È impossibile decifrare con postera certezza il punto storico e geografico in cui gli scacchi sono sbocciati nella forma completa del gioco che conosciamo oggi. È stato certamente decisivo l’arrivo in Persia del chaturanga indiano a quattro giocatori, solida ispirazione per l’invenzione del chatrang, in cui due contendenti si sfidano su un territorio suddiviso in sessantaquattro tabelle, una squadra rossa e una verde, ognuna con sedici pezzi a disposizione. Nell’Edda poetica compare in un indovinello il Gioco del Re o hnefatafl, in cui due eserciti di figurine antropomorfe si fronteggiano su un tavoliere a scacchiera. L’invenzione del gioco è spesso attribuita a filosofi incaricati da qualche sovrano del mondo arabo, perfino allo stesso Pitagora. Ipotizziamo che in Europa gli scacchi siano arrivati in una soluzione identica a quella odierna – fatta eccezione per alcune mosse di origine più recente come l’arrocco o il Gambetto di Re – intorno alla fine del Nono secolo, diffondendosi in Italia, Spagna, Svizzera, Germania, guidati da migrazioni e conquiste territoriali da parte del mondo arabo.
Tra i fanatici degli scacchi si contano Arnold Schwartzenegger, Napoleone, Jorge Luis Borges, Woody Allen e Ivan il Terribile. Marcel Duchamp divorziò dopo tre mesi di matrimonio dalla moglie che, stizzita dall’artista che aveva trascorso la luna di miele con la testa affondata su scacchiera e manuali, gli aveva incollato i pezzi alle caselle. Andando indietro di oltre mille anni, troviamo il califfo di Baghdad, Muhammad al-Amin, che nel 813 ignora il messaggero che lo implora di scappare, quando due anni di feroce guerra civile avevano finalmente fatto breccia nei tre circoli di mura attorno al palazzo; voleva finire la partita con l’eunuco preferito, Kauthar. Vinse, e poco dopo venne decapitato.
Gli scacchi sono uno sport machiavellico, di ragionamento sfrenato. Innescano una vivida astrazione e portano il pensiero in luoghi che naturalmente non raggiungerebbe. Possono tradursi in ossessione, e da qui è facile intuire perché la letteratura ne tratti seguendone il filo fino a sfiorare – e in certi casi a raggiungere – la follia. Dipende forse dal fatto che gli scacchi permettono di sondare le più recondite profondità della propria mente e, nel tentativo di anticiparne le mosse, anche quella dell’avversario, in un rincorrersi di conoscenza e aspettative che si accosta facilmente alla psicanalisi – tutta materia umana, e profondamente letteraria.
La difesa di Lužin è, finora, l’unico romanzo di Vladimir Nabokov che io abbia letto a non essere intriso di una forte ossessione sessuale; l’ossessione, in questo specifico caso, vira violenta verso le sessantaquattro caselle e i trentadue pezzi e tutto ciò che due giocatori possono farne. Lužin sembra a malapena consapevole dell’esistenza dell’altro giocatore, la cui presenza sulla pagina e nella sua vita sembra assimilabile alla funzione del gioco, come fosse un’ulteriore pedina, decisamente più grande delle altre trentadue, inelegante ma necessaria per lo svolgimento del gioco. Lužin vive di scacchi, e gli scacchi gli danno da vivere – senza, dopotutto, cosa potrebbe fare? Con le persone è imbranato, nelle faccende quotidiane è distratto, nella testa gli si avvicendano solo dubbi e astrazioni. Quando impazzisce, sembra portare a compimento un destino ovvio, già segnato. Un esaurimento nervoso? Ma certo. Non poteva scavarsi un destino diverso. Era questione di tempo o di pagine.
Gli scacchi permettono di sondare le più recondite profondità della propria mente e, nel tentativo di anticiparne le mosse, anche quella dell’avversario.
