I n Les affects de la politique, Frédéric Lordon dimostra come, dai titoli di giornale sensazionalistici agli esercizi di team-building, la comunicazione odierna si basi sostanzialmente (ed esclusivamente) su sentimenti ed emozioni. Ovunque. Così in tv, sui giornali, sui social, nelle narrazioni, fino alle chiacchierate al lume di Campari al baretto al tramonto. Sentimenti ed emozioni che vanno di pari passo con l’esemplarità di storie singolari che, nella loro aura di unicità, muovono nel profondo i desideri reconditi degli ascoltatori/lettori/partecipanti. Solo che, a ben vedere, unicità significa irripetibilità, dunque estraneità alla normalità, e produce, sotto la scorza dei sentimenti immediati, una certezza: vivere in modo diverso è possibile, sì, ma così difficile che è meglio non provarci.
Le esperienze eccezionali tuttavia esistono, anzi si moltiplicano (nel bene e nel male). Un caso singolare di questa estraneità alla normalità è sempre stato quello degli intellettuali, e in Francia se ne fa un gran parlare da una decina d’anni, perché proprio queste “eccezioni” hanno iniziato a interrogarsi sulla loro condizione e a porsi la questione: “come sono diventata una scrittrice affermata, nata in un contesto di aperto rifiuto della cultura?”, come sembra fare Annie Ernaux, o “come sono riuscito a diventare un intellettuale di rilievo nel campo della riflessione omosessuale, figlio di operai semi-analfabeti e permeati dall’omofobia?” si domanda nelle sue opere Didier Eribon. Insomma, “come è successo?”.
Il termine transclasse descrive il transito tra due classi.
Di questo si è occupata Chantal Jaquet, filosofa spinozista e docente alla Sorbona, nel suo Les transclasses. Ou de la non-reproduction. Qui, introducendo il tema, ritorna sulla teoria della riproduzione sociale, teorizzata negli anni Sessanta da Bourdieu e Passeron. Ogni individuo nasce in un ambiente familiare, di quartiere, di classe, e fin da subito eredita tre «capitali»: economico, sociale e culturale. È emblematico, infatti, il titolo di quest’importante ricerca, Les héritiers, gli «eredi» appunto. Se il primo dei tre è di diretta comprensione, gli altri due costituiscono per l’epoca una forte novità. L’individuo non acquisisce solo l’eredità economica, ma anche tutto un insieme di attitudini e modi di fare che si è soliti indicare come habitus. Ad esempio: una certa propensione allo studio o al lavoro, o ancora la fluidità o fissità dei ruoli di genere. Questa eredità, nel corso della formazione, determina ciascuno rispetto alle proprie scelte di vita e al proprio orizzonte di senso, costituendo insieme una scala valoriale e sogni, desideri, aspettative.
Se questo sembra annullare qualsiasi spazio di autonomia e libertà degli individui, non ci si sbaglia. La teoria della riproduzione è detta anche teoria del determinismo sociale. La questione consiste appunto nel comprendere come si dia una rottura, una frattura, nella continuità dei modelli sociali o se, in fin dei conti, anche l’eccezione costituisca una prova per la regola stessa. Ad esempio, Didier Eribon, antropologo e filosofo francese, si definisce un “transfugo di classe”. Parlando della “fuga” dal suo ambiente, scrive in Ritorno a Reims (tr. it. di A. Romani): Due percorsi, dunque, intrecciati l’uno nell’altro. Due traiettorie interdipendenti di reinvenzione di me stesso: una rispetto all’ordine sessuale e l’altra rispetto all’ordine sociale. Eppure, quando si è trattato di scrivere, ho deciso di analizzare la prima, quella inerente all’oppressione sessuale e non la seconda, relativa all’oppressione sociale. E forse attraverso il gesto della scrittura teorica ho raddoppiato il tradimento esistenziale.
Transfugo, tradimento — il registro è quello di una scelta negativa, di cui quasi vergognarsi — e vergogna è appunto l’altro termine ricorrente in Annie Ernaux. Jaquet, invece, sostiene che la scelta lessicale debba essere neutra, non indicare cioè un giudizio, e opta così per il termine transclasse, il cui prefisso è da leggersi “come sinonimo della parola latina trans, che significa ‘dall’altro lato’, e descrive il transito tra due classi”. Infatti, a partire da questa opzione etica, la filosofa traccia una lunga fenomenologia delle transclassi. Da Julien Sorel di Stendhal a Ragazzo negro di Richard Wright, da Brothers and keepers di Wideman a Martin Eden di Jack London, passando per le Confessioni di Rousseau.
