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ipetevo sempre al Mastro che per scrivere in un modo che lo rappresentasse il più possibile dovevamo frequentarci. Altrimenti, tanto per fare un esempio, non avrei mai potuto inventarmi una battuta che avrebbe potuto fare anche lui.
La cosa più naturale per il Mastro fu quindi invitarmi in barca. Non essendoci mai stato e non sapendo se mi sarebbe piaciuto o meno patteggiai una gita giornaliera. Per incominciare. Così volai a Olbia e poi presi un NCC fino a Palau. La statale si snodava deserta fra curve, ulivi e fichi d’India, l’autista disse che era sempre così a inizio stagione: poco movimento. “In mare, però” concluse, “è già un’altra cosa”.
Mi aggirai per i pontili finché non vidi il Mastro fare grandi cenni di saluto dalla poppa del Galatea. Veleggiammo fino a Bonifacio, oltre al marinaio che si occupava della manutenzione della barca e aveva il mio stesso nome, Marco, a bordo conobbi Santo, un amico di lunghissima data del Mastro: i due avevano condiviso molto, tra cui un ultimo banco al Parini e la scuola velica a Caprera. Uscito dalla marina lo Swan si mise a filare veloce. Con il vento in poppa la mia prima impressione fu che andare a vela fosse un’attività divertente ma non meritevole di tutta la dedizione che gli tributava il Mastro. Seduto nel pozzetto lo osservavo dare con una voce calma e decisa comandi ai suoi due marinai, anche volendo non avrei potuto contribuire visto che non capivo granché di quello che diceva.
“Mi sembra un po’ escludente come linguaggio” dissi giusto per non sembrare troppo compiaciuto di quello status di passeggero in panciolle. “C’era davvero bisogno di inventarsi tutte queste parole specifiche? Davvero ‘cazzare’? Non si può dire ‘tirare’? E non si può usare ‘destra’ al posto di ‘dritta’?” Qualcosa – ben poco in realtà – andavo infatti intuendo dei significati di quella lingua parallela.
“Questa è una passeggiata, ma quando sei in mare aperto, o nell’oceano, ogni comando deve arrivare preciso, senza possibilità di errore. Se hai un marinaio a prua e ti arriva metà della parola che ha detto, allora vedrai che è un problema che de-stra e sini-stra finiscano alla stessa maniera. La precisione è una delle cose che preferisco della vela” spiegò il Mastro, con una calma nella voce ancora maggiore di quella che aveva a terra.
Per il resto di quella navigazione mi persi in una silenziosa analisi comparata fra ciò che mi pareva di capire di quel linguaggio e quello che sarebbe stato l’equivalente in un italiano meno settoriale. Quando arrivammo in prossimità della rocca di Bonifacio avevo visto un paio di delfini saltellare a poppa e capito che a bordo c’erano molte vele – ognuna divisa in diverse parti –, un’infinità di corde, parecchi anelli dove farle passare e tutta una serie di anfratti, legni e pulegge a cui assicurarle attraverso l’uso di nodi i cui nomi avrebbero meritato, da soli, un’appendice dedicata. Insomma, mi ero ormai quasi del tutto rassegnato all’effettiva necessità di quella lingua iniziatica, che ciononostante continuava a sapermi di esclusione e – come tutte le lingue iniziatiche – ispirarmi una naturale antipatia.
Andammo a pranzo in una piccola osteria vicino alla scalinata del re di Aragona, un posto abbastanza cencioso la cui vista mise di ottimo umore sia il Mastro che Santo.
