N on dovrebbe essere questo il dibattito, mentre il paese che ha tenuto il mondo in mano brucia sotto i colpi della più grossa rivolta degli ultimi vent’anni, ma un giorno ce la ricorderemo, la “disputa delle statue”, effetto collaterale di un mondo che trema. È cominciata, o ricominciata, con la rimozione della statua del 1895 dedicata allo schiavista Edward Colston, ma ha una storia più lunga: negli ultimi anni ci sono stati molti episodi di sanzionamento delle statue; di statue, in particolare, costruite secoli dopo gli avvenimenti celebrati e che richiamano al passato coloniale degli Stati Uniti d’America e degli stati europei – soprattutto statue di Cristoforo Colombo costruite dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri.
Questa disputa ricorda la querelle des anciens et des modernes, aperta ufficialmente nel contesto dell’Académie Française da Charles Perrault nel 1687 con un poema che esaltava l’età di Luigi XIV: il grande autore di fiabe la considerava più luminosa dell’età degli antichi. Ne scaturì un dibattito che partendo dalla letteratura si espandeva ben oltre i suoi confini, impegnando praticamente tutta la cosiddetta “Repubblica delle Lettere”, l’insieme degli intellettuali di tutta Europa che in corrispondenza epistolare si riconosceva come comunità di studiosi, di fatto la prima incarnazione della comunità scientifica odierna. Nel suo libro del 2001 sulla querelle, lo storico della cultura Marc Fumaroli ricostruisce il dibattito (insieme ai precedenti), segnalando come Perrault e i suoi compagni esaltassero la modernità esclusivamente allo scopo di esaltare i loro diretti padroni. In breve, chi parteggiava per les modernes sosteneva che la grandezza dell’antico fosse imparagonabile alla grandezza dei moderni; se era possibile coglierla e confrontarcisi era esattamente nella misura in cui si è moderni e si può trattare, con gli antichi, da pari a pari: e di tutto questo bisognava ringraziare anche il mecenatismo di monarchi assoluti come Luigi XIV, che avevano consentito e munificamente sostenuto il progredire delle arti.
Questa posizione a Fumaroli non piace, e prende posizione a favore de les anciens. C’è da aggiungere qualcosa che Fumaroli non dice, sulla quale un po’ nicchia: il punto di vista di Perrault, con un gioco squisitamente barocco, è l’effetto di un ribaltamento; è proprio il confronto con l’antico che permette ai moderni di esaltarsi. Il gioco non sfuggiva agli avversari di Perrault, che rimarcavano fermamente l’insuperabilità delle vette della letteratura antica. Le due posizioni che si confrontano non sono però interamente contrapposte; la dialettica che mettono in gioco è, almeno in parte, un gioco di ruolo. Certo, son grandi gli antichi: ma i moderni… si reggono sulle loro spalle, e vedono più lontano; e più lontano vedono perché gli antichi sono grandi, giganteschi, insormontabili. Ciò detto, i difensori dell’antico e i difensori della modernità, Boileau come Perrault, beneficiano tutti dello stesso sistema economico e politico, nel quale occupano i più alti gradi. La disputa è una disputa politica su come si costruisce il futuro. È uno snodo storico fondamentale articolato su una frattura che, a un occhio attento, stava già abbondantemente sedimentando nel dibattito dei secoli precedenti.
The moment a statue of slave trader Edward Colston toppled into Bristol’s harbour. ‘It’s what he deserves. I’ve been waiting all my life for this moment’ someone told me in the moments after. pic.twitter.com/6juqVrsJ6V
— Sarah Turnnidge (@sarah_turnnidge) June 7, 2020
Quale modernità
Il processo si era avviato, alla lontana, con l’umanesimo fiorentino all’inizio del Quattrocento. La riscoperta e l’uso creativo dell’antichità romana – scritta o vista – erano serviti a Firenze, libero comune nel morente Sacro Romano Impero, a inscrivere i propri usi, i propri successi commerciali, la propria organizzazione sociale, la grandezza economica e sociale della propria Repubblica oligarchica in una visione universale. In effetti, l’unico linguaggio che aveva tenuto insieme l’Europa nonostante il crollo dell’Impero Romano nel 476 d.C.: quello dell’Impero Romano stesso. Per quei fiorentini orgogliosi, che sopra Santa Maria del Fiore fecero costruire la famosa cupola a Brunelleschi per sfidare il cielo, che a Donatello affidavano il compito di animarne l’interno con putti danzanti sulla sua cantoria, l’antico era contemporaneamente il passato ormai estinto e il vettore della modernità. Non doveva più essere, insomma, un passato ancora presente – era presente nell’esistenza dell’Impero Bizantino, era presente nello scartabellare dei notai tra i corpus legislativi del diritto romano – ma qualcosa di cui si riconosceva l’alterità.
La querelle des anciens et des modernes è una disputa politica su come si costruisce il futuro.
