Q uando, nel 1969, Ugo Leonzio pubblica il suo Volo magico, il divieto tombale di utilizzare per qualsiasi scopo l’LSD e le altre sostanze psichedeliche, che verrà emanato in tutto il mondo nel 1971 su indicazione dell’OMS, incombe. Pochi anni prima, nel 1966, a imporlo ci hanno già pensato gli Stati Uniti, sconvolti dalla bizzarria di Timothy Leary, seguiti a breve da molti altri paesi. E forse per questo l’allora ventinovenne Leonzio – che presagisce quanto sta per accadere, e che di sé esibisce soltanto la sua passione per Tommaso Landolfi, ma che in realtà ha già accumulato una sbalorditiva conoscenza della materia da quasi tutte le prospettive possibili – vuole mettere nero su bianco la sua testimonianza o, per meglio dire, la sintesi di tutto ciò che, in quel momento, si sa e si è capito di sostanze che, come ipotizza nella prima riga dell’introduzione, probabilmente accompagnano l’umanità fin dal Pleistocene. Lo fa forse per togliere argomenti a chi – e sono tantissimi – liquida la questione delle droghe con un’unica, piatta lettura, quella dell’allarme sociale, e al tempo stesso, per custodire quanto si è fatto nei decenni precedenti, proteggendolo dagli assalti dell’incombente oscurantismo come in un ideale Svalbard Global Seed Vault delle sostanze psicotrope, e farlo giungere intatto fino a noi.
Dopo pochi anni, quasi a seguire il destino della sua passione, e a confermare la fondatezza delle sue intuizioni più cupe, questo testo fondamentale si perde, per poi ricomparire parzialmente aggiornato solo nel 1997 per iniziativa di Einaudi, che lo ripubblica senza un’eco particolare. Il Volo si perde una seconda volta, perché la fatwa che incombe già da decenni su tutte le droghe estende il suo potere esiziale anche sui testi che ne parlano, con la sola eccezione di poche periferie dell’editoria, cui continuano a attingere i devoti. E perché nulla in fondo è cambiato da quello stesso anno, il 1970 –1971, per il quale un entusiasta Leary aveva ipotizzato che la somministrazione di LSD avrebbe raggiunto non meno di 30 milioni di americani, e che invece ha segnato una cesura drammatica che solo ora inizia a rimarginarsi, e che questa nuova edizione contribuisce a sanare.
Leonzio scrive Il volo magico per togliere argomenti a chi liquida la questione delle droghe con un’unica, piatta lettura, quella dell’allarme sociale, e per proteggere dagli assalti dell’incombente oscurantismo quello che si sapeva delle droghe.
Oggi infatti, mezzo secolo dopo, si usano la cannabis e la ketamina a scopo terapeutico, si inizia a depenalizzare la psilocibina (principio attivo dei funghi) e si moltiplicano studi e ipotesi su numerose “droghe”: per questo si parla in tutto il mondo di “Rinascimento psichedelico”. E anche se i divieti sono perlopiù ancora lì a complicare la vita a chi cerca di capire meglio o utilizzare queste sostanze a scopo terapeutico e non solo, qualcosa è cambiato, anzi molto, e il lungo letargo anche culturale durato mezzo secolo inizia a mostrare evidenti segni di cedimento.
Proprio per questi motivi è estremamente interessante ascoltare di nuovo la voce di questo straordinario testimone, che in molti punti risuona come quella di un protagonista contemporaneo, e che in altri è anacronistica e, in quanto tale, utile per capire quanto, in realtà, i ricercatori siano andati avanti e quindi quanto, in definitiva, sia vacuo, destinato a fallire, quando non francamente ridicolo lo sforzo di incanalare la ricerca scientifica verso porti ritenuti sicuri (in genere da chi la ricerca non la fa) con ogni mezzo, a cominciare dai divieti.
Quella voce si sente forte e chiara già nell’appassionata introduzione nella quale c’è, in premessa, l’idea fondamentale che percorre tutto il libro: la ricerca del divino, del contatto con l’universo, con qualcosa di più grande rispetto alla mera fisicità, accompagna l’uomo fino dalla sua comparsa sulla terra. E in qualche momento – antichissimo – lui stesso ha capito, per caso, che la natura offriva molte piante in grado di aiutarlo in quella ricerca.
