L’ articolo che state per leggere è scritto in italiano, ma il suo autore è italiano solo in minima parte. Almeno questo è quanto si dovrebbe evincere dal mio DNA: 35% greco, 22% mediorientale, 16% sardo, 10% dell’Asia occidentale, e gli spiccioli rimanenti italiano, iberico, nordafricano. Un paio di anni fa mia moglie ed io abbiamo lasciato dei residui organici su dei tamponi – in sostanza ci siamo strofinati in bocca una specie di cotton fioc, per non contaminare il reperto l’abbiamo fatto dopo alcune ore di digiuno – che poi abbiamo inviato per posta a una società americana specializzata. Per 50 euro o poco più, dopo qualche mese ci sono arrivati via email i risultati. Il responso mi ha permesso di fantasticare sui miei antenati. Tutto molto suggestivo, ma quasi completamente sbagliato, e non solo perché l’affidabilità scientifica di questi test casalinghi è ancora bassa.
La genetica contemporanea, infatti, non è davvero capace di questo – svelare nel dettaglio il percorso genealogico di ognuno di noi –, ma allo stesso tempo è capace di molto di più. C’è una branca, in particolare, che negli ultimi anni ha portato una nuova ondata di ricerche e, come succede in questi casi, molti entusiasmi e qualche scetticismo: l’analisi del DNA antico, che sta fornendo nuove prove utili alla ricostruzione del sentiero di Homo sapiens, delle sue migrazioni, delle parentele evolutive e le convivenze con altre e differenti forme umane.
La scienza dell’evoluzione è un percorso interdisciplinare che comprende il dialogo tra tante discipline: ecologia, geologia, linguistica, paleoantropologia, anatomia comparata. In questo puzzle, la genetica è diventata una tessera decisiva proprio grazie allo studio del DNA antico, di quelle parti di genoma rintracciabili nei siti paleoantropologici da fossili di decine di migliaia di anni fa, possibile oggi grazie a tecniche di campionamento e analisi sempre più raffinate.
Proviamo a raccontare questo campo di ricerca, ancora in espansione, usando come guida due libri divulgativi di successo: Chi siamo e come siamo arrivati fin qui di David Reich (Raffaello Cortina, 2019) e Breve storia di chiunque sia mai vissuto, di Adam Rutherford (Bollati Boringhieri, 2017). Rutherford, scrittore e divulgatore, racconta il lavoro di vari scienziati, tra cui lo stesso Reich. Reich è stato allievo di Luigi Luca Cavalli-Sforza – decano della genetica delle popolazioni scomparso nel 2018 – e ha iniziato la sua carriera lavorando nel laboratorio di Svante Pääbo, tra i fondatori della paleogenetica e primo esploratore del DNA neanderthaliano. Oggi ha la sua equipe di ricerca ed è uno dei capofila dello studio del DNA antico. Per orientarci ancora meglio, abbiamo fatto qualche domanda a Guido Barbujani, genetista e autore tanto di ricerche scientifiche quanto di capisaldi della divulgazione in Italia (da L’invenzione delle razze, all’ultimo Sillabario di genetica).
Come siamo arrivati fin qui
All’alba di questo millennio, nel febbraio 2001, uscirono contemporaneamente sulle due riviste scientifiche più note, Nature e Science, i due studi che per la prima volta pubblicavano il sequenziamento completo del genoma umano. I due progetti paralleli erano lo Human Genome Project, pubblico, e Celera, della società privata di Craig Venter, biologo e imprenditore, che aveva iniziato l’operazione per creare una banca dati accessibile solo a pagamento. Il lavoro del progetto pubblico aveva coinvolto centinaia di scienziati e decine di università in tutti i continenti ed è diventato in pochi anni una delle ricerche più citate nelle pubblicazioni scientifiche.