Non eravamo più “gotici”, ma “romani”, ricongiunti al passato una volta che ne avevamo riconosciuta la sua morte. Eravamo dei romani un po’ diversi, nuovi: commercianti orgogliosi e banchieri, che usavano anziché ereditare il passato, e certamente ben distinti dai cardatori di lana, quelle carogne dei ciompi, operai che avevano osato sfidare la nuova organizzazione sociale della gloriosa Firenze. Più o meno negli stessi termini era rimasta sul piatto la contraddizione con il diffondersi del Rinascimento – e poi della “maniera moderna”, il “manierismo” – come linguaggio europeo, diffusosi attraverso forme molto diverse di organizzazione sociale: il nuovo tentativo imperiale spagnolo, la solida monarchia nazionale francese, le potenze coloniali e commerciali emergenti dell’Inghilterra e delle Province Unite (gli odierni Paesi Bassi). Un linguaggio sempre più europeo, e di conseguenza – per questa nuova stirpe di commercianti, banchieri, colonizzatori, diplomatici, nuovi nobili adesso che avevano i soldi per comprare il titolo e mandare in bancarotta le casse di tutta Europa – “universale”. L’Europa è in quel momento, per queste persone, l’universo: ed è in espansione. Sono le stesse condizioni che insieme alla passione per l’antico (i cui reperti vengono sempre più salvati dai flutti della storia, ordinati, rimessi insieme, integrati, imitati), determinarono la Rivoluzione Scientifica. Il mondo non più al centro dell’Universo, ma l’Europa sì. La miccia della modernità è accesa. La querelle des anciens et des modernes è il momento in cui la carica esplode.
Idoli perseguitati
Costruire il futuro seppellendo il passato e il presente non sarebbe stata, d’altronde, una grande novità. La storia, in sé, è un tumulto di conflitti che ha spesso preso di mira i monumenti pubblici, gli oggetti d’arte più esposti, i luoghi simbolici. Emilio Zucchetti, per esempio, ha sottolineato alcuni aspetti meno frequentati dal dibattito sull’antichità romana: per esempio quelli relativi alla mancata sottolineatura della parte più importante della celebre espressione damnatio memoriae, ovvero proprio la “damnatio”, “il più potente strumento di memoria mai concepito: piedistalli vuoti, rasure nei documenti, nomi scalpellati via erano per i contemporanei che assistevano alla scena la più evocativa delle memorie. La memoria dell’assenza, la memoria performativa della cancellazione dalla scena pubblica sono molto più efficaci che lasciare tutto invariato, o aggiungere una targa ad un monumento.”
E naturalmente in questi giorni sono stati più volte rievocati i numerosi episodi di iconoclastia avvenuti nella storia occidentale anche dal Medioevo in poi. La disputa iconoclasta per eccellenza è quella avvenuta in area bizantina nell’VIII secolo. Ogni tanto si parla anche dell’iconoclastia protestante, un fenomeno che non coinvolse tutte le ramificazioni del protestantesimo in Europa ma che fu fortemente caldeggiato da Carlostadio, vecchia conoscenza di Martin Lutero (a cui aveva conferito il dottorato nel 1512).
C’è un’incisione satirica di Erhard Schön, Il lamento dei poveri idoli perseguitati (1530 circa), che accompagna un poemetto di Hans Sachs: rispondono proprio a questo fenomeno e condannano la rimozione e distruzione delle statue dei santi operata dalla parte più radicale del protestantesimo delle origini, insinuando, con sottile torsione retorica, che chi abbatte le statue non abbatte, in effetti, gli idoli della sua vita materiale: il denaro, la lussuria, i piaceri del vino. E dunque, Sachs e Schön fanno notare come non si cambi spiritualmente abbattendo le statue o tenendole in piedi, ma coerentemente col messaggio luterano solo per grazia di Dio, e attraverso la sua Parola. Questo accento sulla Parola (e di conseguenza: sulla disconnessione tra il segno e ciò che designa) lo ritroveremo anche nel cattolicesimo della controriforma, come vedremo.
In questi giorni sono stati più volte rievocati i numerosi episodi di iconoclastia avvenuti nella storia occidentale.
Una cultura come quella cattolica, opulenta e potente, che usava le immagini per giocare col potere – le grandi imprese vaticane di Raffaello e Michelangelo, proprio all’inizio del Cinquecento, celebrano la potenza temporale di Giulio II Della Rovere, uno dei Papi più guerrafondai della storia – non poteva evidentemente avere in simpatia i metodi di lotta delle frange più agguerrite della Riforma protestante. Dovette però cedere qualcosa, su pressione della Riforma, e trovare un modo scaltrito di superare la disputa ideando una dottrina della gestione delle immagini: immagini utili, che convincessero i fedeli. La moderazione di Lutero però non pagò, e decisero in ultima istanza i conflitti geopolitici dell’epoca tra i due pesi massimi Francesco I di Francia e Carlo V d’Asburgo, e quelli tra Carlo V e la Lega di Smalcalda dei principi protestanti che gli facevano opposizione interna. Con la pace di Augusta nel 1555 e quella di Cateau-Cambresis del 1559 l’Europa si spacca definitivamente: finito l’ultimo sospiro del sogno imperiale, terminata l’unità religiosa del continente. A ciascuno la religione del proprio re: cuius regio, eius religio. Il Concilio di Trento, tra il 1545 e il 1561 ridefinisce il cattolicesimo per difenderlo dalla spinta del protestantesimo. Nel frattempo, mezzo secolo di conflitti aveva continuato a produrre e distruggere, produrre e distruggere. Testimonianze antiche e opere moderne venivano continuamente messe in questione, e anche dentro allo stesso Concilio si dovette discutere di cosa fare delle immagini. Tutto sommato meglio che passare gli avversari a fil di spada, anche se sappiamo che non è mancato nemmeno quello nella storia europea (per non parlare in particolare della storia dell’Inquisizione).
