A vevo iniziato questo articolo ai primi di maggio, dopo l’annuncio del premio Pulitizer andato a Nikole Hannah-Jones per The 1619 Project, monumentale lavoro per il New York Times Magazine sulla schiavitù e sulla sua eredità, il razzismo sistemico nella società statunitense. Il premio era uno spunto per raccontare il dibattito (giornalistico, storiografico, ideologico) che tuttora circonda quel progetto negli Stati Uniti, e di cui in Italia si è parlato tutto sommato poco.
Poi sono arrivate la morte di George Floyd per mano polizia di Minneapolis, le rivolte in tutti gli Stati Uniti, l’arresto in diretta di un reporter afroamericano della CNN, l’escalation di un clima da guerra civile che Donald Trump non fa nulla per rasserenare. Più che abbastanza per ricordarsi che il lavoro di Hannah-Jones (peraltro chiamata spesso dai network televisivi americani a commentare i fatti di questi giorni) non è meno attuale oggi di quando è stato pubblicato o premiato. Anzi, rileggerlo ora è il miglior modo per inquadrare la cronaca di questi giorni per quello che è: l’ultimo capitolo di una storia lunga quattro secoli.
Articolato in dieci lunghi saggi, una raccolta di poesie e racconti, un reportage fotografico e una serie di podcast (tutti affidati a storici, giornalisti, autori di colore), il 1619 project usciva lo scorso agosto prendendo le mosse da un anniversario poco noto. Quattrocento anni dall’arrivo dei primi schiavi africani in quello che oggi è il territorio degli Stati Uniti. Nel 1619, infatti, una nave portoghese partì dalle coste africane, con a bordo qualche decina di uomini e donne sequestrati in quella che oggi è l’Angola e destinati a diventare schiavi in Messico, allora parte dell’impero spagnolo. Metà dei prigionieri erano già morti di stenti quando la nave fu intercettata da due navi vascelli pirati inglesi, che presero con sé una ventina di sopravvissuti e li fecero sbarcare, in agosto, al porto di Point Comfort, nella colonia britannica della Virginia. Lì queste persone furono vendute e finirono a lavorare nei campi di tabacco della colonia, dando inizio alla storia della schiavitù negli USA.
Il progetto del New York Times Magazine fa della schiavitù la chiave di lettura per capire l’intera vicenda statunitense, tanto da proporre il 1619 come vero anno di nascita della nazione, al posto del 1776, l’anno della Dichiarazione d’Indipendenza.
Ideato e curato da Hannah-Jones, che viene dalla piattaforma no profit di giornalismo investigativo Pro-Publica e lavora al New York Times dal 2015, dove si occupa di segregazione e diritti civili), frutto di oltre sei mesi di lavoro e pubblicato nell’agosto del 2019, il 1619 Project va oltre la rievocazione storica. Fa della schiavitù la chiave di lettura per capire l’intera vicenda statunitense, tanto da proporre (è il senso del titolo) il 1619 come vero anno di nascita della nazione, al posto del 1776, l’anno della Dichiarazione d’Indipendenza.
Le sue pagine raccontano come la schiavitù continui – un secolo e mezzo dopo la sua abolizione – a condizionare ogni aspetto della vita del paese: economia, sanità, istruzione, e ovviamente politica. Un saggio della raccolta, per esempio, ritrova nell’organizzazione della piantagione schiavista le radici delle caratteristiche peculiari del capitalismo americano – ineguale, privo di protezioni, dipendente dalla finanza. Un altro spiega come gli attuali problemi urbanistici di grandi città americane come Atlanta – perfino il traffico ingestibile – siano conseguenza delle scelte fatte all’indomani dell’abolizione della schiavitù per segregare le comunità nere da quelle bianche, e assicurare a queste ultime di non dover dividere gli spazi urbani con gli ex schiavi. Un articolo analizza i pregiudizi pseudoscientifici sviluppati dalla medicina dell’era schiavista per giustificare il trattamento degli schiavi (l’idea che persone di colore abbiano una soglia di sopportazione del dolore più alta, o che abbiano una minore capacità polmonare, da “curare” con il lavoro fisico) e rivela come siano ancora presenti sottotraccia nella moderna medicina ufficiale, traducendosi in una peggiore assistenza sanitaria per i neri. Altri saggi trovano nella schiavitù e nella segregazione le radici del rifiuto statunitense di avere una copertura sanitaria universale, o della brutalità che caratterizza il sistema carcerario. Persino il consumo smodato di zucchero – uno dei principali problemi sanitari americani – ha origine quando la schiavitù permette di produrre in grandi quantità quello che altrimenti sarebbe rimasto, almeno fino alla meccanizzazione dell’agricoltura, un costoso alimento di nicchia.