Il mio omonimo invece non parlava granché e rimaneva imperscrutabile. Avevo capito solo che era sardo, viveva a Genova per attendere alla barca e l’aveva portata a Palau con una navigazione notturna in solitaria. Il Mastro abbracciò Baptiste, il cinquantenne proprietario del locale, e si assicurò che avesse preparato azziminu di capicorsu – la zuppa di pesce corsa che prevedeva l’uso di almeno sette tipi diversi di pesce. Si trattava di pura ritualità visto che, come scoprii poi, il Mastro gli aveva telefonato il giorno prima proprio per questo motivo. L’azziminu si dimostrò effettivamente buono ma negli elogi esagerati in cui si produssero il Mastro e Santo vidi soprattutto i lineamenti di un loro mondo fatto di porti, marine, rotte, bettole segrete alternate a grandi ristoranti e ville con moli privati. Il sardo dal canto suo disse solo che la zuppa gli ricordava quella che faceva sua nonna, a parte lo zafferano che era una variante francese e che in effetti Baptiste confermò venire dalla bouillabaisse.
“Anche il pastis al posto del vermentino” notò il Mastro. Santo doveva quel suo nome così poco lombardo a una madre siciliana ed era – per parte di padre – l’erede di un marchio di arredamento di design. Il suo cruccio principale sembrava essere quello di essere stato colpito da quella che tutti e tre mi descrissero come la peggiore disgrazia che potesse accadere a un velista: una moglie a cui non piacevano le barche. Il che era ancora più grave considerato che la famiglia di Santo possedeva un vecchio Sciarelli costruito da Sangermani, uno scafo elegantissimo – di cui il Mastro era un fervente ammiratore – ma, come tutte le barche d’epoca, anche molto scomodo. C’erano quindi scarsissime possibilità di patteggiamento fra Santo e la moglie e lo Sciarelli rimaneva quasi sempre ormeggiato a Genova. L’ultimo grande viaggio Santo glielo aveva fatto fare qualche anno prima, quando con il Mastro e altri due amici avevano navigato fino a Madera. Anche se il Mastro sosteneva la necessità di altri viaggi nell’oceano per onorare una barca come quella mi sembrò che Santo parlasse di quella rotta come una specie di cerimonioso funerale. Scoprii più tardi, cercando su internet il nome dello scafo, che la barca era in vendita ma Santo non aveva avuto il coraggio di confessarlo al Mastro.
Risalendo a bordo il marinaio sardo mi indicò con orgoglio le saldature impeccabili e le viti tutte, nessuna esclusa, con i filetti orientati per essere perfettamente paralleli alle mura dello scafo. “Marco, vedi, questa è la Bentley dei mari.”
Il Mastro assistette a quello scambio e quando fummo rimasti soli commentò: “La tiene come fosse sua. È prezioso, Marco”.
Tornammo indietro con dei bordi di bolina. Quando la barca si inclinò per la prima volta provai un brivido che si trasformò in fretta in una sensazione di leggera euforia. Gli schizzi d’acqua lambivano la falchetta sottovento e mi sembrò di incominciare a capire.
Mi sdraiai puntando i piedi su un avvallamento della vetroresina e mi rilassai. Ogni tanto davo uno sguardo al Mastro: in tutta la giornata non aveva mai controllato il telefono, non lo avevo mai visto concentrato così a lungo su una singola questione, la barca era davvero il suo yoga. Finito di manovrare, Santo mi raggiunse e indicò l’isola di Lavezzi, disse che nelle sue acque si trovava un santuario per le cernie, un punto a quindici metri di profondità dove una colonia risaliva abitualmente dagli abissi e non sembrava conoscere la paura degli esseri umani.
“Se ti immergi le puoi guardare in faccia e mamma mia se sono brutte” aggiunse ridendo. Scrutando l’isola vidi dei turisti che tornavano a piedi, scarpinando sotto il sole, verso i barconi che li avevano scaricati ore prime su quell’isola disabitata. Riappoggiai la testa sul ponte di teak assemblato a mano in Finlandia e lasciai che il sole e il vento si fondessero in una sensazione di benessere.