Non si tratta però soltanto di sommosse popolari che abbattono simboli del potere, di colpi di stato aristocratici che rimuovono i simboli del vecchio regime, di perfidi papi che ammantavano di panni i nudi di Michelangelo, di damnationes e di ostracismi di cui pure la storia è piena. Tutti questi sono solo una parte, e nemmeno la più grossa, dei fenomeni che hanno di volta in volta determinato la sopravvivenza o meno degli oggetti allo stato in cui si trovavano al momento della loro produzione. Con traiettorie, tutto sommato, davvero poco prevedibili (e nonostante ciò, si può dire, sempre politiche nella misura in cui coinvolgevano delle decisioni riguardanti la collettività): se pensiamo per esempio al costante riuso di marmi dell’antichità romana – provenienti dai Fori imperiali, dal Colosseo, dalle opere che l’Impero aveva lasciato dietro a sé – che procede per tutto il Medioevo (e che anche nella stessa Roma determinò la stratificazione medievale della città) ci si trova continuamente rimandati al paradosso di testimonianze storiche smantellate per produrre… ulteriori testimonianze storiche.
Edward Colston statue pulled down by BLM protesters in Bristol. Colston was a 17th century slave trader who has numerous landmarks named after him in Bristol. #BlackLivesMattters #blmbristol #ukprotests pic.twitter.com/JEwk3qKJx2
— Jack Grey (@_jackgrey) June 7, 2020
In effetti, in questo senso, quasi nessuna delle testimonianze storiche materiali citate a difesa della linea della conservazione universale fa eccezione. La storia della costruzione e decorazione dei luoghi di culto è particolarmente ricca di questi fenomeni, in particolare dal basso Medioevo: i plurisecolari cantieri di Piazza dei Miracoli a Pisa o di Santa Maria del Fiore a Firenze, che come il Duomo di Milano soltanto nel XIX secolo troverà un completamento della propria facciata oggi continuamente fotografata dai turisti, raccontano una storia fatta di stratificazioni, dubbi, spostamenti, rimozioni, superfetazioni, aggiunte, glosse.
Abbiamo sempre rimosso e spostato, riusato e costruito sopra. Mussolini che demolisce il Borgo aprendo Via della Conciliazione al Vaticano – rovinando l’effetto scenografico del colonnato del Bernini. Per non parlare delle manipolazioni della chincaglieria e degli oggetti di oreficeria più volte smontati, fusi, rimontati, coperti di aggiunte. Certo fa un altro effetto una bella colata di cemento rispetto a tutto quel marmo bianco: noi abbiamo gli abusivi, loro avevano i Barberini. E tuttavia per tutta la prima modernità europea, dal Quattrocento al Seicento, almeno fino alla querelle che ne costituisce il punto di svolta ma andando oltre fino all’Illuminismo (che non ha più timore reverenziale degli antichi, e anzi li guarda un po’ dall’alto in basso dalle sue nuovissime macchine tessili che gli antichi non conoscevano), non si fa che esaltare la grandezza degli antichi Greci e Romani. Se ne conservano le testimonianze come amuleti contro la confusione del mondo; si scava e si arraffa senza alcun pudore, e si mettono in bella mostra composizioni alle pareti dei grandi palazzi nobiliari – specialmente in quella che, secoli dopo, sarebbe diventata l’Italia unitaria.
Nascita del museo
Bizzarra, in effetti, questa modernità che poggia le sue fondamenta sull’antichità, la dissotterra polemicamente, ne fa simulacro di un confronto dialettico, e contemporaneamente mette a punto tutti gli strumenti per conservarla. E di volta in volta decide anche dove collocarla, dove integrarla (perché la statua senza un braccio sta male), come va letta e in rapporto a quali testi dell’antichità greca e romana — sempre più trascritti, emendati e commentati.
Guardando al medioevo ci si trova continuamente rimandati al paradosso di testimonianze storiche smantellate per produrre… ulteriori testimonianze storiche.
L’antiquaria, come disciplina che classifica e analizza tanto le testimonianze scritte dell’antichità quanto quelle materiali, conosce nel Seicento degli sviluppi straordinari: una pletora di commenti, repertori, immagini e collezioni che soprattutto in Italia conoscerà una diffusione enorme. Su tutte le collezioni che proliferano sulla penisola, gli eruditi europei che si riconoscono nella Repubblica delle Lettere scambiano informazioni e immagini, e il traffico di reperti antichi è enorme. All’inizio del Settecento viene aperta al pubblico, diventa realmente pubblica, la collezione di antichità dei Papi oggi nota come Musei Capitolini (1734). L’anno dopo sarebbe uscita la prima edizione del Systema Naturae di Carl von Linné, meglio noto come Linneo; la sua decima edizione, nel 1758, avrebbe di fatto chiuso come ultimo, trionfale tentativo di classificazione universale l’epoca della ricerca della classificazione come perfetto ordine nelle scansie delle collezioni. Avrebbe aperto invece l’epoca della classificazione come strumento di comprensione dei processi di lunghissimo periodo della natura (ma saranno necessari ancora diversi passaggi di dibattito prima di arrivare all’evoluzionismo di Darwin: la natura, in questo momento, è ancora considerata come statica).