Nella raccolta non c’è un articolo che parli esplicitamente dei metodi di polizia, ma avrebbe potuto esserci. E infatti Hannah-Jones, intervistata qualche settimana fa dalla CBS sulla morte di George Floyd, ha spiegato che “i moderni metodi di polizia, specialmente quelli del Sud e parti del Nord-Est, derivano direttamente dalle slave patrol” (le ronde di bianchi che vigilavano sugli schiavi neri, in particolare incaricandosi di catturare i fuggitivi, nel sud schiavista pre-guerra civile, ndr). “Il loro compito era di assicurarsi che gli schiavi restassero nei soli posti dove era loro consentito stare, avevano potere praticamente illimitato di fermare, interrogare, giustiziare gli schiavi. L’abitudine di non dare valore alle vite dei neri, di consentire ai bianchi di ucciderli anche per crimini minori ha una lunga storia. Ci piace pensare che la schiavitù sia storia vecchia, ma quello che vediamo oggi discende in linea diretta dall’idea che le vite dei neri valgano meno di quelle dei bianchi”.
L’articolo della raccolta che ha fatto più rumore – quello a cui è andato il Pulitzer – è l’introduzione di Hannah-Jones. A partire dalla storia del padre – mezzadro nel Missisippi ancora profondamente segregato negli anni Cinquanta e Sessanta, poi volontario nell’esercito, sempre con una bandiera americana in cortile – Hannah-Jones si interroga sull’apparente paradosso del patriottismo afroamericano.
Come poteva quest’uomo di colore, dopo aver conosciuto di persona come il suo paese abusasse degli americani di colore, come si rifiutasse di trattarci da cittadini con pieni diritti, sventolare con orgoglio una bandiera? Non lo capivo, e mi imbarazzava. […] Come molti giovani, credevo di capire tutto quando in realtà non capivo nulla. Mio padre sapeva esattamente quello che faceva. Sapeva che il nostro contributo alla costruzione della più ricca e potente nazione sulla Terra è indelebile, che gli Stati Uniti semplicemente non esisterebbero senza di noi.
Da lì Hannah-Jones condensa in poche pagine una rilettura di quattro secoli di storia americana attraverso gli occhi degli incatenati, dei segregati, dei discriminati. Da quel primo carico di schiavi sbarcato sulle coste americane nell’agosto del 1619 alla guerra di indipendenza contro gli inglesi, la scrittura della Costituzione, la Guerra Civile e l’abolizione della schiavitù, il breve periodo di pace seguito dalla segregazione, le due guerre mondiali, le lotte per i diritti civili degli anni Sessanta del secolo scorso. In questa rilettura anche le pagine più “nobili” (la Dichiarazione di Indipendenza, la scrittura della Costituzione, l’antischiavismo di Lincoln e degli stati del Nord, le politiche sociali rooseveltiane) si colorano di ambiguità, sono via via nuove forme che l’America bianca inventa per negare diritti a quella nera. Gli afroamericani hanno combattuto “per lo più da soli” per il diritto alla piena cittadinanza, scrive Hannah-Jones. E quella lotta è stato il vero e fondamentale motore di progresso democratico degli Stati Uniti, l’unico riscatto dall’ipocrisia su cui furono fondati.