Da questa fenomenologia emerge un tratto comune. Si abbandona il modello di riferimento solo a partire da una visione negativa di quest’ultimo (stimolata dalla vergogna sociale ed economica, da un odio personale, o ancora da un’ambizione) e si parte alla ricerca di altri modelli. Dalla vergogna sociale e culturale si passa, in tutti questi esempi letterari, all’adesione alle eccezioni, che si presentano di volta in volta come “casi” fortuiti o come presenze avvertite come “estranee”. Un compagno di classe borghese di cui Eribon era innamorato, la professoressa di Ernaux, Madame de Warens per Rousseau. O ancora l’ambizione di Julien Sorel di essere un nuovo Napoleone.
Si comprende, dunque, come la non-riproduzione non sia una fuga da qualunque modello, ma dal modello dominante. Jaquet lo spiega attraverso il mimetismo affettivo di Spinoza, che ne parla nell’ Etica (III, 32, scolio) a proposito dei bambini: sappiamo per esperienza che i bambini, poiché il loro corpo è come in continuo equilibrio, ridono o piangono per il fatto solo che vedono gli altri ridere o piangere; (…) le immagini delle cose sono le stesse affezioni del corpo umano, ossia i modi con i quali il corpo umano è affetto dalle cause esterne e disposto a fare questo o quello.
Il passaggio, il transito da un ambiente ad un altro, da una classe ad un’altra, allora, è anch’esso il frutto di un determinismo sociale. Possiamo dire più esattamente di un determinismo minoritario.
Ora, è più evidente, e Jaquet lo sottolinea a sua volta, che le varie radici di questo salto non siano da sole sufficienti affinché lo si compia. Anzi, isolatamente, vergogna, odio, ambizione, potrebbero benissimo essere i motivi per i quali ciascuno rimane all’interno del proprio perimetro, vivendo la propria condizione come una sorta di destino: mi vergogno della mia classe, dunque non mi confronto con altri modelli; odio la mia condizione, dunque non la mostro agli altri; sono ambizioso, ma la mia ambizione “non fa per me” o “appartiene a quegli altri”. Cosa si aggiunge a questi sentimenti? O meglio, questi sentimenti su cosa si innestano? Sicuramente, non su facoltà innate del «soggetto», motivazioni che a lungo hanno permeato il pensiero moderno e che anche oggi hanno una loro influenza. Nobiltà di nascita e genialità di nascita sono narrazioni che vanno bene solo a posteriori, quando cioè si è quel che si è diventati e lo si motiva affermando che lo si è sempre stati, eliminando tutto il percorso per arrivare ad esserlo. Si tratta, invece, paradossalmente dello stesso ambiente di riferimento: famiglia, villaggio, quartiere, classe.
È dentro la classe stessa che si annida la volontà di non essere quella classe.
Qui, il discorso sociale mostra il suo volto politico: è dentro la classe stessa, per esempio, che si annida la volontà di non essere quella classe. Già all’inizio degli anni Sessanta, Mario Tronti, in Operai e capitale, riassumeva in poche righe questa teoria: la classe operaia deve lottare contro se stessa. In questo consiste la lotta di classe, nel volere che le altre generazioni a partire da questa non siano come le generazioni precedenti. La riproduzione sociale si nutre del mito del modello di se stessi. Se il mio ambiente è fiero di ciò che rappresenta, sarà difficile che io voglia essere qualcos’altro.
Esempio storico ne è la cosiddetta aristocrazia operaia, ovvero gli operai professionali. Di essi parlava in termini schietti Alfonsino, il giovane salernitano emigrato a Torino per lavorare a Mirafiori in Vogliamo tutto di Nanni Balestrini:gente durissima ottusi senza un po’ di fantasia. Mica fascisti ottusi proprio. Erano Pci pane e lavoro. (…) Ma quelli accettavano fino in fondo il lavoro: il lavoro era tutto per loro e te lo dimostravano coi fatti. Stavano qua a lavorare per anni per tre anni per dieci anni. Che lì uno invecchia subito e muore presto. Per quei quattro soldi che non ti bastano mai è solo un ottuso un servo che può farlo.