In quell’anno Linneo compie una mossa scandalosa: inserisce l’Homo sapiens tra i primati e dà un primo scossone alla Grande Scala dell’Essere che vede l’uomo in cima. In compenso, Homo sapiens viene dotato di cinque articolazioni razziali: gli europei bianchi (Europaeus albus), i nativi americani rossi (Americanus rubescens), i gialli asiatici (Asiaticus luridus), gli africani neri (Africanus niger) e infine Homo monstrosus, una specie di “varie ed eventuali” della casistica razziale. Non è una mossa improvvisa, e tutto sommato passa più facilmente questa idea di quanto passi la collocazione di Homo tra i primati. Le collezioni del Seicento, d’altronde, non erano solo piene di antichità greche e romane, ma anche di naturalia – oggetti naturali che ponevano problemi scientifici di vario tipo – ed exotica – oggetti provenienti da terre lontane e da altre culture, nella maggior parte dei casi ottenute tramite spoliazione, razzia, o anche semplicemente attraverso ricatti commerciali o trattati svantaggiosi ottenuti con la forza. Piano piano, si iniziò a formulare la domanda sul perché questi popoli resistessero alla parola del Signore, non volessero lavorare a maggior gloria dei dominatori europei, perché fossero così diversi sia dalla modernità europea sia dalla sua antichità. La risposta che si formulò non poteva che essere: sono dei primitivi. Da Linneo in poi si prova anche a sostenerlo a un livello che, dall’Ottocento, si chiamerà “biologico” (e che all’epoca si chiamava “di storia naturale”).
Il sogno universale di una storia del progresso artistico attraverso gli oggetti si concretizzerà nel progetto elefantiaco del Louvre (1793). Nasce il museo moderno proprio attraverso il ridimensionamento dell’antico; il museo stesso è il luogo dove l’antico balbetta i suoi frammenti costretto tra le pareti solide del grande progetto progressista della Modernità. Nasce il museo anche sulla definizione di “noi moderni, noi europei” contrapposta a “loro selvaggi”, sopravvissuti non si sa come dalle viscere del tempo alla modernità inarrestabile dell’Europa, e a questo punto possiamo già vedere in nuce la storia successiva del razzismo e dell’intensificazione dello sfruttamento della manodopera schiavizzata dai quattro continenti non europei. Proprio mentre nasce la storiografia per come la intende la modernità, mentre la cultura della conservazione sembra fissare i caratteri che la definiscono oggi, sullo sfondo la Storia continua a correre: dalle guerre di successione di inizio Settecento alla nascita dell’industria e della divisione del lavoro, all’accelerazione della tratta schiavile transatlantica, il motore della modernità seppellisce l’antico nel museo; nel frattempo continua la propria opera di saccheggio, estrazione, sfruttamento, spoliazione che proprio nella Rivoluzione Francese e nel suo seguito sarà al centro del dibattito.
Le lettere al generale Miranda di Quatrèmere de Quincy del 1796, considerate il testo fondativo della cultura del patrimonio culturale odierna, sono contemporanee alle spoliazioni napoleoniche durante le campagne d’Italia, e a quelle si oppongono. I simboli dell’Ancien Régime in Francia vengono colpiti mentre le opere religiose vengono trafugate dalle chiese italiane: sarà Antonio Canova a trattare la restituzione di molti pezzi, prima di tutto per conto del Papa, inaugurando la lunga fortuna di una questione diplomatica fino a quel momento sconosciuta, a cui ancora oggi assistiamo con la disputa sulle restituzioni che coinvolge non solo i musei etnografici euroamericani, ma anche il British Museum per la spoliazione del Partenone in Grecia.
Bizzarra, in effetti, questa modernità che poggia le sue fondamenta sull’antichità, la dissotterra polemicamente, e contemporaneamente mette a punto tutti gli strumenti per conservarla.
Non è una semplice questione di ipocrisia. Si tratta, tutto sommato, del prolungamento di una contraddizione: il modo migliore che il mondo euroccidentale ha trovato, in quel momento, per trattare da pari a pari con la storia è creare un metadiscorso storico che arresti i conflitti, li neutralizzi e li dispieghi sul piano liscio della scrittura e della parete del museo; un metadiscorso con regole sue proprie che faccia da arbitro nelle confuse contese del presente per ristabilire continuamente al proprio posto una memoria storica sideralmente allontanata. Per tutto ciò che è “altro” si cerca di trovare una soluzione: e così mentre il Museo oggettiva le testimonianze della storia e delle altre civiltà, magari sotto la forma del Museo Etnografico, il Carcere rinchiude i criminali per rieducarli e correggerli, il Manicomio sovrascrive la storia del silenzio della follia facendola parlare tra le sue mura. Non proprio un grande risultato per l’Illuminismo come movimento di liberazione universale dell’umanità intera. Per quanto abbia prodotto anche delle indubbie conquiste, sotto questo “universalismo” covano tutti i conflitti che, dietro di sé, ha lasciato la modernità, pronti ogni volta a esplodere nuovamente.