Neanche venti anni dopo – grazie a nuove tecnologie di cui ha fatto grande uso, tra gli altri, proprio Venter, e che hanno portato a sviluppare il Sequenziamento di Nuova Generazione – sequenziare il genoma di qualunque individuo è diventato lavoro facile, economico, veloce – tant’è che si può fare anche per sfizio, via posta: attualmente sono state analizzate milioni di sequenze di DNA provenienti da tutto il mondo. Ma non è tutto. Tramite delle tecniche messe a punto in anni di ricerca, oggi è possibile estrarre il DNA dai fossili, sacrificando ad esempio una falange fossile, frullandola ed estraendone il DNA per ottenere la sequenza completa: secondo Enrico Cappellini, professore associato del Globe Institute dell’Università di Copenaghen, il DNA può rimanere incorporato all’interno di ossa fossilizzate per circa 500.000 anni. Un’analisi comparata del DNA fossile e di quello “moderno”, può portare alla verifica, per esempio, della somiglianza genetica tra Neanderthal e una popolazione umana vivente. I genetisti si sono così rivolti al passato armati di conoscenze dettagliate, e hanno iniziato a scrivere, o in certi casi a riscrivere, la storia dell’umanità fin dalle sue origini.
L’analisi del DNA antico sta fornendo nuove prove utili alla ricostruzione del sentiero di Homo sapiens, delle sue migrazioni, delle parentele evolutive e le convivenze con altre e differenti forme umane.
Il DNA com’è noto è la base della vita: semplificando, contiene le istruzioni su ciò che le cellule devono “fare”, istruzioni che vengono ereditate dai genitori e tramandate ai figli. In questi passaggi avvengono delle mutazioni – errori di copiatura – che se non comportano malformazioni inadatte alla vita, vengono tramandate. In questo modo, i genetisti sono in grado di operare una serie di deduzioni: basandosi ad esempio sulla frequenza delle mutazioni – che avvengono a cadenza fissa – sono in grado di stabilire quanti anni prima due lignaggi si sono separati. Così è stata ottenuta la conferma del fatto che gli uomini moderni hanno tutti la stessa origine, africana e recente. Così si cerca di ricostruire i movimenti delle popolazioni sulla Terra: mettendo a confronto punti diversi e particolari della doppia elica, anche quelli che non hanno una funzione specifica.
Il fascino per la storia prima della Storia ha a che fare con l’eterna domanda: chi siamo, e da dove veniamo? Probabilmente deriva anche dall’impossibile: dal fatto che il tempo profondo sia una terra straniera ancora più dello spazio profondo. Se infatti possiamo immaginare, un domani magari lontano, di entrare in contatto con intelligenze extragalattiche, il passato ci è precluso per definizione (non sapremo mai com’era vivere nel Giurassico, e anche se ricreassimo mammut o dinosauri grazie a tecniche di de-estinzione quello che avremmo davanti sarebbe, come Michael Crichton e il professor Alan Grant in Jurassic Park sostengono, un pupazzo da parco tematico).
Inoltre se parliamo di preistoria, l’esplorazione è ancora più al buio perché, ovviamente, non abbiamo racconti di prima mano, e dobbiamo fare affidamento su prove indirette: scheletri, suppellettili, disegni, rovine, rocce. Questo lasso di tempo così grande che è difficile persino da rappresentare, è materia di studio per la geologia, la biologia evolutiva, l’archeologia, la paleoantropologia, la linguistica. E ora la genetica.
Cosa c’è in un nome
Una delle rappresentazioni più note dell’evoluzione dell’uomo è quella in cui si vede uno scimmione diventare Homo sapiens attraverso vari stadi intermedi: sempre più grande, sempre più eretto, sempre più glabro, sempre più canonicamente bello. Sappiamo da tempo che questa immagine contiene una serie di fallacie: non discendiamo dalle scimmie, casomai abbiamo antenati in comune con gli altri primati; non c’è un’evoluzione nel senso di miglioramento, di ascesa; soprattutto non c’è una linea singola che da Lucy – Australopithecus afarensis vissuta 3,2 milioni di anni fa, bipede – porta a noi.
In verità non siamo neanche sicuri che Lucy sia tra i nostri antenati; l’unica cosa che possiamo dire è che tra gli ominidi suoi contemporanei il suo fossile è quello che mostra una serie di caratteristiche meno dissimili rispetto agli umani moderni. In tutte le epoche, infatti, tranne quella attuale, ci sono state contemporaneamente sulla Terra varie specie di ominidi, e poi varie specie di uomini, imparentate ma non necessariamente discendenti l’una dall’altra: non una linea ma varie, come rami di un albero.
