N el Marzo 1922 il clima culturale italiano è in forte agitazione. Tentando di scrollarsi di dosso i cascami del primo conflitto mondiale, e annichilito il biennio rosso, l’Italia sta affidando le energie della propria ricostruzione ai fascisti di Mussolini che di lì a poco saranno pronti per autoconsacrarsi a forza dominante “marciando su Roma” in Ottobre.
Nel panorama artistico-letterario spadroneggia la seconda fase del Futurismo, che, non ancora pago delle stragi sul Carso e altrove, propugna un nazionalismo fanatico e bellicoso, ancora ben sintetizzato nell’icona della macchina. Marinetti e gli altri sono entusiasti del Duce e insieme a D’Annunzio, in ritiro privato al Vittoriale dopo il fallimento dell’impresa di Fiume, da lì a pochi anni saranno i primi ferventi firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, saldando la propria prospettiva all’ideologia di regime. E così, come una stampella culturale, il mito dell’uomo robotico, della velocità e della meccanizzazione, da postulato letterario diviene stile e modello di vita per tutti gli italiani, ovviamente incarnato dal Duce, aviatore e motociclista. È in questo mondo che comincia la costruzione della prima autostrada, tra Milano e Varese, ultimata in soli 15 mesi nel Febbraio del 1923.
Nel 1922, sono solo 41.000 le automobili circolanti in Italia, contro le 300.000 francesi e le 600.000 inglesi: un rapporto di un veicolo ogni mille abitanti. Di un’autostrada, a Milano come a Roma o a Firenze, non c’era ancora bisogno, eppure, da un lato la prospettiva di grandi affari intuita dagli imprenditori – in testa la Fiat degli Agnelli –, dall’altro proprio l’ideologia fascista, la virilità che si fa scatto, gesto fulmineo, rapidità agonistica, contribuiscono a favorire l’opera di Piero Puricelli, direttore della Società Anonima Autostrade, reduce dalla progettazione di uno dei più famosi luoghi di celebrazione della velocità, l’Autodromo di Monza.
La Milano-Varese non è la prima autostrada al mondo, ne esistevano già in America e una in Germania. La differenza, però, era che queste strade erano state concepite per uno scopo essenzialmente ludico-ricreativo, immaginando un turismo paesaggistico legato all’automobile o addirittura, come nel caso tedesco, usate anche come piste di gara. Al contrario, la Milano-Varese era stata costruita secondo un concetto moderno di autostrada, per unire cioè due punti su una mappa, nel modo più rapido possibile.
Quella autostradale divenne una mania, e una mania redditizia: Gramsci in persona – incarcerato dal regime proprio in questi anni – coniò il termine “puricellismo”, al punto che nell’arco di un decennio il tracciato raggiunse Venezia e Torino, attraversando la Pianura Padana. Da quel momento le autostrade non hanno mai smesso di crescere arrivando ai quasi 7000 km del 2017. Eppure, usciti dal mito della velocità fasciofuturista così come dalla speculazione del boom, cosa guardiamo, oggi, se guardiamo l’autostrada? Che esperienza facciamo percorrendola?
L’autostrada come spazio virtuale
Che sia nata prima la casa o la strada che vi conduce è un fatto irrilevante. Come scrive Franco Farinelli nella sua Geografia, “il nesso tra casa e strada è talmente intimo che viene da chiedersi su quale base e fino a quale punto si possa separare l’una dall’altra, e quale senso abbia”. Seguendo le orme semiotiche di Peirce, Farinelli identifica il nesso tra strada e casa come un segno indicale, un rapporto cioè di contiguità e correlazione (“quando si dice che qualcosa è indice di qualcos’altro si intende che qualcosa è collegata a qualcos’altro dal punto di vista causale, oppure che è associata a essa nello spazio o nel tempo”), perché è evidente che non può esserci un’abitazione senza una via di comunicazione che ad essa conduca.