Ciò spiega perché le più diverse civiltà e culture, a tutte le latitudini, si siano confrontate con questo tipo di esperienza, raggiunta con sostanze e pratiche di vario tipo, ma sempre così tanto estranea rispetto a quella della vita quotidiana da risultare impossibile da raccontare e, di conseguenza, da tramandare per vie che non fossero orali, peraltro quasi sempre affidate alle classi sacerdotali. Di qui la necessità di riordinare quanto si inizia a capire, pur nell’esiguità delle fonti disponibili.
Nel presentare il suo lavoro, Leonzio spiega poi quanto, fino a quel momento, le interpretazioni di un aspetto così cruciale dell’esistenza siano state banali, anche da parte di alcuni intellettuali, e abbiano sempre cercato di relegare l’alterazione di coscienza alla sola sfera patologica, mentre si tratta di “fioriture della realtà” (secondo Humphry Osmond), di “esperienze mistiche” (secondo W.T. Stace), che “portano al nucleo stesso dell’esperienza umana” (secondo van Dusen).
Per non fare lo stesso errore, e motivare quanto sta per raccontare, Leonzio chiama in aiuto la scienza. Da tempo, infatti, ricercatori di numerose e differenti discipline quali botanici, neurologi, psichiatri e antropologi stavano cercando di capire meglio l’utilizzo delle droghe nelle culture tradizionali e i possibili impieghi nelle loro, e da tempo la nascente farmacologia psichiatrica occidentale (i primi antidepressivi sono stati approvati nel 1952) le stava scandagliando per gli stessi motivi, recuperando anche impieghi terapeutici del passato, per esempio medievale. Lui lo sa, e con uno sforzo non dissimile da quello degli attuali protagonisti del Rinascimento, fa il punto sullo stato dell’arte dal punto di vista scientifico con un approccio che, nella totale ignoranza dei meccanismi neurologici sottostanti (chiariti solo molti anni dopo, e solo in parte), e in un’epoca ancora intrisa di ortodossia psicanalitica, oggi risulta al tempo stesso totalmente sbagliato, nei meccanismi ipotizzati, clamorosamente giusto, nelle sue linee fondamentali, e in qualche modo profetico. Infatti, avendo ben presenti i significati profondi dei riti e le testimonianze che arrivano dalle culture tradizionali, e le considerazioni di altri testimoni di prima grandezza quali Aldous Huxley e lo stesso Leary, correttamente capisce che il fulcro di tutte queste esperienze è la morte, l’annientamento di un’esistenza percepita come troppo limitata, cui segue la rinascita a una vita nuova e più larga, con passaggi che riportano la mente al suo stato iniziale, al momento della nascita o anche prima e, per traslazione, all’inizio di tutto, universo compreso.
L’approccio di Leonzio oggi risulta al tempo stesso totalmente sbagliato, nei meccanismi ipotizzati, clamorosamente giusto, nelle sue linee fondamentali, e in qualche modo profetico.
Leonzio, con notevole lungimiranza per le conoscenze dell’epoca, accredita poi le prime ipotesi sul coinvolgimento della serotonina nel funzionamento degli psichedelici (che solo negli ultimissimi anni saranno confermate), ricorda l’influenza di variabili personali nell’effetto delle sostanze e, ancora, cita i primi, incoraggianti risultati ottenuti con gli stessi psichedelici nella terapia delle dipendenze, prima su tutte l’alcolismo, e le spiegazioni generali (errate) che si cercano in quel momento, sempre incentrate su una iperstimolazione (oggi si sa che con l’LSD accade l’esatto contrario, ovvero una inibizione di alcuni centri di comando del sistema nervoso).
Con queste premesse, accompagna il lettore nel primo viaggio, in India, luogo in cui tutto è nato, con il misterioso soma dei miti vedici. Forse principio attivo del gambo di una pianta di montagna non ancora identificata con certezza e cardine di culti antichissimi, descritti qui nel dettaglio per la gioia di chi non legge il sanscrito, questo miele – così veniva anche chiamato – riesce a far sì che “l’anima si unisca a dio, divenendo occhio nel ’occhio”, e grazie a ciò “l’uomo sarà per sempre ‘diverso’, avendo ucciso il proprio Drago”.