Tra queste linee ce n’è una importante per vari motivi: quella del cosiddetto Uomo di Neanderthal. È stato uno dei primi fossili diversi da Homo sapiens a essere rinvenuto, addirittura nel 1856, una delle scoperte che diede l’avvio alla paleoantropologia. Singolare è anche la storia del nome che gli abbiamo dato: viene da Joachim Neumann, predicatore tedesco del Seicento, che si ritirò a vivere dentro una grotta in una valle vicino Dusseldorf, e cambiò il suo cognome – Neumann come Newman, uomo nuovo – grecizzandolo in Neander. Anni dopo la zona prese il suo nome, perché questo vuol dire Neanderthal, valle di Neander; anni dopo ancora, da quella grotta sarebbero emersi i resti di un uomo davvero nuovo, davvero antico.
L’anno scorso è uscito un libro scritto dalla paleoantropologa Silvana Condemi e dal divulgatore François Savatier, Mio caro Neanderthal (Bollati Boringhieri, 2018), che affermava una cosa che può suonare scioccante: se oggi per strada incontrassimo un Neanderthal, lavato sbarbato e vestito, non ce ne accorgeremmo.
Homo neanderthalensis è una specie euroasiatica. I progenitori, che non erano Homo neanderthalensis, ma probabilmente Homo heidelbergensis, uscirono dall’Africa più di mezzo milione di anni fa, in seguito evolvendosi e spargendosi tra Medioriente e Europa. I Neanderthal avevano sicuramente molto in comune con noi, a partire dall’aspetto: erano più grossi di fisico e di scatola cranica, ma non tantissimo, avevano la pelle chiara e forse i capelli rossicci. Ma soprattutto erano culturalmente avanzati: costruivano lame di pietra in grado di uccidere mammut e rinoceronti lanosi; li cuocevano al fuoco, che maneggiavano con perizia; seppellivano i morti insieme a suppellettili e fiori, quindi probabilmente con rituali; forse addirittura disegnavano sulle pareti delle grotte.
Avevano quindi un pensiero, magari un certo grado di pensiero simbolico. Parlavano? Probabilmente sì: è quello che già facevano supporre i risultati della paleoantropologia (un osso ioide, appartenuto a un uomo di Neanderthal rinvenuto nel 1989 nel sito israeliano di Kebara, è stato analizzato ai raggi X nel 2013: si tratta di un ossicino che solo in noi umani moderni ha una determinata conformazione, e la cui complessa collocazione lo associa a una funzione fondamentale come il linguaggio; dal recente studio si è visto che quello neanderthaliano assomiglia al nostro anche a livello di microstruttura) e della neurologia.
Quando nel 2010 i ricercatori sono riusciti a selezionare un numero sufficiente di frammenti di DNA non contaminato di Neanderthal, sequenziandone il genoma, è venuta fuori una cosa interessante. C’è un gene, chiamato FOXP2, che quando negli umani presenta certe mutazioni, influisce sulla facoltà di esprimersi: dai giornalisti è stato subito ribattezzato “gene del linguaggio” o “gene della grammatica”. È un’esagerazione, perché funzioni così complesse coinvolgono vari geni e vari organi, ma senz’altro un collegamento c’è, e forte. Bene: questo gene è presente anche in altri mammiferi – compresi i topi, che infatti quando in laboratorio ne subiscono una mutazione, squittiscono in maniera differente, cosa che conferma l’attinenza di FOXP2 con la fonazione – e in particolare negli scimpanzé è molto simile al nostro, tranne che per due minime varianti: evidentemente decisive, perché gli scimpanzé non parlano. Ora, le due varianti umane di FOXP2 sono presenti anche nei Neanderthal (ovviamente non è una prova certa del fatto che usassero il linguaggio, quella non l’avremo mai).