Il patrimonio culturale
Il Louvre, da questo punto di vista, diventa il miraggio di una modernità liscia e priva di conflitti che non può mai compiersi: e infatti, più che compiersi, si reitera, e specialmente dopo la seconda guerra mondiale si ripropone di fatto un progetto neo-illuminista, legato in particolare alla costruzione dell’Unione Europea e alla sua promessa di pacificazione dei conflitti nel continente che probabilmente ha visto più guerre nei secoli recenti. In effetti in Italia il dibattito e la legislazione sulla conservazione dei beni culturali è solo apparentemente molto antico. Viene fatto risalire almeno alla lettera di Raffaello a papa Leone X Medici del 1515, con la quale il pittore si candida come intendente delle antichità romane. In quel momento la questione riguarda il ruolo di legittimazione ideologica dei modelli imperiali dell’antichità romana per i “papati militari” di inizio Cinquecento. È uno dei primi snodi che riporta la cultura della legittimazione civico-commerciale del comune di Firenze alle più ampie mire universalistiche del Papato e del Sacro Romano Impero, che proprio nella prima metà del Seicento emetteranno il loro ultimo respiro universale prima di cedere al sistema interstatale europeo che emergerà dalla secessione delle Province Unite dalla Spagna.
Da questa prospettiva si capisce forse meglio il radicalismo di una parte dei movimenti protestanti e del dissenso religioso in generale – specialmente popolare – nella prima metà del Cinquecento, condannato con una sottile dottrina della distinzione tra referente delle opere e opere stesse consolidata attraverso il Concilio di Trento. Scongiurando una politica contraria all’uso persuasivo delle immagini e mettendo le basi di fatto per una dottrina condivisa da tutta la cattolicità (cui il mondo protestante non sarà del tutto in grado di dire di no, se non deviando i soggetti di cui occuparsi dal piano religioso a quello laico: per esempio con le famose “nature morte” olandesi), tanto Teresa D’Avila quanto Ignazio di Loyola, la mistica più celebre dell’età moderna e il fondatore dei temibili Gesuiti, si chiedono: cosa viene colpito dalla superstizione iconoclasta, se non l’immagine di ciò che viene rappresentato? Non solo la ratificazione di una dottrina sul decoro delle immagini, ma anche una decisione sul loro statuto segnico, e a partire da quello sulla loro produzione, conservazione o distruzione. Il compromesso al rialzo diventa insomma quello di gestire le immagini in base a cosa significano, che effetti producono, quanto possono essere utili a mantenere saldo il potere simbolico della cattolicità.
Members of the American Indian Movement are preparing to tear down the statue of Christopher Columbus at the Minnesota State capitol pic.twitter.com/8vLdELlxqG
— Max Nesterak (@maxnesterak) June 10, 2020
Ma l’antico-mania, come dicevamo, ormai era un fatto lungo almeno due secoli, e Roma andava tutelata. Attraverso gli editti dei cardinali camerlenghi, tra Sei e Settecento, si snoda il percorso della regolamentazione del commercio di rovine romane, specie in corrispondenza degli affamati alto-borghesi e nobili stranieri in visita col Grand Tour, la moda di fare un viaggio di formazione in Italia che esplode tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo; questa tradizione conservativa confluirà nella legislazione del Regno d’Italia che infine, con le leggi Bottai del 1939 – in pieno fascismo – adottò la legge che rimarrà fondamentale per la legislazione italiana sui beni culturali. Verrà integrata con i lavori della commissione Franceschini tra il 1964 e il 1967, recependo le risoluzioni internazionali in materia (la Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, la Convenzione del 1972 per la protezione mondiale culturale e naturale, la Convenzione del 1970 per vietare ed impedire ogni illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà riguardante i beni culturali) che porteranno anche alla nozione prima inesistente di “bene culturale”, con la creazione di un Ministero dei Beni Culturali nel 1975. Pochissimo tempo dopo – siamo negli anni Ottanta – in area socialista-craxiana si inizia a parlare di “arte come petrolio d’Italia”, e di questa nozione – che verrà adottata trasversalmente da centrodestra e centrosinistra dagli anni Novanta in poi – si trova il decantato nel concetto di “valorizzazione” che assume centralità indubbia soprattutto nel passaggio dal Testo Unico (1999) al Codice dei Beni culturali (2004).
Per quanto abbia prodotto anche delle indubbie conquiste, sotto questo “universalismo” covano tutti i conflitti che, dietro di sé, ha lasciato la modernità, pronti ogni volta a esplodere nuovamente.
La storia del “patrimonio culturale”, soprattutto per come la si intende oggi in Italia, per quanto faccia tesoro di periodi precedenti, è caratterizzata da indubbie rotture e discontinuità storiografiche: e certo non si può dire che passare da “cose di interesse storico” a “beni culturali” non costituisca una svolta del tutto peculiare, che dovrebbe trattenere dal leggere retroattivamente una lunga epopea teleologica della conservazione. La storia della conservazione si intreccia con la storia della distruzione, dello spostamento e della modifica delle opere del passato, ed è più lunga della storia del Museo. Risponde, quindi, a tutti quegli episodi che in passato hanno messo a rischio l’esistenza delle opere — con una particolare attenzione a decidere di volta in volta quale fosse la questione politica più pressante. Ed è naturale e conseguente, tutto sommato, al fatto che non è possibile conservare tutto ed esibire tutto alla stessa maniera.
Lo sappiamo, come storici, da sempre: la discontinuità delle testimonianze, la frammentarietà delle storie che raccontiamo, sono la regola, e non l’eccezione. La conservazione e la tutela sono politiche di gestione delle testimonianze del passato sulle quali si innestano, di volta in volta, nuovi conflitti. In parte quelli seppelliti dalla modernità, in parte quelli nuovi che si generano nel tempo presente.