Eccola la risposta a chi relega le droghe alla sola sfera che lui definisce di morte (senza rinascita), quella che restituisce a chi vi si voglia avvicinare con mente aperta la loro vera essenza, quella della ricerca della luce.
Con uno schema che ricorre in tutti i capitoli, Leonzio descrive poi gli studi fatti in passato e ancora in corso per identificare le piante coinvolte, quindi traccia paralleli, qui con l’haoma di cui parla Zarathustra, e con le ambrosie dello yoga medievale, del buddhismo tantrico e dell’alchimia indiana, assunte per dare all’iniziato o a tutti, a seconda dei casi, una nuova e più completa esistenza.
Da questa ineludibile origine passa a una pianta più che conosciuta e utilizzata oggi, ma anch’essa originaria della stessa area dell’Himalaya: la Cannabis indica. In numerosi paesi la cannabis, nelle sue diverse forme, è legalizzata per uso personale, e in molti il suo principale principio attivo, il tetraidrocannabinolo o thc, è sfruttato a fini terapeutici per la sua capacità di ridurre la nausea, gli spasmi muscolari e il dolore. Ma all’epoca di Leonzio era solo una delle droghe più note e più diffuse, ed era considerata un allucinogeno analogo agli psichedelici, con un pedigree letterario di tutto rispetto, da Rabelais a Baudelaire (che lo identificava con il Pantagruelion) fino a Michaux, per citare solo quelli di cui il testo riporta ampi stralci.
Leonzio descrive gli studi fatti in passato e all’epoca ancora in corso, traccia paralleli con l’haoma di cui parla Zarathustra, e con le ambrosie dello yoga medievale, del buddhismo tantrico e dell’alchimia indiana.
Oggi si sa che l’effetto di distorsione sensoriale, che si ottiene solo con alcune preparazioni a elevata concentrazione di principi attivi e solo quando non c’è tolleranza, è molto diverso da quello dell’LSD, sia nella forma – si risolve in un atteggiamento passivo caratterizzato da riso immotivato e privo di vere e proprie visioni – sia, soprattutto, nella sostanza, perché la cannabis non ha un esito trasformativo, anche se può amplificare un atteggiamento mistico ed è sempre stata considerata uno strumento per favorire l’ascensione spirituale.
La spiegazione neurologica è evidente con le conoscenze attuali: la cannabis agisce su proteine situate sulla superficie esterna delle cellule nervose (recettori) diverse da quelle con cui vanno a interagire LSD e altre sostanze psichedeliche, e ha quindi conseguenze fisiologiche su neurotrasmettitori e meccanismi cerebrali differenti. All’epoca, però, nulla di tutto ciò era noto, e la cannabis era conosciuta per essere anch’essa utilizzata da centinaia se non migliaia di anni sia come farmaco sia come strumento di comunicazione con la divinità da diverse popolazioni, la più famosa delle quali era quella degli Assassini, così chiamati proprio perché consumatori di haschisch.
Oltre alla lunga storia, affascinante, della cannabis nei secoli, ciò che colpisce, nelle pagine di Leonzio, è la comparsa precoce dei divieti, a riprova del fatto che l’alterazione di coscienza, comunque raggiunta, è sempre stata percepita come minaccia sociale. Qui, oltre a un bando del 1378 dell’emiro Sudun Sceikuni di Djoneima, che prevedeva l’asportazione di tutti i denti per chi avesse ingerito haschisch, è nientemeno che Napoleone a imporre il primo stop moderno, durante la campagna d’Egitto, perché chi ne fa uso “perde la ragione ed è colto da delirio violento”. Pena: tre mesi di prigione e chiusura tramite muratura del locale che venda bevande o altro, oltre a confisca e rogo di tutto ciò che viene sequestrato, anche alle dogane.
Non molto è cambiato da allora.