La nostra Dichiarazione di Indipendenza, approvata il 4 luglio del 1776, proclama che ‘tutti gli uomini sono uguali’ e ‘dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili’. Ma gli uomini bianchi che scrissero quelle parole non credevano che valessero per le centinaia di migliaia di neri che vivevano tra loro. […] Eppure, pur vedendosi negate violentemente la libertà e la giustizia promesse a tutti, i neri americani hanno sposato il credo americano. Attraverso secoli di resistenza e proteste, abbiamo aiutato questo paese ad essere all’altezza degli ideali su cui è fondato. E non solo per noi – le lotte per i diritti dei neri hanno aperto la strada alle lotte per altri diritti: delle donne, dei gay, dei migranti, dei disabili. […]
Mio padre sapeva quello che io avrei impiegato anni a capire: che il 1619 è altrettanto importante nella storia americana quanto il 1776. Che gli americani di colore sono i “padri fondatori”, né più né meno di quelli che si vedono scolpiti in alabastro nella capitale. E che nessuno ha più diritto di noi di sventolare la bandiera.
Difficile, per chi fa il giornalista, non guardare con ammirazione e un po’ di invidia al respiro, l’ambizione, l’immediato impatto pubblico del 1619 Project. Che Hannah-Jones abbia finito per vincere il Pulitzer non è stata in effetti una sorpresa. In un’epoca che vede le testate giornalistiche tradizionali faticare sempre più per mantenere una qualche centralità culturale, una tale dichiarazione di fiducia nel potere del giornalismo e della scrittura non poteva essere ignorata proprio da quel premio. Nemmeno, più prosaicamente, poteva essere ignorato chi ha portato i lettori a mettersi in coda per acquistare un giornale su carta, costringendo le rotative del New York Times a diverse ristampe di quel numero speciale del magazine. Prima ancora di attribuirle il premio, d’altronde, il Pulitzer Center aveva collaborato con Hannah-Jones e il team del New York Times Magazine per una serie di materiali didattici, con lo scopo di migliorare l’insegnamento della storia della schiavitù e della segregazione (largamente ignorate) nelle scuole statunitensi.
Accanto alle lodi, tuttavia, il 1619 Project ha ricevuto da subito critiche feroci. Soprattutto da tre direzioni, come aiuta a ricostruire Bruno Toscano, che studia storia americana all’Università di Pisa e ha seguito con l’occhio dello storico il dibattito attorno al progetto. Le più prevedibili sono le critiche di matrice prettamente politica da parte repubblicana. Commentatori come George Will o Newt Gingrich non potevano che sentirsi punti sul vivo da un’opera che dipinge i padri fondatori come una banda di ipocriti, l’amata Costituzione come un ostacolo alla democrazia più che la sua affermazione, e l’intero “esperimento americano” come un fallimento riscattato solo dalle lotte della minoranza nera.
“Lo scopo del progetto” ha scritto recentemente Will, dopo l’annuncio del Pulitzer, “è di togliere dal posto che le appartiene la vera data di fondazione, il 1776, così privando la storia americana della maestosità morale che spetta alla prima nazione moderna fondata sui principi dell’Illuminismo, proclamati nella Dichiarazione di Indipendenza e implementati nella Costituzione. Per quanto concentrato in modo monomaniacale sulla schiavitù, il progetto perde di vista il punto più importante: che la schiavitù esisteva da millenni, ma è la rivoluzione americana che ne fa un problema mondiale”. Per Newt Gingrich invece, il progetto è una “menzogna,” che dimentica “le centinaia di migliaia di bianchi americani morti nella Guerra Civile per liberare gli schiavi”.
Un gruppo di intellettuali di area repubblicana ha lanciato addirittura un progetto rivale, il 1620 Project, che dice più o meno: se proprio vogliamo spostare indietro la nascita della nazione, allora che la data sia quella dell’arrivo dei (bianchissimi) pellegrini del Mayflower. Persino l’avvocato che rappresenta Trump nel processo di impeachment cita il 1619 Project durante il dibattimento, paragonando un passaggio dell’atto di incriminazione a “un gioco di prestigio storico secondo solo a quello della recente serie del New York Times sul 1619”. Ma queste, come nota Toscano, sono critiche che in fondo legittimano il peso culturale del progetto. Vengono esattamente dalla parte che il New York Times sperava di infastidire, la classe dirigente bianca di area conservatrice che rifiuta pervicacemente di riconoscere e mettere in discussione il proprio privilegio.