Tale scontata reciprocità inizia però a venire meno in maniera progressiva con la creazione dello spazio moderno, ossia col sopravvento della misurabilità spaziale sulla specificità del luogo. Se il luogo infatti è qualcosa di irripetibile e impossibile da scambiare o spostare, lo spazio implica invece la qualità di misurabilità e quindi riproducibilità. Per Farinelli, la creazione dello spazio e la sua misurazione introducono necessariamente l’idea di tempo di percorrenza attorno a cui, a sua volta, muta la fisionomia concettuale della strada. Il luogo ha un tempo inesprimibile, dura con la presenza ed è legato all’esperienza immediata e diretta; lo spazio è invece riducibile ad unità di misura, a tempo conteggiabile e attraversabile.
È proprio questo processo dunque che dà l’avvio al lento scioglimento del nesso strada-casa: il mondo si riduce a tempo di percorrenza, la strada a una linea retta, rappresentando il processo di geometrica astrazione che accompagna l’edificazione degli spazi; inizia così la costruzione del territorio moderno, di cui l’autostrada è il culmine e il paradosso.
Lo sviluppo autostradale è ovviamente legato alla diffusione dell’automobile, che, a sua volta, nei sogni di ingegneri e imprenditori era l’occasione di un profitto che i mezzi pubblici – ferrovie in testa – non potevano fornire. Tuttavia, non è solo in termini di profitto che ferrovia e autostrada divergono; seppur dipendenti entrambe dal concetto di spazialità moderna, esse sono radicalmente differenti, individuando due momenti diversi di questo processo.
L’autostrada è di per sé un’anti-strada, è l’unica a non condurre mai realmente a nessun edificio, nessuna sede.
La ferrovia infatti è sì una linea retta, ma è un modificatore dello spazio che genera aggregazione; il passaggio della strada ferrata è di per sé creatore di realtà urbane: la crescita edilizia si calamita attorno al treno, il cui transito, infatti, nelle città senza rilevanti impedimenti topografici, non è mai lontano dal centro. In buona sostanza dunque, sebbene sia figlia della spazialità moderna, la ferrovia funziona ancora da indice della sede urbana. Tuttavia, al mutare delle città in metropoli, all’avvento di sconfinate periferie, il treno – anche trasfiguratosi in mezzo suburbano o metropolitana – cede il passo all’automobile negli spostamenti inter e intra urbani. È in questa fase, coincidente con la nascita delle autostrade, che il segno indicale strada-sede cessa di esistere, nel momento in cui la maggioranza della viabilità passa proprio dalla ferrovia a queste ultime.
L’autostrada infatti è di per sé un’anti-strada, è l’unica a non condurre mai realmente a nessun edificio, nessuna sede. Se la particolarità della ferrovia è trasportare direttamente all’interno di un centro urbano, quella dell’autostrada al contrario è di evitarlo programmaticamente in virtù della rapidità di spostamento. Il transito autostradale ignora ogni topografia, tagliando ogni mappa possibile, conducendo attraverso territori genericamente deserti, terrae nullius, il tutto in nome della velocità. La subordinazione a questo concetto rende il viaggio autostradale di per sé infecondo, svolto in una dimensione non caratterizzata, che sebbene sia nutrita dall’idea dello spazio moderno, si trova ad estremizzarne l’astrazione al punto di disgregarlo. Percorrendo l’autostrada, non esiste più nessun luogo, nessuna caratteristica, nessun centro da attraversare, i tragitti sono come concepiti su una cartina muta che malgrado la sua velocità non ha alcuno sbocco, dando il meglio di sé in quei luoghi a perdere che sono le tangenziali, di cui fornisce un ottimo esempio Valerio Mattioli nel suo Remoria ragionando attorno al GRA:
La definizione che lo descrive è: “l’anello autostradale che circonda la città di Roma”. Ed è una definizione falsa. D’accordo: un’autostrada, il Grande Raccordo Anulare lo è senz’altro. E altrettanto sicuramente è un anello. Solo che ecco: non circonda alcunché.
E ancora:
La costruzione del GRA, che all’inizio galleggia solitario nel nulla della campagna romana, fa sì che rispetto al limes delle antiche mura aureliane le distanze vengano più che triplicate. I primi commenti dell’Anas parlano di un’opera inutile, sproporzionata ai bisogni di una città ancora in piena era preautomobilistica. A cosa mai poteva davvero
servire una roba del genere? L’unica risposta sensata era “a nulla”, e infatti il GRA si presenta da subito non come un’infrastruttura, ma come una specie di piatto totem, di faraonico monumento orizzontale.
