienza, tanto che a volte ho quasi l’impressione che si cerchi di ridurre o ri-utilizzare la sua scrittura come divulgazione.
È interessante, però queste considerazioni impediscono di vedere qualcosa che invece trovo più significativo: in Leopardi è il sapere scientifico – ma anche quello antropologico, storico, politico – a essere attraversato in un modo poetico. La risposta che Leopardi dà infatti alla scienza è di natura poetica, nel senso che mette il poetico come principio di osservazione del mondo, come principio di conoscenza. Con Leopardi potremmo perciò chiederci qual è il poetico dell’antropologia, dell’epistemologia o della fisica cosmologica. Se da un lato dunque lui ricostruisce le genealogie di questi saperi – come la Storia dell’astronomia che scrive a quindici anni – dall’altro li ripercorre, questi saperi, con un’assidua necessità: chiedere alle scienze, o alla storia, cosa si può capire della natura dell’uomo. Quindi la domanda che Leopardi fa alle scienze è esistenziale: cerca un confronto finale con quella che possiamo chiamare “la condizione umana” o l’esistenza universale, con quanto c’è in noi, nel corpo dell’individuo, nel bios.
E qui siamo nel cuore di Leopardi, quello che oggi ci interroga di più. Per Leopardi il bios è l’essere desideranti: il desiderio costituisce la natura dell’esistenza, è connaturale con l’esistere. Noi siamo esseri desideranti e questo desiderio resta sempre aperto. Dunque a che punto il desiderio di viaggiare o di scoprire risponde a questo essere desiderante dell’uomo? Oppure: come accade che dentro quella ricerca di conoscenza che chiamiamo progresso, ci sia la sensazione permanente che non si arrivi a nient’altro che a un’illusione di potere dell’uomo? Quando quest’illusione di potere – ecco la Ginestra – si trasforma in persuasione ed esercizio di potere, allora si ha il disastro di chi crede che l’uomo sia superiore alla natura e che la tecnica sia il fulcro attorno cui si costruisce la civiltà.