Più sorprendenti sono le critiche arrivate dalla sinistra. Il World Socialist Website, per esempio, pubblica una serie di interviste molto critiche in cui il 1619 Project viene accusato, di “guardare al gap di ricchezza negli Stati Uniti solo in chiave razziale, minando la possibilità di una vera coalizione delle classi lavoratrici, che per definizione includerebbe in gran numero neri, donne, latini, ma sarebbe comunque in maggioranza bianca. È questo tipo di unità delle classi lavoratrici che la politica identitaria tende a cancellare”. Sono critiche sorprendenti solo per chi non conosca il milieu ideologico del socialismo americano che, spiega Toscano, “è di matrice soprattutto trotskista, vede le questioni di classe come decisive, dal colonialismo a oggi. Ed è vero che il progetto 1619 rifiuta di vedere la lotta di classe nella lotta per i diritti civili”.
Infine ci sono gli storici di professione. Nel gennaio di quest’anno, cinque luminari di Università prestigiose, autorità riconosciute nello studio della Rivoluzione e della Guerra Civile, scrivono una lettera al Times criticando errori storiografici, lamentando l’assenza di una supervisione scientifica, e chiedendo esplicitamente rettifiche.
Accanto alle lodi, il 1619 Project ha ricevuto da subito critiche feroci, anche da alcuni storici e dalla sinistra statunitense.
Il loro bersaglio è proprio il potente saggio introduttivo di Hannah-Jones, che si premura di tirare giù dal piedistallo i principali simboli della democrazia statunitense. Scrive che “una delle ragioni principali per cui i coloni decisero l’indipendenza dal regno britannico fu quella di proteggere l’istituzione della schiavitù”, facendo riferimento alla comparsa di sentimenti antischiavisti in Inghilterra nella seconda metà del Settecento. Se la prende con la Costituzione del 1776, celebrata per secoli come sintesi degli ideali democratici ma qui riletta come un documento abilmente cesellato per garantire quei diritti solo ad alcuni, e soprattutto per garantire la continuazione della schiavitù. Non risparmia nemmeno Abraham Lincoln. Il quale, sì, guidò il Nord abolizionista nella guerra civile contro il Sud, di fatto mettendo fine alla schiavitù. Ma per buona parte della propria vita considerò impossibile una vera integrazione tra neri e bianchi, e in piena guerra civile incontrò (una scena madre nel racconto di Hannah-Jones) una delegazione di leader di colore per proporre loro, a guerra finita, di salire sulle navi e tornare tutti in Africa. Scrivono i cinque storci:
Applaudiamo gli sforzi di analizzare la centralità della schiavitù e del razzismo nella nostra storia. Fare domande profonde e scomode sulla schiavitù e sul passato e presente della nazione, come fa il 1619 Project, rende al pubblico un servizio necessario e lodevole. Ma siamo costernati per alcuni errori fattuali nel progetto e il processo opaco dietro di essi. Sulla Rivoluzione Americana […] il progetto afferma che i Fondatori abbiano dichiarato l’indipendenza delle colonie dalla Gran Bretagna per ‘assicurare la continuazione della schiavitù’. Questo non è vero. Altro materiale presente nel progetto è distorto, compresa l’idea che i neri americani abbiano combattuto la loro lotta per la libertà per lo più ‘da soli’ […] chiediamo che il Times pubblichi correzioni di tutti gli errori e le distorsioni presenti nel 1619 Project, e la rimozione di questi errori dai materiali destinati all’uso nelle scuole.
Poco dopo un articolo dell’Atlantic rivela che anche molti storici di colore condividono, in tutto in parte, il contenuto della lettera, ma si sono rifiutati di firmarla. Nell Irvin Painter, storica e professoressa emerita a Princeton, ha spiegato per esempio che “Il 1619 Project non è la storia che scriverei io. Ma sentivo che se avessi firmato la lettera, avrei appoggiato l’attacco del tipico americano bianco a qualcosa che ha dato a tanti giornalisti e autori di colore una possibilità di dire qualcosa di grande e importante e farsi sentire. Appoggio il 1619 Project come evento culturale”.