Valorizzare
La centralità assunta dal concetto di “valorizzazione” è, in effetti, una novità in questa gestione, e una spia di quale meccanismo abbia agito nel dibattito internazionale sul “cultural heritage”. Mentre le grandi imprese universalizzanti del sapere occidentale della fine del Settecento e dell’Ottocento miravano a costruire un sistema di informazioni globalmente valido e utilmente spendibile per il dominio imperiale del globo terracqueo, la versione neo-illuminista della cultura della conservazione ha preso in carico una serie di critiche che si sono generate al suo stesso interno, e le ha usate per attribuire nuove funzioni – più direttamente economiche – proprio al patrimonio culturale, storico e artistico.
Da questo punto di vista si capisce che il dibattito degli ultimi due decenni in Italia ha una falla. Si confrontano le posizioni più nettamente orientate alla tutela e conservazione contro quelle che sottolineano i compiti di valorizzazione. Ma le prime non hanno gli strumenti per vincere sulle seconde. All’incirca all’altezza degli anni Sessanta del Novecento, uno dei momenti di maggiore conflittualità sociale sugli assi di genere, razza e classe (specialmente nel Sessantotto), il dibattito accademico registrava di fatto lo smantellamento della distinzione rigida tra “arti maggiori” e “arti minori”, eredità settecentesca di una primazia di pittura, scultura e architettura che si era prodotta in relazione agli sviluppi della divisione del lavoro nel mercato storico-artistico e dunque all’assegnazione delle competenze di concetto a pittori, scultori e architetti (che sempre più avrebbero operato o da lavoratori autonomi, o da “direttori dei lavori”) e di quelle strettamente manuali a coloro che, specie nelle arti minori, dovettero transitare attraverso il nuovo modello industriale dalla condizione artigiana a quella operaia e in subordinazione di rapporto lavorativo.
Questo smantellamento attingeva molti dei suoi argomenti da tutt’altro tipo di contesto e da una riflessione che proveniva dall’interno stesso della gestione dei musei, e più precisamente dalla scuola viennese di fine Ottocento e inizio Novecento, della quale in Italia si riproponeva soprattutto l’impostazione formalista (quindi dando rilevanza fondamentale allo stile, alla forma dell’opera d’arte) in una chiave latamente marxista da personaggi come lo storico dell’arte antica Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Com’era d’uso in quegli anni tra gli esponenti marxisti della storia dell’arte – e basta per esempio vedere com’è invecchiata male la lettura di Caravaggio come eroe proletario cui ancora aderiva Arnold Hauser nella sua monumentale Storia sociale dell’arte (1951) – il discorso tendeva a spostarsi sul piano estetico e ideologico più che sul piano delle condizioni socio-economiche di produzione degli oggetti, tanto che ancora oggi la linea tenuta specialmente dalla storia dell’arte italiana tende a essere quella della “emancipazione dell’artista” attraverso i secoli dal Quattro al Settecento, mentre diversi studi (due per tutti: il magistrale Painting for Profit curato da Richard Spears e Philip Sohm nel 2010 e L’invenzione dell’arte di Larry Shiner del 2001) hanno iniziato finalmente a mettere a fuoco come ci siano due percorsi paralleli di vera e propria “creazione” di figure lavorative, cioè di rapporti di produzione, in ambito artistico: tagliando con l’accetta, genio e manovalanza. Questione che, naturalmente, emerge più esplicitamente agli occhi di chi si occupa di arti decorative e applicate (e su questo basterà ad esempio considerare il lavoro di Alessandro Biancalana del 2009 su Porcellane e maioliche a Doccia. La fabbrica dei marchesi Ginori, dove il ruolo progettuale e manageriale dello scultore ai danni della subordinazione lavorativa artigiana risulta molto evidente).
Il ripensamento della primazia delle “arti maggiori” avvenne nella direzione di una rivalutazione anche strettamente economica delle arti minori.
Un ruolo chiave era stato infatti assunto dal dibattito archeologico e antropologico, che naturalmente premeva in modo diretto sulla rilevanza delle forme considerate non artistiche della testimonianza storica, specialmente in assenza di fonti scritte che ne guidassero l’interpretazione concettuale, che per correnti come quella degli studi iconologici restava fondamentale nel definire l’artisticità dell’opera presa in considerazione: il peso delle testimonianze materiali in assenza o nell’incapacità di interpretare testimonianze scritte venne fatto valere da George Kubler nel suo La forma del tempo del 1962, nel quale sedimentava un metodo per una “storia delle cose” a partire dalla sua esperienza sulle culture dei popoli mesoamericani. Il ripensamento della primazia delle “arti maggiori” avvenne però – anche, tutto sommato, contro i desideri di Kubler – non tanto nella direzione di una svalutazione delle arti maggiori, ma di una rivalutazione anche strettamente economica delle arti minori e dei reperti archeologici apparentemente meno significativi.
Questo sviluppo è stato ed è funzionale, intenzionalmente o meno, al mantenimento in una condizione di separatezza giustificativa delle dinamiche di vera e propria speculazione finanziaria su cui si costruiscono sia il mercato antiquario, sia il mercato dell’arte contemporanea – con il secondo a cui viene richiesto di assumersi una serie di responsabilità etiche che assurgono a ulteriore valore di scambio, mentre quasi mai viene messo in discussione il sistema finanziario su cui poggia.