Anche per la cannabis, poi, Leonzio descrive ciò che si sa sugli effetti più bizzarri quali la sinestesia, cioè la capacità di percepire con un senso ciò che andrebbe interpretato con un altro (per esempio, vedere i colori delle parole), all’epoca non ancora studiata e classificata come manifestazione patologica, ma ben nota agli utilizzatori di questa come di altre sostanze, e quanto si sa sulle possibili intossicazioni. Le quali, ovviamente, sono le grandi protagoniste del capitolo successivo, quello sull’oppio e i suoi derivati. Come ricorda Leonzio, già l’uomo di Cro-Magnon conosceva le doti analgesiche dei papaveri, e da quel momento non ha mai smesso di sperimentarne le diverse varietà e di utilizzarlo in varie forme in ogni parte del mondo, con testimoni quali Paracelso, Avicenna, Marco Aurelio e tanti altri (le cui vicende, spesso poco note ai più, sono qui raccontate con molti particolari curiosi), fino alla vera esplosione, avvenuta, guarda caso, come conseguenza del divieto del fumo di tabacco emanato in Cina da uno degli ultimi imperatori Ming, nel 1628. In Occidente, nella stessa epoca, è l’Inquisizione a proibirne l’uso, anche in chirurgia e medicina.
Pure in questo caso con scarsa efficacia, visto che l’oppio continua a essere assunto e, anzi, diventa lo strumento di sottomissione di un’intera nazione, la Cina, con la famigerata legge che ne liberalizza la coltivazione, del 1842, causa dell’omonima guerra. L’Europa, intanto, si lascia sedurre dalla sostanza a partire dalla data ideale del 1821, anno di pubblicazione del e Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincey, tradotte in francese da Baudelaire, e poi fino al suo grande cantore, Jean Cocteau. Con l’oppio, però, nessuno si illude di trovare l’eterno: l’oppio – scrive infatti quest’ultimo – “somiglia alla religione come un illusionista a Gesù”, e ciò che si cerca in esso è solo una momentanea sospensione del dolore.
Dopo l’oppio, già a partire dal 1803, arriva la morfina e, subito dopo, la sua somministrazione per via iniettiva grazie alla siringa Pravaz, che diventa oggetto di moda, dando una spinta formidabile alla sua diffusione. Nella storia della morfina, poi dell’eroina e in seguito anche della cocaina, avviene qualcosa che si è riproposto ai giorni nostri: sostanze studiate per diventare analgesici o anestetici e sostituirne altre considerate pericolose sfuggono di mano e, a causa anche della facilità con cui vengono somministrate a fini medici su larga scala prima che se ne conoscano tutte le caratteristiche – sopra tutte la possibilità che inducano dipendenza –, diventano sostanze d’abuso, e causano milioni di morti tra gli ancor più numerosi dipendenti. È accaduto con i derivati dell’oppio morfina ed eroina, sintetizzati per supplire agli evidenti difetti del lattice del papavero, ed è accaduto negli ultimi anni con il fentanyl, giunto per lo stesso scopo sul mercato a partire dagli anni novanta, e oggi vero e proprio flagello mondiale.
Già l’uomo di Cro-Magnon conosceva le doti analgesiche dei papaveri, e da quel momento non ha mai smesso di sperimentarne le diverse varietà e di utilizzarlo in varie forme in ogni parte del mondo, con testimoni quali Paracelso, Avicenna, Marco Aurelio e tanti altri.
Il fentanyl, sintetizzato nel 1960 come antidolorifico per i malati terminali di cancro senza i rischi della morfina, è infatti da 5 a 100 volte più potente di quest’ultima, ed è letale, perché ne bastano 2 milligrammi per causare la morte, al punto che le forze dell’ordine, durante i sequestri, si vestono come farebbero per difendersi da un agente biologico mortale. Ma nel tempo è diventato sia sostanza d’abuso venduta illegalmente, sia terapia prescritta con troppa leggerezza, soprattutto in alcuni paesi. Risultato: dal 2014 a oggi si stima che nei soli Stati Uniti abbia causato non meno di 200 000 vittime, tra le quali attori e cantanti, e che i decessi siano circa 20 000 ogni anno (sui 70, 80 000 attribuiti agli oppiacei di vario tipo), una vera e propria strage dai costi sociali giganteschi, al punto che il Congresso ha dovuto dichiarare lo stato di crisi, ammettere che è in corso una catastrofica epidemia di dipendenza e iniziare a occuparsene.