Poco tempo e poche pagine sono bastati ad Arrigo Boito, che nel racconto del 1867 L’alfiere nero lega con una scacchiera la sorte tragica di due uomini, in un’indissolubile analogia coi loro pezzi. A scontrarsi sono un americano, Sir Giorgio Anderssen e un ex-schiavo nero che tutti chiamano Oncle Tom. All’inizio della partita, Anderssen decapiterà per sbaglio l’alfiere nero, colore che Tom sceglie per l’ovvia assonanza con la sua pelle. La questione politica e razziale è più che esplicita, grazie anche ai commenti di alcuni astanti sulle recenti sollevazioni degli schiavi a Morant Bay, in Giamaica. Tom è stato portato in Europa da piccolo, e venduto da un commerciante di schiavi a un ricco anziano senza famiglia che gli ha lasciato tutti i suoi averi. A Morant Bay ha ancora un fratello, e si può presto dire che non abbia amici a Ginevra, città in cui il racconto è ambientato e che a malapena compare. La partita si svolge lungo tutta una notte, in una taverna e dentro l’anima di Tom, in un continuo rimando alle rivolte combattute dal fratello e all’alfiere decapitato. Gli scacchi l’hanno trascinato in uno stato di acuto nervosismo, e poi di ipnosi. Gioca d’istinto – o almeno, così pare, perché gli occhi dell’avversario non sono pronti a riconoscergli una competenza di gioco oltre l’istinto – e il suo gioco si contrappone chiaramente a quello di Andersson: “La marcia dell’americano era trionfale e simmetrica, rassomigliava alle prime evoluzioni di una grande armata che entra in una grande battaglia; l’ordine, quel primo elemento della forza, reggeva tutto il giuoco dei bianchi.”
Ma gli scacchi non si accaniscono su Tom per lasciare incolume l’americano; poco a poco anche lui inizia a entrare nel gioco, a scivolare nella meccanica folle di ogni singola mossa. Passano le ore, l’americano perde, e la sua risposta alla sconfitta sarà di piantare una pallottola in fronte a Tom. Il gioco l’ha portato dritto in una parte di sé che non conosceva, che non voleva conoscere né cambiare.
La regina degli scacchi di Walter Tevis – autore ben più famoso per l’opera di fantascienza L’uomo che cadde sulla Terra, da cui è stato tratto l’omonimo film con David Bowie – racconta una storia diversa. La protagonista è Beth, che a otto anni rimane orfana e viene spedita in orfanotrofio. Beth è una bambina tranquilla, intelligente, acuta. Ha evidenti problemi di socializzazione, non cerca mai di interagire spontaneamente. Le si avvicina di tanto in tanto la sua compagna di stanza, Jolene, una ragazzina più grande, ma a parte lei, Beth non ha nulla, finché un giorno non si mette ad osservare, nel seminterrato, il signor Shaibel – il custode – che gioca a scacchi da solo. Gli chiede ripetutamente di insegnarle e lui poco a poco si apre, anche se non certo dal punto di vista umano, accettando di giocare con lei qualche partita e poi regalandole un complicato manuale. Beth ha una memoria fotografica perfetta e smette di aver bisogno di guardare la scacchiera per giocare. Le rimane fissa in testa, coi suoi pezzi fermi qua e là per le varie case, in attesa della sua mossa.
Grazie agli scacchi, Beth raggiunge l’indipendenza, quantomeno economica. Eppure resta una persona a metà, abile nel gioco quanto goffa nelle relazioni sociali. Curioso come un abile giocatore possa prevedere le mosse dell’avversario con un anticipo di diversi turni, e tuttavia non avere idea di come comportarsi con le persone che lo circondano nella vita quotidiana al di fuori dell’ambiente scacchistico; Beth, come tanti personaggi analogamente geniali, vive una duplice esistenza fatta di successo – quasi – incontrastato e incapacità di relazionarsi con gli altri.
Un abile giocatore può prevedere le mosse dell’avversario e tuttavia non avere idea di come comportarsi con le persone che lo circondano nella vita quotidiana.