E non sorprende che, parlando di sé, si descriva così: “Io che ero qualunquista almeno ero uno recuperabile”. Alfonsino non sente sua questa vita “da torinesi”: è tutt’altro, è estraneo, è un meridionale in fabbrica, un pesce fuor d’acqua.
Ora, il riferimento a Tronti e Balestrini ci dà la possibilità di affrontare l’ambivalenza su cui si muove Jaquet: la transclasse è dentro e contro o è dentro e a favore del determinismo sociale? Detta altrimenti, è figlia sana o “malata” del sistema? È entrambe le cose. La domenica può essere la giornata di riposo perché al lunedì si torna a lavorare, o può essere la domenica della vita perché al lunedì si torna a combattere. Questo Jaquet lo sa benissimo. Infatti, ci avverte che l’abbandono del proprio ambiente da parte di un individuo è insieme anche un’espulsione dell’individuo da quell’ambiente. Quante volte, ancora oggi, i figli o le figlie non eterosessuali vengono cacciati/e di casa perché omosessuali o lesbiche? In assenza di lotte sociali, “l’ordine sociale è preservato dall’espulsione di un elemento che lo minaccia, che introduce disordine, poiché non è conforme al modello vigente”. Il meccanismo è lo stesso per quanto riguarda la non-riproduzione sociale, molto spesso la fuga è figlia di entrambi i rifiuti, sempre lo è di questo doppio movimento dell’individuo verso l’ambiente e l’ambiente verso l’individuo.
Il prodotto è l’apolide di classe, colui o colei che non ha posto né nella classe abbandonata né realmente nella classe di arrivo. L’autoanalisi di Eribon a questo proposito è calzante: “Ero un allievo eccellente, ma sempre a un passo da un rifiuto totale dell’istituzione scolastica”. Ecco che, per certi versi, nel transclasse vivono insieme il rifiuto della classe di provenienza e della classe di arrivo, e al contempo si condividono dei comportamenti della seconda e della prima, creando un proprio safe space. Il passaggio non si dà come pieno abbandono del punto di partenza e piena accettazione del punto d’arrivo, come capita spesso a chi è costretto ad emigrare. Anche per questo, Eribon ha parlato di se stesso come un transfugo.
L’abbandono del proprio ambiente da parte di un individuo è insieme anche un’espulsione dell’individuo da quell’ambiente.
L’altra faccia dell’ambivalenza, ovvero quella dell’eccezione non come rafforzamento ma come rottura della regola, si può esprimere anche come una spinta collettiva dell’ambiente affinché qualcuno ce la faccia. Affinché nessuno, un giorno, viva più così. “La non-riproduzione è dunque la forma singolare che può assumere un rifiuto collettivo della riproduzione. In assenza di aperta rivolta o di rivoluzione collettiva, è un grido sordo di protesta del corpo familiare di cui l’individuo diviene megafono e che assume su di sé, perché è il posto che gli è stato assegnato tra i suoi simili. Uno dei motori della non-riproduzione è dunque la volontà di giustizia, radicata nell’umiliazione subita e il desiderio di vendicarla, volontà di non ripetere la stessa vita di generazione in generazione”.
La transclasse è rifiuto del presente e affermazione del possibile. Nella passività generalizzata e nell’atomismo sociale in cui siamo sprofondati, la sua esistenza è da sola la prova della possibilità di un “altrimenti”. Parlare della non-riproduzione sociale a partire da essa non basta, tuttavia. Ciò di cui c’è bisogno è una politica degli affetti che comprenda questa analisi e reinventi il concetto di classe. Poiché la salvezza non è mai individuale, ma sempre collettiva, la transclasse può essere motore per una ridiscussione dello stato di cose presenti, diventando a sua volta un modello a cui ispirarsi. E muovere, dunque, ad una conflittualità sociale. Quel che resta da sondare è il passaggio dall’una all’altra che, come vediamo nella differenza tra un Alfonsino e un Julien Sorel, non ha nulla di meccanico, ma è determinato politicamente.