Quella sera, mentre sul bordo della marina aspettavo l’NCC, vidi una coppia di mezza età fotografare con lo smartphone le barche più grandi e lussuose. In tutta quella giornata spesa a bordo del Galatea non avevo scorto nessuno scattare delle fotografie con il cellulare, non sulle barche ormeggiate a Palau o a Bonifacio, né su quelle – ed erano molte – che avevamo incrociato da vicino in navigazione, né, ancora, su quelle ancorate nella caletta di Budelli dove c’eravamo fermati per un bagno prima di rientrare in porto. Le uniche persone che avevo visto con il telefono ben stretto in mano e affannosamente impegnate a certificare la loro presenza in uno degli arcipelaghi più belli del Mediterraneo erano i turisti sui bastioni di Bonifacio e quelli che scarpinavano accaldati sulle rocce di Lavezzi. Oltre al sottoscritto, naturalmente. Venni colpito con una certa intensità – dovuta anche al fatto che si trattava di un’ovvietà che per tutto il giorno avevo avuto sotto gli occhi senza per questo notarla – dall’evidenza che le foto con lo smartphone erano la pulsione elettiva di chi voleva dare un’immagine cosmetica della propria esistenza, persone per le quali aggirarsi attorno alla Maddalena aveva carattere di eccezionalità. Chi godeva di un’autentica consuetudine con il privilegio non sembrava sentire il bisogno di metterne a parte il resto del mondo; semmai, anzi, preferiva nascondersi. Il selfie era una dichiarazione di minorità, una lampante autocertificazione di povertà. Il suo vero messaggio era: tutto questo per me è strano, inconsueto ed episodico, facciamo una foto per celebrarlo.
Questo significava tra le altre cose che niente di quello che avevo visto e sentito quel giorno fosse utilizzabile, neppure come aneddoto introduttivo, per un’efficace comunicazione online. Neanche le cernie, perché a Lavezzi bisognava sempre arrivarci e serviva una barca, o almeno un gommone, oltre all’attrezzatura da sub e un brevetto per le immersioni. Se i pezzi firmati dal Mastro dovevano finire sui social i riferimenti alla vita reale andavano tarati su possibilità di spesa minime, nell’ambiente digitale ogni riferimento al mondo che viaggiava a più di milleduecento euro al mese sarebbe stato accolto con risentimento. Ironicamente quella sarebbe stata la reazione anche delle persone che andavano ben oltre quegli angusti limiti salariali, ma, forse perché terrorizzate dall’idea di farsi scoprire, si fingevano tribuni del popolo fra i più severi. Quella grammatica dei social, quel clima cioè di terrore, finiva per legarmi parecchio le mani dal punto di vista creativo.
Fu davanti alla gigantografia pubblicitaria di un Rolex Yacht-Master II da quarantaquattromila euro appesa sopra l’ingresso dei controlli di sicurezza dell’aeroporto di Olbia che capii che per salvare qualcosa di una giornata come quella avrei dovuto abbandonare del tutto il dettaglio e provare ad astrarre. Ricavare cioè qualche schema di carattere generale. Potevo ad esempio prendere il discorso della precisione della lingua della vela – evitando accuratamente ogni menzione a winch, vang, scotte e gomene – e spostare lo stesso concetto nel mondo dell’innovazione. In un Paese in cui i vecchi venivano rietichettati come maturi e i romanzi erano ricchi di peni e scarsi di cazzi, c’era senz’altro molto spazio per un appello in favore di una lingua più precisa e sincera: il mondo dell’innovazione non doveva fare eccezione.
Passai la settimana successiva a fare delle ricerche e delle brevi interviste ai membri del team digitale ed entrambe finirono per confermare questa ipotesi. Il terzo giorno scrissi “Non tutto il mondo è startup”, un divertente e irato articolo dove stigmatizzavo tutta una serie d’imprecisioni abituali nel racconto di quel settore dell’economia.
Il Mastro lo lesse, poi alzando gli occhi dal tablet osservò: “Vedi che avevo ragione a volerti qui?”. Poi prese una chiamata sul cellulare e uscì dalla stanza cercando campo come un rabdomante cercava l’acqua. Rimasto da solo, rilessi per l’ennesima volta il pezzo. Quando l’ebbi finito mi sorpresi a chiedermi se il Mastro avrebbe potuto definirmi “prezioso”.
Un estratto da Odio di Daniele Rielli (Mondadori, 2020).