I l segno di un individuo: una ragazza, in un giorno degli anni venti, che sceglie un nome”. Con questa frase nascosta in una digressione, Marta Barone in Città sommersa racconta di una ragazza di umili origini che sceglie per la figlia un nome insolito, un nome che sembra volerla proiettare in un futuro migliore. Questa frase racchiude il potere della creazione, nella nascita così come nella scrittura, di una storia a partire da un nome. Città sommersa (Bompiani, 2020) non parla di una madre che mette al mondo un figlio, bensì di una figlia che rigenera un padre. Se esiste un modo oltre alla nascita per dare vita a una persona, questo è la scrittura: unico gesto possibile di genesi e ricostruzione nei confronti di chi ci ha a sua volta generati. La ricostruzione è l’elemento cardine di Città sommersa: un libro di nebulosa definizione che naviga tra le acque del romanzo e del memoir, creando una forma sospesa tra ciò che è realmente successo e ciò che invece si è potuto solo immaginare.
La storia che Marta Barone tenta di ricostruire è quella di suo padre Leonardo e di quella porzione di passato precedente alla sua nascita, di cui ha informazioni frammentarie. Dopo la morte del padre e il ritrovamento di alcune carte processuali della memoria difensiva per le accuse di partecipazione a banda armata, l’autrice è trascinata nel passato, mossa dalla necessità di cancellare gli appunti confusi e riscrivere la storia di un uomo:
Mi era intollerabile pensare a quanto era andato perduto: volevo tutta la vita, nella sua interezza concreta, volevo salvare tutto pur sapendo che non era possibile. L’unicità, la complessità irripetibile di un’onda marina tra le altre. Di un giorno dimenticato della vita di un umano; di un suo solo battito di ciglia. E allo stesso tempo: quante ore, giornate, conversazioni, incontri inutili o marginali si assommano a una vita?
La volontà di scoprire chi fosse veramente il padre riporta a galla la sinopia di un disegno ormai sbiadito: una Torino sconosciuta all’autrice, una città nuova dove i ricordi di infanzia e gli aneddoti sparsi entrano a fuoco e, grazie alle ricerche e alle testimonianze di chi è rimasto, si riempiono di persone, fatti concreti, gioie e tragedie orbitate attorno alla figura del padre. La volontà di recuperarne il passato coincide con la decisione di trasformare l’uomo in storia. Il libro pare sdoppiarsi e raccontare due vicende parallele: quella del padre Leonardo e quella di un personaggio letterario, “il mio sfuggente personaggio, che ormai, mi rendevo conto, viveva nella mia mente come figura autonoma, scissa dall’uomo che io avevo conosciuto – e che per questo d’ora in poi chiameremo L.B.”.
La scrittura di Marta Barone non genera un memoir perché manca la testimonianza del soggetto in forma diretta. Città sommersa appare piuttosto come un laboratorio di scrittura a cielo aperto: anche in questa accezione la storia si sdoppia, e racconta la figlia e la scrittrice nell’atto di creazione della storia, del processo dietro alla composizione narrativa. Il libro diventa una forma pensante che si chiede di continuo cosa avrà provato l’uomo, come si sarà sentito, quali emozioni ormai perse nel tempo e mai appuntate o condivise avrà provato. Terreno fertile di questa creazione sono le digressioni personali della scrittrice che si concentrano sulla ricerca, sulla raccolta delle testimonianze, lasciando ampio spazio all’immaginazione e alla creazione pura:
Che aspetto avrà avuto, il ragazzo che non era ancora mio padre, quel giorno? Io e te non lo sappiamo, lettore. Ma possiamo sognarlo.
Barone si cimenta nella narrazione di un’impossibilità: non solo ricucire la mappatura spazio-temporale del padre ma anche immaginare le sensazioni provate, le emozioni di fronte alle difficoltà o alle gioie della sua vita passata. Tenta di ricomporre una porzione di storia sconosciuta a tutti se non a L.B., una memoria che non può più essere condivisa. È lo stesso gioco creativo che si fa con i personaggi immaginari e impalpabili delle storie scritte a partire dal nulla:
Io credo che se esiste un nostro archivio familiare sia questo: volatile, fatuo, immateriale, di cui è impossibile restituire l’esperienza irripetibile, la vita, senza che le parole manchino il segno – “com’è povera la lingua della gioia”.
Città sommersa non parte dal nulla ma parte da questo archivio impalpabile, da ricordi confusi che lasciano a Marta Barone il potere di raccontare non solo una storia individuale, ma il processo di genesi della pura narrazione.