Leonzio fa spiegare a William Burroughs quello che era successo con la morfina e con l’eroina, sintetizzata nel 1898 e cinque volte più potente della morfina, ma negli anni sessanta non ancora dilagante come sarà negli anni successivi: “Ho preso la morfina per dei dolori acuti. Qualunque oppiaceo che sollevi efficacemente dal dolore, solleva con eguale efficacia dai sintomi di astinenza. La conclusione è ovvia: qualunque oppiaceo che tolga il dolore produce l’abitudine; e quanto più efficacemente toglie il dolore produce l’abitudine”.
Un copione analogo è quello che riguarda la cocaina, oggetto del capitolo seguente che, pur arrivando dal Sudamerica e quindi da popoli e tradizioni molto diverse da quelle asiatiche, presenta alcune caratteristiche comuni sia dal punto di vista etnoantropologico e botanico sia da quello tossicologico. Protagonista di riti antichissimi, descritti con stupore dai conquistatori spagnoli (spesso solo per sentito dire), qui raccontati ancora una volta in un dettaglio che affascina e stupisce, e utilizzata per rendere più sopportabile una vita durissima, e neppure in questo caso come strumento di trasformazione esistenziale, la cocaina è giunta in Occidente nella seconda metà dell’Ottocento, sia come farmaco sia come sostitutivo della morfina.
Pochissimo tempo dopo diversi medici suoi sostenitori (tra i quali l’italiano Paolo Mantegazza, autore della prima monografia, del 1859) iniziano a segnalarne la grande pericolosità, invitando a un uso molto più moderato di quello ipotizzato inizialmente. Consigli inascoltati da Freud (il suo Sul a coca è del 1884) e da altri, come dimostra anche l’errore sempre di Burroughs, che la giudica non capace di indurre dipendenza. Anche Leonzio non può sapere che cosa diventerà la cocaina, per tutto il mondo, pochi decenni dopo, ed è molto interessante capire che cosa se ne pensava nel 1969, quando non si ipotizzava il disastro attuale.
Il capitolo successivo accompagna poi il lettore in una sorprendente ricognizione tra pozioni, polveri, miscele, estratti perlopiù misteriosi, i principi attivi dei quali sono stati identificati solo in parte, che hanno accomunato streghe, sciamani e sacerdoti delle più diverse culture ed epoche: dalla mandragora al katt, dal mercurio alla canfora, dal protossido d’azoto al betel, dalla benzina alle bevande fermentate, dall’arsenico all’etere etilico, dal Nord Europa all’Africa, senza dimenticare di nuovo il Sudamerica e l’Asia, e sempre nel tentativo di raggiungere stati alterati di coscienza, a volte per comunicare con il divino, a volte per sopportare meglio un’esistenza ai limiti. Ma mai per trasformare se stessi.
Si capisce quindi in che cosa gli allucinogeni, cui è dedicato il terzo finale del libro, siano diversi, e paragonabili solo al misterioso soma, e perché Leonzio voglia raccontare le loro specificità, prima che sia tardi: soltanto attraverso l’accesso a un livello di coscienza profondamente diverso da quello normale si vive un’esperienza dopo la quale nulla è più come prima, nel rapporto con se stessi e con il mondo.
Tutta questa parte del libro è ricchissima di racconti (e vere e proprie chicche) sulla storia dei diversi riti che hanno posto al centro un allucinogeno, sia esso il peyote, il fungo psilocybe o l’amanita, le piante come la salvia e l’ipomea, o le misture come l’ayahuasca, fino all’LSD. Parte delle informazioni sono tratte dall’opera di Gordon Wasson, banchiere e micofilo che, insieme alla moglie russa Valentina, dedicò tutta la sua vita agli studi etnobotanici, in particolare sui funghi in tutto il mondo, dalla Siberia al Messico, e che fu anche il primo occidentale ammesso a partecipare a un rito con i funghi psilocybe da una curandera messicana, dimostrando così che, a differenza di quanto si era sostenuto tra il 1850 e il 1936 (quando l’antropologo Robert J. Weitlaner spedì a Harvard i funghi sacri ritrovati a Huautla de Jiménez, in Messico), quella dei funghi non era affatto una leggenda, ma una realtà che si tramandava da centinaia di anni. Ma molto arriva da altre fonti, che fanno risalire a metà dell’Ottocento i primi studi sistematici moderni, con numerosi particolari curiosi e inediti, e citazioni di testi di certo oggi introvabili, che finalmente restituiscono il resoconto corretto di quello che è stato un intero secolo caratterizzato da un autentico e trasversale entusiasmo per tutta la materia di cui si era persa memoria, grazie allo stigma post 1971. Da allora e per decenni è stata infatti alimentata una narrazione parziale e distorta secondo la quale gli psichedelici sono stati solo una circoscritta e mortale manifestazione di un’epoca, il Sessantotto, naïf quanto quegli anni e ormai sconfitta dalla storia.