L’inutilità defunzionalizzata del GRA è spiegata da Mattioli attraverso la figura dell’Ouroboro, il serpente che si mangia la coda oppure mutuando da Duchamp il concetto di “macchina celibe”: “un dispositivo ‘definitivamente incompiuto’ dai meccanismi bizzarri e senza finalità apparente, una sorta di giocattolo privo di scopo e, appunto, inutile” la cui caratteristica è l’incapacità di generare – in questo caso, di generare una sede. La sterilità a cui si fa riferimento però non è limitata al GRA, il fine che Mattioli sente mancare al raccordo romano è infatti proprio la rottura del segno indicale che lega strada e sede; sul GRA o su una tangenziale si può viaggiare all’infinito e non arrivare mai da nessuna parte.
L’autostrada a differenza delle altre strade, perde la caratteristica di instauratore di sedi, tendendo piuttosto ad annichilirle. In questo modo il rapporto spaziale moderno, iniziato con la trasformazione dei luoghi in spazi e portato all’apoteosi dalla ferrovia, viene ribaltato e annullato.
L’autostrada da questo punto di vista infatti è espressione dell’uscita dalla modernità e immissione nel contemporaneo, rappresentando in termini fisici l’annullamento del modello spaziale che con essa perde le sue caratteristiche di continuità e omogeneità per ridursi a retta ideale. A dire il vero, l’autostrada non rompe il segno indicale, bensì lo invalida facendolo transitare in un’altra dimensione, quella virtuale. In questo modo, al pari delle telecomunicazioni, l’autostrada contribuisce ad un mutamento ulteriore nei confronti dello spazio, sopprimendo la sua percezione moderna e spostandosi nella virtualità, cioè in ciò che esiste come astrazione, possibilità altra, realtà (e spazio) alternativo, nuovo territorio ed espressione tipica del contemporaneo.
Eppure, nonostante il mutamento percettivo, l’autostrada rimane anche ben ancorata alla sua dimensione fisica, ai suoi piloni, agli svincoli, ai viadotti che, anche quando crollano, ribadiscono altre manifestazioni fenomeniche del contemporaneo, oltre la virtualità.
L’autostrada come pseudo-servizio
Evitando la città, i centri, le sedi, l’autostrada è dunque la prima strada che rinnega la propria natura, indebolendo invece che rafforzare il legame tra vie e sedi. Facendo saltare l’idea dello spazio moderno e accedendo a quello virtuale, le autostrade sono le prime strade a dividere invece che unire. Ma se l’oggetto della divisione è lo spazio, chi è il soggetto? Su chi influisce tale progressiva separazione? In primo luogo a essere divisi sono gli utenti stessi. Chiunque abbia studiato per ottenere una patente di guida si ricorderà la domanda trabocchetto “Qualora il conducente veda un automobilista fermo per avaria del veicolo in autostrada, si deve fermare a prestare soccorso” la cui risposta è “Falso”.
La normativa del Codice della strada (articolo 175) stabilisce infatti che gli unici a poter soccorrere in autostrada siano gli enti autorizzati che vanno chiamati dagli utenti. Ciò avviene ovviamente a causa della pericolosità di un ipotetico soccorso, con il risultato, però, di inibire nell’automobilista la reazione più semplice, cioè il soccorso immediato – cosa che, al contrario, è tendenzialmente data per scontata all’interno di una strada “tradizionale” dove la presenza di altre persone garantiva e garantisce la possibilità di un aiuto tempestivo. Ciò avviene perché così come per lo spazio, anche gli utenti dell’autostrada sono in un certo modo virtualizzati. Sono lì certamente presenti all’interno delle loro automobili, ma ognuno di essi corre in una dimensione che non può incontrare le altre, è isolato e si percepisce come tale.
Quando l’automobilista entra in autostrada penetra infatti nella creazione di quel non-spazio che l’autostrada stessa produce attraverso la rottura del segno indicale, anche lui si fa virtuale come lo spazio che attraversa. Ma l’aspetto dell’impossibilità del soccorso non è solamente indice della virtualizzazione del soggetto.