A Christopher Columbus statue in Boston was beheaded overnight https://t.co/oZVRStbQAc pic.twitter.com/ZxQqAlYcTl
— philip lewis (@Phil_Lewis_) June 10, 2020
Il motivo per cui la conservazione e la tutela non possono vincere questa guerra è che non costituiscono l’opposto della valorizzazione: sono invece la sua condizione di possibilità e il modo più efficace per garantire l’espansione sia del mercato antiquario e dell’arte, sia del mercato della fruizione culturale e del turismo. Un modo, ovviamente, flessibile: si dichiara la conservazione universale, ma ciò che davvero è tutelato fino in fondo è ciò che è “valorizzabile”, di solito in quanto fondamento della propria identità culturale o in quanto “differenza storica” che, in quanto tale, si conserva perché fuori dalla norma. Il dispositivo della valorizzazione riattiva il vecchio progetto illuminista della conservazione universale, legittima ulteriormente l’arbitrio delle conservazioni che opera, e vi aggiunge un allargamento di campo che mette direttamente a profitto, privatizzandolo, il campo dell’uso pubblico della storia.
Il risveglio della storia
I diversi fenomeni che abbiamo visto verificarsi negli ultimi anni richiamano ognuno uno strato diverso di questa complessa storia della conservazione. Il livello sedimentario più recente è senza dubbio quello della riqualificazione dei centri storici, che richiama naturalmente l’ampio dibattito internazionale sulla gentrificazione e sulle trasformazioni urbane. Il fatto più interessante è che questo dibattito usa spesso strumentalmente la difesa del patrimonio culturale nell’ottica della sua “valorizzazione”. In questi giorni lo abbiamo visto con il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che si è visto costretto dal crollo di uno dei principali assi di sviluppo dell’economia fiorentina a rilanciarla con un’operazione di brandizzazione.
Gli effetti primari sulla conservazione e tutela riguardano, di solito, la comprensione e leggibilità storica del patrimonio culturale. Gli effetti materiali sono trattati come secondari.
La maggior parte degli interventi di valorizzazione, in effetti, di per sé non toccano mai il patrimonio culturale per come si è sedimentato, a meno di non voler millantare clamorose scoperte impossibili – come quella che Renzi sosteneva dovesse venir fuori dal perforamento del Salone dei Cinquecento. Gli effetti primari sulla conservazione e tutela riguardano, di solito, la comprensione e leggibilità storica del patrimonio culturale. Gli effetti materiali sono spessissimo, invece, secondari: primo fra tutti il problema dei flussi turistici che affollano le città d’arte e i musei determinandone l’invivibilità e mettendo in discussione anche la sopravvivenza stessa delle opere.
Di contro, però, il paradigma della valorizzazione ha dalla sua una serie di strumenti retorici che permettono di utilizzarlo anche nella gestione del tempo libero giovanile come contraltare dialettico della concessione indiscriminata di licenze per la somministrazione di alcolici (col caso bolognese, Cofferati sindaco, che fa da apripista per lo sviluppo della controversia italiana). I giovani sporcano le nostre città d’arte: sono dei barbari che vanno fermati e danneggiano il nostro patrimonio, che di conseguenza non sarà fruibile ai turisti. Ovvero: il “petrolio d’Italia” in queste condizioni non se lo compra nessuno.
Ma non sempre la valorizzazione viene articolata come semplice difesa del patrimonio già esistente con un filo di make-up, e si trova invece a volte di fronte a importanti momenti di decisione su cosa demolire, cosa costruire, cosa restaurare e come (il caso di Renzi nel Salone dei Cinquecento è solo il caso più eclatante e fortunatamente sventato dalla burocrazia oscura delle sovrintendenze), cosa spostare e cosa esporre. Cosa, anche, lasciare semplicemente morire: è in effetti la triste storia dell’abbandono del patrimonio culturale italiano, che già lo stesso Quatremère de Quincy aveva segnalato essere di grande valore soprattutto per la continuità e capillarità col quale si presentava nell’intero territorio italiano.
Il livello sedimentario intermedio si svolge su un piano geopolitico: è quello che fa riemergere il non detto dei trattati internazionali a tutela universale del patrimonio culturale. Dopo il crollo dell’Unione sovietica, il conflitto sui Balcani, le due guerre del golfo, l’abbattimento delle torri gemelle, la cosiddetta “guerra al terrorismo” che sotto il nome di “esportazione di democrazia” ha causato le ormai tristemente consuete operazioni di destabilizzazione dell’area mediorientale, costituiscono altrettanti punti di crisi di questa rinnovata ottica universalistica sul patrimonio culturale. La riemersione di dimensioni conflittuali che sembravano dover scomparire con il crollo dell’URSS ha rimesso decisamente sul piatto la precarietà del patrimonio culturale. I casi più eclatanti che ci ricordiamo sono quelli della distruzione dei Buddha di Bamiyan nel 2001 da parte dei talebani, e più recentemente la distruzione di Palmira da parte dell’ISIS, ma si dimentica sistematicamente, per esempio, la rimozione anche violenta dei monumenti comunisti dagli spazi pubblici degli stati ex sovietici, o l’abbattimento della statua di Saddam Hussein. Non sempre testimonianze storiche, non sempre opere pubbliche; in ogni caso, si è rimessa in moto quella vecchia storia fatta di distruggere i simboli per intimidire o per segnare un punto su una controversia.