Sappiamo poi che i Neanderthal si sono estinti tra i 30 e i 40mila anni fa, ben dopo che gli umani moderni erano usciti dall’Africa e si stavano diffondendo per il mondo. Quindi era ovvio supporre che in Europa e in Medioriente si fossero incontrati. In realtà il DNA ci ha detto molto di più: i nostri progenitori e i Neanderthal si sono incrociati. In senso biblico: cioè hanno fatto sesso, e hanno prodotto degli ibridi. La cui discendenza è arrivata fino a noi: quasi tutti gli umani contemporanei hanno nel genoma una parte variabile tra il 2 e il 4% di DNA neanderthaliano. (Il che tra l’altro vuol dire che frasi come quella che ho appena scritto, “i nostri progenitori e i Neanderthal”, ha senso solo fino a un certo punto).
Non c’è un’evoluzione nel senso di miglioramento, di ascesa; soprattutto non c’è una linea singola che da Lucy – Australopithecus afarensis vissuta 3,2 milioni di anni fa, bipede – porta a noi.
Ma le specie non erano quelle cose che non potevano incrociarsi? Due specie i cui lignaggi non sono molto distanti possono ancora dare vita a degli ibridi: l’asino e la cavalla generano il mulo (quello che nasce da un cavallo e un’asina si chiama invece bardotto). Ma il mulo non può fare figli, né se si accoppia con un cavallo, né con un asino, né con un altro mulo (e neanche con un bardotto). L’ibrido è sterile: tradizionalmente, quando è così si traccia una linea e si dice che asino e cavallo sono due specie diverse. Uno dei modi di definire la parola specie è infatti “popolazione di esseri viventi i cui individui accoppiandosi tra loro generano prole fertile”. Da quando, quasi due secoli fa, i fossili in Germania furono scoperti, la popolazione in questione è stata chiamata Homo neanderthalensis: genere comune, specie a sé. Ora scopriamo che si è incrociata con Homo sapiens, e che ci portiamo ancora pezzi di Neanderthal dentro, quindi i casi sono due: o rivediamo la definizione di specie, o ammettiamo che i Neanderthal non erano una specie diversa dalla nostra.
Attenzione però: cosa vuol dire quella percentuale così piccola? Può voler dire che gli incroci sono stati pochi, e che quindi all’interno della nostra popolazione poi quel DNA si sia diluito in una lunga serie di accoppiamenti endogamici. D’altra parte, non sappiamo nulla delle condizioni in cui avvennero questi incontri, e questi incroci: se vi furono scontri, battaglie, violenze e accoppiamenti forzati o pacifiche convivenze a distanza, incontri sporadici, scambi, coabitazioni. Può però anche voler dire un’altra cosa: questi incroci – che tra l’altro, altra scoperta recentissima fatta grazie al DNA, non avvennero come si supponeva in Europa ma in Medioriente tra i 40 e i 54 mila anni fa – si pensa che non generassero sempre prole fertile. Il che è comprensibile considerando da quanto tempo i due rami si erano separati: un tempo intermedio, come intermedia dev’essere stata la fertilità degli ibridi. Quindi, stessa specie o no? La domanda è evidentemente insensata perché la tassonomia è una categoria umana, nella realtà c’è un continuum: natura non facit saltus per usare una frase ripresa dallo stesso Linneo.
Spiega Guido Barbujani: “È molto, molto difficile stabilire se creature vissute in momenti diversi possano aver fatto parte della stessa specie, e in questo campo io cercherei (seguendo un consiglio che ci viene, nientemeno, da Charles Darwin) di non fidarmi troppo delle etichette di specie. Darwin, e prima di lui già Lamarck, hanno capito che specie diverse originano, con modifiche, da antenati comuni. Quindi, in un certo momento abbiamo una sola specie, dopo migliaia o milioni di anni ce ne sono due. Il passaggio è graduale, e attraversa molte fasi: le razze o sottospecie rappresentano appunto una fase intermedia, in cui nuove specie si stanno formando, ma il processo non si è ancora concluso. Intendiamoci: abbiamo bisogno di nomi per designare gli organismi, e il concetto di specie resta indispensabile. Ma dobbiamo anche ricordarci che, nell’evoluzione, fra il bianco e il nero ci sono tante sfumature. Quello di specie è un concetto da relativizzare”. Massimo Sandal, in La malinconia del mammut (Il Saggiatore, 2019), chiosa: “specie è quando arbitro fischia”.