Riportando poi l’attenzione sulle possibili azioni terapeutiche, Leonzio cita fedelmente le più avanzate idee dei protagonisti assoluti dell’epoca, da Humphry Osmond a Timothy Leary, da Albert Hoffman ad Aldous Huxley, che stavano conducendo i primi, fondamentali studi sugli effetti curativi di queste sostanze. Sono pagine particolarmente interessanti, perché contemporanee a ciò che si racconta e, di conseguenza, appunto, scevre da quelle incrostazioni che interverranno negli anni successivi, anche a causa della perdita di controllo nell’approccio allo studio da parte di Timothy Leary e di altri che, come lui, non riusciranno a ritrovare una via di ricerca credibile dopo il divieto (ma molti ce la faranno, e alcuni sono ancora nei loro studi e laboratori, ad animare la fase attuale).
In quel momento non c’era quasi alcuna ipotesi plausibile sul possibile meccanismo d’azione, ma Leonzio, pur riferendo informazioni che in seguito si riveleranno del tutto sbagliate e confuse, pensa che il fulcro di tutto vada ricercato nei diversi livelli di coscienza, grazie ai quali ogni mente può essere riportata a uno stato primitivo, per essere poi ricostruita su basi nuove.
Oggi si sa che gli psichedelici sono molto diversi dalle altre cosiddette droghe. Ecco perché chiunque voglia capire meglio che cosa sia e da dove arrivi il “Rinascimento psichedelico” non può prescindere da questo libro.
Oggi le proprietà terapeutiche di LSD e psilocibina sono state dimostrate da diversi gruppi di ricercatori sperimentali e clinici in paesi quali gli Stati Uniti, l’Olanda, la Svizzera, la Gran Bretagna e l’Australia e in patologie quali lo stress post traumatico (per esempio dei reduci di guerra, o di donne vittime di stupro), le dipendenze da tabacco e alcol, la cefalea a grappolo (detta da suicidio), la depressione intrattabile dei malati terminali e diversi altri tipi di depressione, e si stanno indagando i possibili effetti su numerose altre malattie quali i disturbi del comportamento alimentare, l’Alzheimer e perfino l’obesità. Un derivato della ketamina, che Leonzio non poteva immaginare avrebbe invaso il mercato mondiale come allucinogeno d’abuso, e di cui non parla, ma che è un anestetico che ogni ospedale deve avere come farmaco d’emergenza, è stato approvato da pochi mesi negli Stati Uniti e in Europa come terapia per la depressione con tendenze suicidarie. L’MDMA, principio attivo dell’ecstasy, è prossimo all’approvazione, da parte dell’fda, per la terapia dello stress post traumatico. Diversi stati tra i quali l’Olanda e il Colorado hanno depenalizzato l’uso di psilocibina. Inoltre, per molte di queste sostanze si è finalmente giunti a capire il meccanismo d’azione a livello centrale, che si può schematicamente riassumere nel blocco di specifici filtri di norma sempre attivi, che impediscono che il cervello sia bombardato da un eccesso di stimoli, ma che inducono anche la trasmissione nervosa a creare circuiti ripetitivi. Il blocco temporaneo dei filtri permette al cervello di ricevere nuovi e diversi segnali, e di tracciare così percorsi inediti, con ripercussioni estremamente positive in molte patologie nervose, così come, se ottenuto nelle corrette condizioni, di modificare il proprio rapporto con il mondo.
Oggi si sa che gli psichedelici sono molto diversi dalle altre cosiddette droghe, categoria cui non appartengono del tutto perché non danno dipendenza, e agiscono grosso modo come il soma. Ecco perché chiunque voglia capire meglio che cosa sia e da dove arrivi il “Rinascimento psichedelico” non può prescindere da questo libro.
Dalla prefazione della nuova edizione di Il volo magico. Storia generale delle droghe, di Ugo Leonzio (il Saggiatore, 2020).