Il legame tra un’innata propensione al gioco degli scacchi e l’incompetenza sociale, sia determinata da una qualche forma di malattia mentale o meno, è così stretto nel nostro quadro immaginifico da diventare un tratto caratteristico che va a incastrarsi nella descrizione di un carattere timido e schivo. È socialmente incapace Mirko Czentovic, scacchista preso in prestito dalla realtà nella Novella degli scacchi di Stefan Zweig; schivo, brusco e ineducato, ma campione inarrivabile nel gioco. Anche in quest’opera assistiamo a un forte dualismo, a due opposti che si scontrano fino quasi al sacrificio della propria persona. Czentovic non è il protagonista della Novella; protagonista è il signor B., genio degli scacchi che deve la propria incontrastata abilità nel gioco alla feroce prigionia subita in Austria anni prima, raccontata dal narratore che assisterà alle sue straordinarie capacità nel corso di una traversata oceanica. Per pura coincidenza sulla stessa nave si trovano come passeggeri Czentovic, il narratore, un magnate americano disastrosamente orgoglioso, il signor B. e altri personaggi che rivestono un ruolo modesto. Il narratore si ritrova incastrato in una partita a scacchi tra Czentovic e il resto dei passeggeri, trascinato nel centro della bagarre dall’orgoglio ferito dell’americano, che non può accettare la spocchia del geniale Czentovic. Mentre si incamminano verso una cocente sconfitta, dalle retrovie dei passeggeri sale la voce del Signor B, che da quel momento in avanti guiderà una controffensiva incredibilmente efficace, capace di rimettere Czentovic al suo posto. Il signor B racconterà in seguito al narratore di essere rimasto prigioniero in un hotel viennese per mano dei nazisti, che per oltre un anno lo terranno isolato dal mondo intero; se è riuscito a salvaguardare la propria sanità mentale così a lungo è stato grazie a un manuale di scacchi che era riuscito a trafugare dalla tasca di un secondino. Ma la panacea era diventata una malattia; aveva ripercorso mentalmente tutte le partite del manuale per mesi fino a esserne stufo; era diventato così avvezzo alla scacchiera da riuscire a giocare intere partite immaginandosi i pezzi e i loro movimenti da una casella all’altra; aveva poi iniziato a giocare contro se stesso, scindendosi in due personalità distinte e sempre più rabbiose, fino a cadere vittima di un esaurimento nervoso che, per fortuna e per grazia del dottore che l’aveva preso in cura, era culminato nel suo rilascio. L’incontro con Czentovic, suo esatto opposto – meschino, superbo, di scarsa capacità immaginativa – rischia di farlo annegare in una seconda ondata di follia. Nella Novella gli scacchi sono un appiglio rischioso, un crostone di roccia che è bene afferrare per non finire in un crepaccio, ma che è meglio lasciare andare appena possibile, per non rischiare di trascinarselo dietro in una caduta disastrosa.
Tornando alla letteratura italiana, si lega agli scacchi Le città invisibili di Italo Calvino (1972), in cui Marco Polo racconta all’imperatore tartaro Kublai Kan le città che ha incontrato durante le sue peregrinazioni, quelle che potrebbero essere e non essere, quelle che saranno e non sono mai state. In uno degli intermezzi che si frappongono tra una città e l’altra – nello specifico tra Le città continue e Le città e il nome – l’imperatore accoglie Marco Polo di fronte a una scacchiera:
Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a spiegargli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. […] Ormai Kublai Kan non aveva più bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell’impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s’aprono alle incursioni dell’alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell’umile pedone, dalle alternative inesorabili di ogni partita.
Se nel racconto di Arrigo Boito gli scacchi diventano un portale per scrutarsi nell’anima, una lente verso l’interno, per Calvino svolgono esattamente la funzione contraria, opposta; diventano un cannocchiale per osservare il mondo esterno, fuori dalla portata dei propri occhi, e per capirne i movimenti lontani e intestini. Le città invisibili trovano spazio sulla scacchiera, nella disposizione ricreata dal viaggiatore inesausto per l’imperatore esausto.
Nel 1993 Paolo Maurensig pubblica con Adelphi La variante di Luneburg, un romanzo in cui si incrociano diverse cornici narrative. Inizia con un decesso inspiegabile e torna subito indietro a ripercorrere l’ultima giornata del defunto, uomo d’affari e direttore di un’importante rivista di scacchi. La narrazione avviene su un treno, nello scompartimento che ogni venerdì vede lo scontro del defunto con un collega, e poi passa al racconto di un inaspettato spettatore, che a sua volta inizierà a raccontare la sua storia, e poi la storia di un’altra persona dentro la sua. Il motore del racconto sta nella feroce contrapposizione tra due avversari, nella vendetta dell’uno che intende consumare l’altro, una freccia che ripercorre a ritroso i cerchi concentrici della narrazione. Lo scenario è quello dell’Europa ai tempi dell’Olocausto – poco prima e poco dopo, quando l’orrore doveva ancora assumere le inimmaginabili proporzioni che conosciamo e quando poi l’orrore si è sgonfiato fino a una dimensione che con qualche sforzo si può nascondere sotto il tappeto della Storia – e gli attori sono due acerrimi rivali. Come nella Novella di Zweig e nell’Alfiere Nero di Boito, anche qui assistiamo a un profondo dualismo, a una contrapposizione fisica e caratteriale. Ebreo contro nazista, timidezza contro tracotanza, genio contro tecnica. Contrariamente a quanto accade in La difesa di Lužin e in La regina degli scacchi, in cui i protagonisti percorrono con evidenti difficoltà una carriera scacchistica accompagnata a una vita sociale vissuta faticosamente, nel romanzo di Maurensig e nel racconto di Boito i giocatori paiono vivere per ritrovare e sconfiggere, con abbondanza di allegorie storiche, sociali e filosofiche, un avversario designato dal destino.