Quello che possiamo dire senza dubbio è che nel corso dei millenni, ed è ancora il DNA antico a rivelarcelo, l’eredità neanderthaliana è andata scemando, con percentuali sempre minori negli ultimi millenni. Anche se in certi casi i segmenti di genoma neanderthaliano potrebbero aver avuto una funzione adattiva (nella resistenza ad alcuni agenti patogeni presenti solo in Europa), in generale non sembra che questa sia stata la regola. D’altra parte, i risultati di questi re-incroci non sono stati stati neanche portatori di enormi svantaggi, perché in quel caso sarebbero stati eliminati subito.
C’è un altro caso in cui invece DNA ibrido è rimasto perché probabile portatore di vantaggio: il cosiddetto Uomo di Denisova, altra specie (o sottospecie?) recentemente scoperta in Asia centrale, appartiene a una linea staccatasi dai progenitori dei Neanderthal dopo la divergenza dagli antenati degli umani moderni. Come nel caso visto sopra però, in seguito i denisoviani si sono re-incorciati sia con i Neanderthal sia con gli umani moderni. E dei frammenti di DNA denisoviano (fino al 6%) sono rimasti in alcuni umani di oggi: in particolare, nei tibetani potrebbero aver contribuito a una mutazione adattiva fondamentale: quella che permette loro di sopravvivere e prosperare ad altitudini elevate, dove l’ossigeno è scarso, e molti altri umani fanno fatica a compiere le normali azioni quotidiane.
C’è infine da dire che non tutti gli esperti la pensano così. Barbujani per esempio sostiene una teoria minoritaria, ma non di minore rilevanza: “Il dibattito è aperto. I fatti di cui nessuno dubita sono due: primo, i non africani assomigliano ai Neanderthal un po’ più degli africani, dal 2 al 4% in più. Secondo, in Romania, a Pestera cu Oase, è stato rinvenuto lo scheletro, purtroppo incompleto, di qualcuno il cui DNA ci dice che ha avuto un trisavolo o un quadrisavolo neanderthaliano e gli altri antenati Homo sapiens. Non è chiaro se si sia trattato di un episodio isolato, o di una ibridazione che ha riguardato tutti quelli che poi si sono sparsi in Eurasia e oltre. Di fatto, la maggior parte degli esperti pensa che nel DNA di tutti noi eurasiatici ci siano tracce dell’ibridazione con Homo neanderthalensis, ma altri (fra cui io) preferiscono un’altra spiegazione, proposta per primo da Andrea Manica a Cambridge. Sia gli antenati dei Neandertal, sia gli antenati dell’attuale Homo sapiens venivano dal nord Africa (forse 700mila e 70mila anni fa, rispettivamente), e quindi ci si aspetta che fossero abbastanza simili fra loro: più, per esempio, che un Neanderthal con un africano del centro o del sud. Al mio scetticismo sull’ipotesi di ibridazione su larga scala contribuisce il fatto che, di decine di migliaia di umani contemporanei studiati, nessuno abbia né il DNA mitocondriale (trasmesso per via materna) né il cromosoma Y (trasmesso per via paterna) neanderthaliano; è difficile riconciliare questa osservazione con l’idea che discendiamo tutti da un’ibridazione con Neanderthal”.
Il legno storto dell’umanità
In tempi più recenti, nell’immaginario collettivo, la rappresentazione della progressione da scimmia a uomo è stata sostituita dalla figura di un albero. Le forme di vita derivano da antenati comuni che via via si sono sempre più differenziati. Pluralità contro unicità, parità contro gerarchia: sembra un bel passo in avanti, no? E invece anche lo schema dell’albero della vita è sbagliato, o meglio fortemente emendabile. L’immagine è talmente bella e potente che ritorna sulle copertine dei due libri di cui stiamo parlando: gli stessi due libri cioè che in vari passaggi provano a dimostrarne l’imprecisione. A scanso di equivoci: tutto ciò che sappiamo ci porta a pensare che la vita sulla Terra sia nata una sola volta, miliardi di anni fa, e tutte le specie attuali ed estinte si siano evolute a partire da forme molto semplici, unicellulari. Non ci sono state più insorgenze nel corso del tempo, e soprattutto non ci sono state apparizioni di forme complesse ex nihilo, come nei sette giorni della Creazione secondo la Bibbia. È vero che risalendo abbastanza indietro nel tempo ci scopriamo tutti parenti, io e voi, ma in fondo, a ritroso, vale lo stesso anche per un uomo e un cane, un cane e una mela, io e il grano e i lieviti che gli hanno dato forma di pizza e i batteri che mi aiuteranno a digerirla. Quindi vada per lo schemino dell’albero genealogico, in prima approssimazione, ma sapendo che di approssimazione si tratta.