L’autostrada infatti in qualità di emanazione dell’ultra-contemporaneità è di facile accesso, eppure, quando qualcosa va storto, presenta soluzioni mai agevoli quanto il suo utilizzo. Rimanere in avaria per strada è una brutta esperienza, restarci in autostrada lo è ancora di più. L’impossibilità di procedere per soluzioni istintive e d’uso comune (come il soccorso immediato), dovendo invece optare per un sistema di contorte complessità è in verità un tratto comune a tutti i servizi nati nell’era del capitale ed è ciò che Mark Fisher illustra attraverso l’esempio dei call center:
In quanto consumatori dell’evo tardo capitalista, più passa il tempo più esistiamo in due realtà distinte e separate: da una parte, quella in cui i servizi ci vengono prestati senza intoppi di sorta; dall’altra, una realtà completamente diversa: il folle labirinto kafkiano dei call center, un mondo privo di memoria in cui i meccanismi di causa ed effetto si legano tra loro in maniera misteriosa e imperscrutabile, dove è già un miracolo se qualcosa si muove e dove ogni speranza di riapprodare dall’altra parte, quella dove le cose filano lisce e senza strappi se ne va in fumo.
Chiamare un call center, chiedere il rimborso per un biglietto di un volo low-cost, avere un’avaria in autostrada, sono tutte esperienze che restituiscono l’effettiva distanza dell’utente dalla realtà di cui usufruisce e allo stesso tempo testimonia l’esistenza virtuale in cui quest’ultima è relegata.
In Descolarizzare la società, il sociologo austriaco Ivan Illich propone uno spettro di lettura delle istituzioni. In base al “costo nell’acquisizione di un cliente” ossia la spesa reale o simbolica per convincere un soggetto a utilizzare quel servizio, Illich colloca a sinistra dello spettro le istituzioni che richiedono meno dispendio di fatiche, chiamandole “cooperative/conviviali”; a destra invece sono collocate le istituzioni “manipolatrici/clientelari”, quelle cioè che devono investire grosse quantità di risorse per acquisire utenti. Ed è proprio in questo discorso che l’autostrada ricopre un ruolo particolare.
Il sistema autostradale viene spesso appellato con l’aggettivo “pubblico” ed essendo una rete dovrebbe appartenere alla parte sinistra dello spettro. Tuttavia a questo punto si rivelano delle problematiche. Se di certo l’autostrada non fa fatica ad acquisire un utente, è altrettanto vero che non ha nulla a che vedere con gli altri servizi pubblici reali che occupano la parte sinistra. L’autostrada è un percorso a pagamento, che non è semplicemente a disposizione di chi ha una patente o sa guidare, ma di chi possiede un mezzo, dei soldi per mantenerlo, per pagare il pedaggio e il carburante. Il servizio autostradale è rivolto in realtà a un’utenza circoscritta e caratterizzata, trasformandosi così in un’istituzione della destra dello spettro: compra un automobile, così potrai godere dei miei benefici.
Per Illich questa ambiguità all’interno dello spettro rende l’autostrada uno “pseudoservizio pubblico”, dove l’elemento deteriore che la distingue rispetto ai servizi pubblici reali è proprio la sua inefficacia a favorire la comunicazione tra gli uomini. Torniamo così all’autostrada come struttura isolante, divisiva, infeconda.
Ma se l’autostrada non favorisce la comunicazione e rompendo lo spazio tradizionale diventa un’anti-strada che si srotola per territori selvaggi, priva di soggetti che possano relazionarsi tra loro – anche in situazione di emergenza –, preservando peraltro un lato oscuro e kafkiano, chi o che cosa è il reale referente dell’autostrada? Ovviamente il prodotto.
L’autostrada come mercato
Scrive Illich:
I fabbricanti d’auto, lo abbiamo già notato,
producono contemporaneamente macchine e richiesta di macchine. Producono anche la richiesta di autostrade a più corsie, ponti e impianti petroliferi. L’automobile privata è il nucleo intorno a cui si aggrega una massa di istituzioni di destra. […] Vendere il prodotto-base significa “agganciare” la società all’intero “pacco” di prodotti.