Per Calvino svolgono esattamente la funzione contraria, opposta; diventano un cannocchiale per osservare il mondo esterno, fuori dalla portata dei propri occhi, e per capirne i movimenti lontani e intestini.
Fabio Stassi, come Stefan Zweig nella già citata Novella, ne La rivincita di Capablanca s’ispira alla vicenda di uno scacchista cubano realmente esistito, José Raùl Capablanca, campione del mondo dal 1921 al 1927, autore di diversi manuali di gioco e di un’autobiografia. Stassi specifica nel prologo di essersi preso parecchie libertà sulla vita di Capablanca e sulla rivalità romanzata con Aleksandr Aleksandrovič Alechin, che nel ’27 gli strappa il titolo per mantenerlo fino al 1935. Alechin rifiuterà a lungo la rivincita a Capablanca, che rimane ossessionato – nel romanzo – dalla sconfitta bruciante, abilmente orchestrata fin dal loro primo incontro; fino al momento in cui scontrano le reciproche forze su scacchiera, Alechin gli si dimostrerà amico, lo spingerà a confidenze e gliene farà lui stesso, con una sincerità che Capablanca si chiederà per sempre se potesse dirsi genuina. L’ossessione per gli scacchi, in questo romanzo, è tutto; gli scacchi costituiscono la dimensione parallela abitata dai campioni, che sembrano soltanto vivere in mezzo a noialtri che non sappiamo pensare a caselle e pedoni. Quello di Capablanca è un destino ineluttabile: a cinque anni ha osservato il padre giocare, e il richiamo del gioco è stato così potente da essere assimilabile alla chiamata divina – vale dopotutto lo stesso per Lužin e per Beth. A nulla servono gli ostacoli messi sulla sua strada dai genitori – la madre di Capablanca gli fa sparire le pedine, gli manomette il gioco. Lui si ostina, gioca e dimentica di mangiare, passerebbe ogni ora di veglia a muovere alfieri e regine, con un’abnegazione così totale che anche la madre, alla fine, si arrende. Capablanca sembra ricercare negli altri giocatori non degli avversari, ma i suoi pari, i suoi simili. Li cerca come un orfano cercherebbe la sua vera famiglia. Con Lasker, che gli ha sottratto il titolo, stringe un legame di affetto commovente.
Con l’eccezione del racconto di Italo Calvino, che dà degli scacchi un’immagine esplorativa, e che dopotutto non mostra una partita ma una lezione, i personaggi delle storie citate vivono in funzione del loro mestiere e sembrano vedere il mondo attraverso il filtro di una scacchiera. Nel caso del Lužin di Nabokov e della Beth di Walter Tevis, abbiamo di fronte personaggi fortemente alienati dal mondo, vivi e capaci quasi esclusivamente quando si tratta di giocare. Negli altri casi è presente un forte dualismo, una contrapposizione appassionata tra scacchisti che si considerano l’uno la nemesi dell’altro. La presenza di un acerrimo rivale è quasi obbligata, quando si tratta di raccontare una disciplina sportiva. Nel caso degli scacchi è curioso notare come a questo violento dualismo si accompagni un’evidente vena politica. Nel racconto di Boito uno schiavista si scontra contro un ex-schiavo; nella Novella di Zweig, il giocatore misterioso è stato a lungo prigioniero dai nazisti. Nei romanzi di Paolo Maurensig e di Fabio Stassi, la rivalità dualistica dei personaggi assume proporzioni globali, diventa un altro tavolo di scontro tra nazisti e anti-nazisti – e sono i primi a dare inizio a un’ostilità che va oltre gli scacchi, mossi da un odio incontenibile.
Gli scacchi si rivelano in questi casi un filtro profondo, una lente interpretativa che riesce a calare il personaggio nella sua vera natura, al prezzo di lasciarla conoscere all’avversario. Verrebbe da chiedersi “perché gli scacchi, perché non un altro sport?”. La risposta, temo, resta ignota anche ai grandi scacchisti.