Il fatto è che, nello specifico dell’evoluzione umana, la metafora dell’albero è usata per illustrare separazioni genetiche e geografiche successive. C’è un tronco – gli antenati dell’uomo in Africa – e c’è a un certo punto un ramo che si stacca: la prima migrazione out of Africa, un milione e ottocentomila anni fa; una popolazione che prende la sua strada nel mondo, e che si differenzia anche a livello di DNA. Ma nel frattempo anche sul tronco ci si continua a evolvere, finché tra 1.400.000 e 900.000 anni fa un altro ramo si stacca, un’altra migrazione popola l’Eurasia: è la linea umana cosiddetta superarcaica, e anche questa a un certo punto andrà perduta.
Poi tra i 700.000 e i 500.000 escono dall’Africa gli antenati di Neanderthal e denisoviani, e sappiamo che fine faranno. Nel mentre, tra i 300 e i 200 mila anni fa, si formano in Africa i cosiddetti umani anatomicamente moderni: usciranno dal continente poco prima di 50.000 anni fa e di lì si diffonderanno per il mondo, dominandolo. Questa è l’opinione più diffusa oggi all’interno della comunità scientifica: una serie di migrazioni successive dalla culla dell’umanità (out of Africa), un tronco da cui si staccano vari rami, il più recente porta a noi. Si è già visto nei paragrafi precedenti che questo non è vero in modo rigoroso, perché se c’è stato un minimo di incrocio tra Homo sapiens e Neanderthal è come se un ramoscello, sottile e ben lontano dal tronco, avesse unito due dei rami più alti: ma tutto sommato stiamo parlando di inbreeding a bassa intensità. “Il confronto con i genomi di Neanderthal e Denisova”, chiarisce Barbujani, “è stato un passaggio importante, in un quadro che comunque si era già chiarito. Oggi, le domande a cui lo studio dei geni, dei fossili e dei reperti archeologici cercano di rispondere riguardano i tempi (a partire da più di 100mila anni fa, o intorno a 70mila anni fa?) e le rotte (solo attraverso il Vicino Oriente, o anche, in precedenza, lungo una rotta meridionale direttamente dal Corno d’Africa all’Asia meridionale?) delle prime migrazioni dall’Africa”.
Oggi, le domande a cui lo studio dei geni, dei fossili e dei reperti archeologici cercano di rispondere riguardano i tempi e le rotte delle prime migrazioni dall’Africa.
Eppure abbiamo scoperto, come puntualizza David Reich, molti più lignaggi in Europa e Asia che in Africa: certo può trattarsi di ascentainment bias, una percezione distorta causata dal fatto che è qui che abbiamo estratto la maggior parte del DNA antico, è qui che li abbiamo cercati. Ma se invece fosse andata in altro modo? Se invece fosse stata la primissima migrazione out of Africa ad aver dato origine, direttamente in Eurasia, agli antenati dei superarcaici, dei Neanderthal e dei denisoviani? L’ipotesi è cioè che la maggior parte della storia umana sia avvenuta nel nostro continente, e che poi a un certo punto ci sia stata una migrazione di ritorno: prima di 300.000 anni fa un gruppo potrebbe essere tornato in Africa, dando origine poi alla stirpe attuale.
L’idea è affascinante proprio in quanto rivoluzionaria: scardina il cliché di un movimento obbligato unidirezionale. Ovvero: perché mai tutta questa gente usciva dall’Africa e nessuno mai ci andava? Gli uomini oggi si muovono avanti e indietro in tutte le direzioni, è presumibile che lo facessero anche in passato, più lentamente data la differenza tecnologica nei mezzi di trasporto, ma più facilmente grazie a una Terra molto meno popolata. Quello che piace a Reich è soprattutto l’economicità della teoria: presuppone, invece che quattro grandi migrazioni out of Africa, tre movimenti di cui due di andata e uno di ritorno.