La lettera viene pubblicata con una lunga risposta affidata a Jake Silverstein, editor del New York Times Magazine, che in sostanza tiene il punto. Chiarisce che dietro al progetto non c’è stato un vero e proprio comitato scientifico di storici, ma che ogni saggio è stato fact-checked consultando esperti, come per qualunque inchiesta pubblicata sul New York Times, e che per ognuno dei punti contestati si possono trovare storici pronti a sostenere tesi diverse dai cinque firmatari. Il dibattito però non si placa, amplificato in forma molto meno nobile da Twitter, dove Hannah-Jones (che twitta con il nome di Ida Bae Wells, giornalista e attivista nera di fine Ottocento che considera un suo modello) è sottoposta a uno stillicidio di trolling. Che rintuzza abbastanza bene, salvo rendersi conto che quei riferimenti storici un po’ troppo avventurosi stanno diventando una crepa nella credibilità dell’intero progetto. Soprattutto uno, quello sulla difesa della schiavitù come motivazione della Rivoluzione.
“Su quel punto Hannah-Jones ha torto”, conferma Toscano. “Non tutte le colonie avevano la schiavitù al centro della loro economia, e la Rivoluzione Americana fu il risultato di diverse rivendicazioni da parte di diverse colonie. La schiavitù era una di queste, ed è vero per esempio che Thomas Jefferson aveva scritto una versione precedente della costituzione, che chiedeva il mantenimento schiavitù. Ma non fu l’elemento centrale. Ed è vero che ci fu una fase in cui gli inglesi offrirono la liberazione gli schiavi americani per arruolarli contro i coloni ribelli. Ma fecero la stessa cosa anche alcune colonie del nord per avere più soldati da schierare contro gli inglesi”.
Succede insomma quanto temuto da Leslie M. Harris, storica (nera) della Northwestern University consultata da Hannah-Jones durante le sue ricerche. In un articolo su Politico, Harris racconta di aver avvisato la redazione di quanto fosse debole e attaccabile quel passaggio, invitando a rimuoverlo per evitare che fosse usato come grimaldello per attaccare l’intero edificio del progetto.
Nel complesso, il 1619 Project è un correttivo necessario alla visione celebrative che ha a lungo dominato la nostra comprensione del passato, suggerendo che razzismo e schiavismo non siano stati centrali nella storia americana. Temevo che i critici potessero usare quell’affermazione esagerata per screditare l’intera impresa, e finora è esattamente quello che è accaduto.
E così, proprio poco prima del Pulitzer, la rivista e Hannah-Jones accettano di inserire una sola, minuscola correzione al testo pubblicato online. Appena due parole, “some of” prima di “the colonists”, per dire che alcuni furono motivati a staccarsi dall’Inghilterra per preservare la schiavitù. Fa quasi sorridere che mesi di dibattito tra la principale testata americana e storici di università prestigiose, rimbalzato tra talk show televisivi e Twitter, si risolva nell’aggiunta di due parole a un progetto che ne conta svariate decine di migliaia. Ma per lo meno si può tornare a guardare all’intero impianto del progetto e ai nervi scoperti che ha toccato nella coscienza collettiva americana, gli stessi nervi scoperti toccati dalla morte di George Floyd e dalle rivolte di questi giorni.
Anche secondo Toscano, “la forza del progetto 1619 è aver rimesso al centro la questione afroamericana nel racconto della creazione degli Stati Uniti. È una cosa che alcuni storici avevano cercato di fare, ma per lo più con un linguaggio accademico, non comprensibile al grande pubblico. Il problema è che lo fa in modo troppo teleologico. La schiavitù diventa una sorta di archetipo, l’elemento che spiega tutta la società americana, che è problematico dal punto di vista storico. Ma è chiaro che il New York Times non cercava l’accuratezza storica assoluta, voleva fare un prodotto culturale di impatto”. Il 1619 Project è anche un caso di studio sulle differenze tra il mestiere del giornalista e quello dello storico. “Marc Bloch scriveva che lo storico ha un impegno civile: coniugare il rapporto tra presente e il passato, e pulire le storture della memoria”, commenta Toscano. “Coniugarlo nei due sensi, capire il presente a partire dal passato e il passato a partire dal presente. Il giornalista non necessariamente fa entrambe le cose, non perché non conosca il passato ma perché è legittimamente più interessato al presente. Sono due mondi diversi, ma che dovrebbero interagire di più. Il 1619 Project ha il merito di aver fatto parlare soggetti che non si sarebbero incontrati, costringendo gli storici ad avvicinarsi alla scena pubblica”.