Non è un caso da parte liberale e conservatrice l’equiparazione tra vandalismo, rimozione politica e terrorismo: il decoro nelle città europee è il correlato simbolico della conservazione intatta delle zone di guerra.
Non è un caso, insomma, che soprattutto da parte liberale e conservatrice avvenga spesso l’equiparazione tra vandalismo, rimozione politica e terrorismo: il decoro nelle città europee è il correlato simbolico della conservazione intatta delle zone di guerra. Rimuovendo, naturalmente, gli eventi demolitori causati dai vincitori – finora – della storia. Quello associato a Black Lives Matter, ma che è associato anche al movimento femminista globale Ni Una Menos (e in particolare alla sua articolazione italiana Non Una Di Meno) è il fenomeno che risponde allo strato sedimentario più antico. Dalle profondità della storia riemergono le urla di vendetta delle streghe arse al rogo, delle donne stuprate dai colonizzatori, dei “sodomiti”, delle “tribadi” costrette a nascondersi, delle persone trucidate, schiavizzate, costrette a lavorare per i colonizzatori europei nelle Americhe, in Asia orientale, in Africa.
Un vecchio slogan femminista recita: “siamo le streghe che non siete riusciti a bruciare”, e davvero sembra di vedere la vendetta della storia in atto, in cui chi discende da questa storia di oppressioni – che si verificano, spesso, contemporaneamente – rimette in moto il vecchio meccanismo dell’abbattimento delle opere del presente per costruire un nuovo futuro. Non senza ottenere degli effetti abbastanza immediati. Il dibattito interno agli stessi paesi euroamericani ha ripreso soprattutto negli ultimi dieci anni le discussioni relative al carattere razzializzato e sessualizzato delle interpretazioni storiografiche alla luce delle nuove mobilitazioni, mettendo ulteriormente in crisi l’idea che il patrimonio culturale e il sapere ad esso correlato – la storia – siano dotati di contorni valoriali definiti una volta per tutte. Ha fatto scalpore poco tempo fa il caso dell’Università di Yale, che ha dichiarato l’impossibilità di tenere un corso introduttivo omnicomprensivo di tutti i fenomeni artistici della storia, decidendo di optare per dei corsi introduttivi specifici per aree geografiche, periodi o temi.
Naturalmente, però, il problema ha una quantità enorme di ramificazioni e problemi che comprendono anche la cancellazione – l’autocancellazione – delle opere da parte degli stessi artisti che le hanno prodotte, o la distruzione di opere di artisti da parte di altri artisti. I casi più celebri, di recente, sono quelli relativi a Blu che cancella le proprie opere per non cederle alle mostre di street art e ai vasi di Ai Weiwei infranti da un altro artista che ne “duplica” la performance demolitrice.
La contestazione del principio della conservazione delle testimonianze, in qualche modo, va di pari passo al principio della decisione del presente su ciò che, di sé, vuole tramandare. Questo pone una quantità di problemi, a loro modo appassionanti, in termini di allestimento, di interpretazione storiografica, di gestione e di ripensamento dello sguardo con cui si interpreta il passato. Dai reperti delle civiltà extraeuropee passate sottratti attraverso le violente ondate di colonizzazione, al modo in cui i reperti sono esposti e interpretati, passando per l’insegnamento della storia e della storia dell’arte nelle università e nelle scuole da un punto di vista strettamente europeo, sta riemergendo un concetto di storia che non è riassorbibile in un progetto universalistico per come l’ha inteso il mondo euroccidentale.
La contestazione del principio della conservazione delle testimonianze va di pari passo col principio della decisione del presente su ciò che, di sé, vuole tramandare.
Una pluralità enorme di soluzioni su come affrontare la nostra memoria, la nostra storia e ciò che produciamo nel presente si prospetta improvvisamente di fronte a noi, mettendo in discussione persino la nozione apparentemente inscalfibile di “belle arti”. Sembra di intravedere finalmente la possibilità di trattare i monumenti come documenti che in quanto tali possono essere spostati, conservati, rimossi, distrutti, trascritti, copiati, archiviati. Possibilmente prima che siano le stesse istituzioni a distruggerli per eliminare le prove dei misfatti passati.
Le variabili su cosa ci riserverà il futuro sono moltissime, e una di queste riguarda l’egemonia economico-politica che sta conseguendo la Cina sullo scacchiere internazionale, di cui la crisi della COVID-19 potrebbe sancire l’atto definitivo. Quale concetto di storia possa portare con sé il sistema socio-economico cinese non lo sappiamo. Difficilmente si può pensare a un drastico cambiamento in direzione egualitaria del concetto di storia in uso per il nostro mondo, se si considera il problema in un’ottica geopolitica e dando per scontata l’irrilevanza del ruolo delle classi lavoratrici globali, incluse le loro caratteristiche di razzializzazione e sessualizzazione. Non c’entra nulla, naturalmente, la bellezza. Né il rispetto del passato. Entrambe queste categorie sono, al punto di maturazione del dibattito attuale, completamente sorpassate dagli eventi stessi a cui stiamo assistendo. Di questa lunga e complessa storia, la statua di Montanelli a Milano possiamo considerarla un epifenomeno piuttosto insignificante: non pone alcun problema storico né artistico, se non quello di pessime amministrazioni comunali che decidono molto male come spendere i nostri soldi.