Ecco che allora l’autostrada è realmente un oggetto anfibio e bifronte. La virtualità che la caratterizza come spazio geografico è tale infatti dal momento che essa perde i suoi attributi spaziali “fisici” per acquisire quelli dello spazio di mercato, impalpabili ed evanescenti. Il vuoto che sta al centro del mercato colonizza lo spazio della strada che si fa autostrada, spogliandola delle sue peculiarità e introducendola a quel nulla infecondo, di cui rimane solo il mito della percorribilità (per pochi) in tempi rapidi, che gira perennemente e a vuoto, come il GRA. L’autostrada è il coronamento del processo più redditizio del capitalismo, il mercato dell’automobile, oggetto in funzione di cui è creata.
Lo scrive bene Andrea Coccia in un pamphlet dal titolo Contro l’automobile, sottolineando come l’auto sia la perfetta incarnazione delle anime del tardocapitalismo: “simbolo vivente del trionfo dei bisogni dell’individuo su quelli della collettività, ma anche della legge del profitto su quella della sostenibilità, della crescita all’infinito sulla ricerca di equilibrio”, qualità che si attagliano tutte anche all’autostrada.
L’automobile è in effetti il primo modificatore dello spazio, è la miccia che porta poi alla deflagrazione di cui abbiamo già discusso. L’auto, primo fattore divisivo a trasformare i cittadini in un tappeto di nemici sclacsonanti pronti a passare in testa a tutti o bramosi di strappare un parcheggio per primi, è proprio quell’elemento che ha permesso la trasposizione della vita delle comunità sulla scala della metropoli. Se il treno era un “piantatore di città”, l’auto è il mezzo che in queste, divenute oramai enormi, è in grado di spostare i flussi del commercio e dei lavoratori trasformando così la città in un luogo dove il centro pulsante si nutre di periferie in cui il senso di comunità è ridotto all’osso.
Così, dei tanti messaggi che colonizzano l’orizzonte del cittadino nella direzione del consumo, quello dell’automobile diviene uno dei più ripetuti. Se Illich continuava la sua argomentazione ricordando come le industrie automobilistiche manipolino“anche e soprattutto il gusto del pubblico, in modo che il bisogno di trasporti si esprima come richiesta di automobili private anziché di autobus pubblici”; Coccia, seguendo le orme di Colin Ward e del suo saggio Dopo l’automobile, aggiunge un tassello importante, rilevando come questa occupazione dell’immaginario faccia leva sul sogno di libertà assoluta che ognuno ha fin dall’infanzia; l’automobile è il riscatto dalla palude della metropoli, è la possibilità del viaggio a basso costo, il simbolo della vacanza, dell’evasione, della felicità. E ciò avviene in maniera tanto più pervasiva quanto più sono economicamente deboli le fasce a cui si rivolge.
Così, mentre l’automobile viene assimilata allo strumento di realizzazione del sé e della propria libertà – nonostante sia spesso inefficiente ed estremamente costoso –, le strade della città modellate dal suo passaggio, vengono annichilite nella loro funzionalità e le comunità di cittadini che vi si stringevano attorno si mutano in frotte di automobilisti irosi e sempre più isolati, mentre i piccoli negozi chiudono per fare spazio ai parcheggi degli iper-mercati. Se i vicoli dei centri storici si trasformano in bomboniere, le strade divengono quelle linee del desiderio di cui parlava Farinelli, cioè “i tracciati rettilinei che ogni automobilista si augura mentalmente per spostarsi da un punto a un altro”. Esse però non sono che rette impossibili e illusorie, dietro le quali si nasconde quel vuoto descritto da Fisher.
Al posto di linee di desiderio o di libertà, gli infiniti anelli tangenziali e gli svincoli delle autostrade sono come i dendriti di un neurone morto, non veicolano alcuna comunicazione o informazione, non portano da nessuna parte. Sono piuttosto le diramazioni di una hyper-polis che fagocita nel suo mondo virtuale un soggetto perduto a inseguire i propri desideri avvelenati di fuga da una realtà sgradevole, in folle corsa sull’autostrada, ridotta a impersonale e sterile sbocco dei più grassi frutti del capitalismo, gli stessi che oltre a rimarcare il privilegio della proprietà, contribuiscono all’inquinamento della nostra atmosfera.