Al momento è un’ipotesi non ancora supportata da dati, e a questo proposito Barbujani è infatti molto critico: “Quello che distingue una congettura da una vera ipotesi scientifica è la possibilità di verificarla sperimentalmente; il che, in questo caso, significa disporre di campioni antichi a sufficienza per poter ricostruire questa complessa serie di migrazioni in su e in giù, e al momento non li abbiamo. Il problema più serio, però, non è neanche questo: è il fatto che il DNA non si conserva nei climi caldi. Al momento, per l’Africa non disponiamo di genomi vecchi più di 8000 anni (li ha trovati proprio Reich, a gennaio 2020). Insomma, ci vorranno nuove scoperte di fossili e progressi tecnologici profondi prima che la teoria proposta da Reich possa passare dai libri divulgativi ai laboratori di ricerca”.
Nell’introduzione al suo libro, Reich aveva avvertito: è un campo soggetto a talmente tante ricerche e variazioni, che nel giro di pochi mesi si possono fare scoperte che rivoluzionano tutto il quadro. Nel febbraio 2020, sono arrivati due studi che hanno scompaginato le carte: in uno si parla di ibridazioni tra i primi sapiens in Africa e una misteriosa popolazione ora estinta e diversa da quelle finora conosciute. Il secondo studio, addirittura, sembra smentire tutto quanto detto finora sull’ibridazione tra Neanderthal e umani moderni non africani. Sono state trovate tracce di DNA neanderthaliano anche in africani: questo da un lato fa pensare a incroci avvenuti prima dell’ultima migrazione out of Africa, dall’altro fa supporre che dopo le ibridazioni in Europa e Medioriente, alcuni sapiens siano tornati in Africa riportando con sé un po’ di geni di Neanderthal. Non è l’ipotesi Reich, che si riferisce a un’epoca precedente, ma dimostra ancora una volta come gli uomini si siano mossi in modi non uniformi e prevedibili. Homo sapiens ha vissuto, in Africa, per centinaia di migliaia di anni separato dalle popolazioni di Neanderthal e Denisova. Allo stesso modo gli antenati di questi ultimi sono restati separati per ancora più tempo da chi prima di loro aveva popolato l’Eurasia. In entrambi i casi i nuovi arrivati (Homo sapiens e neandersovani) hanno conosciuto fuori dall’Africa i propri cugini e zii evolutivi. Non sappiamo se questi incontri siano stati amichevoli o conflittuali. Forse l’uno e l’altro. Sappiamo però che hanno lasciato traccia, genetica, all’interno di ognuno di noi.
Oppure, viceversa, queste ultime ricerche dovrebbero far mettere in dubbio tutto il castello edificato finora? Sostiene Barbujani: “Se adesso si dice che una parte della variabilità in Africa è però frutto di precedenti contatti con Neandertal, capire cosa c’era prima e cosa c’era dopo, nel genoma di africani e europei, e da dove viene, diventa difficile: almeno finché non si trovano campioni che ci dicano qualcosa sugli sugli stadi intermedi del processo. Sarebbe bello, per esempio, conoscere il genoma di un sapiens europeo di 50 mila anni fa: se geneticamente assomigliasse a quello di Neanderthal meno di quelli che son venuti dopo, ecco che ci sarebbe un elemento in più a favore dell’ibridazione. Siccome questi campioni non li abbiamo, io sospenderei il giudizio”.
Anche per i movimenti dell’uomo moderno ritorna la metafora dell’albero. La teoria prevalente è infatti quella di un’espansione dall’Africa al Medioriente, di lì si svolta a sinistra verso l’Europa e a destra verso l’Asia centrale; in seguito una linea va giù a popolare sudest asiatico e Australia e tutte le isole del Pacifico, un’altra sale fino alla Beringia e approfittando del basso livello dei mari passa su quella striscia di terra e arriva in America; a quel punto non ha altro da fare che popolare tutto il nuovo mondo, arrivando pian piano giù fino alla Terra del fuoco. Se lo disegnate su una carta geografica, è proprio un albero quello che esce. Bello vero? Ma, come potete immaginare arrivati a questo punto, sbagliato anche questo.
Le ricerche genetiche sembrano star facendo crollare una certezza sull’altra: innanzitutto si è scoperto che molto prima di 50.000 anni fa gli umani moderni erano già usciti dall’Africa, testimonianze da varie discipline li collocano in Medioriente prima di 100.000 anni fa; questo sembra ormai dimostrato, anche se resta salda l’idea che la migrazione principale dalla quale discendiamo tutti sia l’ultima. Ma, soprattutto, si è scoperto per esempio che gli ingressi in America sono stati vari, almeno quattro, in tempi molti diversi e geneticamente indipendenti. Non solo: in almeno un caso c’è stata un’ondata migratoria di ritorno, in senso America-Asia.
Non si spiegherebbe altrimenti l’unicità dei Čukči, una popolazione dell’attuale Siberia nord-orientale, sia dal punto di vista linguistico che genetico: stanno in Asia ma sono più parenti degli americani che dei loro vicini di casa, e questo obbliga a ipotizzare una popolazione, ora estinta, che dall’Alaska si è spostata in Siberia. “Un tipo di scoperta che è difficile dimostrare con l’archeologia, è proprio il genere di sorpresa che soltanto la genetica può donarci”, scrive Reich.
Questa è una storia particolare: quella delle cosiddette popolazioni fantasma. Le ricerche genetiche portano a delle scoperte che non si sa bene come spiegare, all’inizio: da un test, di quel tipo che i genetisti chiamano “delle quattro popolazioni”, era venuto fuori che c’è più DNA in comune tra i nordeuropei attuali e nativi americani, che tra nordeuropei e asiatici dell’est. Il che contraddice appunto il disegnino dell’albero, perché se gli americani vengono dall’Asia dovrebbero essere molto vicini a chi in Asia c’è rimasto. L’unica spiegazione possibile, ipotizzò all’epoca il team di David Reich, è che ci sia stata, in un’epoca in cui le linee di europei ancestrali e antichi est-asiatici si erano già divise, una terza popolazione che mescolandosi con i primi abbia generato gli europei moderni, e incrociandosi con i secondi abbia dato origine a quella linea che poi si è spostata in America. Posta nel mezzo concettualmente, questa popolazione fantasma doveva essere nel mezzo anche geograficamente: perciò era stata denominata “antichi eurasiatici del nord”. Qualche tempo dopo, è stato pubblicato il DNA del cosiddetto “ragazzo di Mal’ta”, vissuto nella Siberia centro-meridionale 24.000 anni fa: eccolo lì, la popolazione fantasma non era più tale, l’ipotesi teorica trovava conferma.
Le ricerche genetiche sembrano star facendo crollare una certezza sull’altra. L’albero dell’evoluzione umana si sta rivelando sempre più come un cespuglio, o come un pergolato, con incroci multipli, ritorni e intrichi.
Insomma, lo studio della genetica e delle migrazioni degli ultimi milioni di anni di evoluzione umana è un campo di ricerca ancora aperto. Scattare un’unica fotografia che racconti storia e preistoria degli esseri umani e dei suoi antenati è ancora impossibile. Dietro ognuna delle date che abbiamo citato, c’è un lavoro statistico minuzioso, dietro a molti degli studi c’è un dibattito ancora aperto. Una cosa possiamo dirla, però: l’albero dell’evoluzione umana è più come un cespuglio, con incroci multipli, ritorni e intrichi; o come un pergolato, se si preferisce. E il tronco? Se c’è, non è un fusto dritto e maestoso di sequoia o baobab: assomiglia di più a un nostrano olivo, uno di quegli esseri rugosi e ritorti che si piegano fin quasi a terra come sconfitti, per poi risollevarsi all’ultimo centimetro (o forse no). La famosa frase di Kant sul legno storto dell’umanità, se depurata del suo senso morale, risplende qui in tutta la sua verità. E la sua bellezza.