S ono dieci le città che Ila Bêka e Louise Lemoine hanno scelto di filmare per il loro ultimo progetto, la serie Homo Urbanus. Ci sono Napoli e Rabat, ma anche Bogotà, Seoul, San Pietroburgo e Tokyo, poi verranno Venezia, Doha, Shanghai e Kyoto: i film possono essere guardarti uno alla volta, o tutti di seguito, in qualsiasi ordine si preferisca. Nelle sei ore di Homo Urbanus camminiamo nelle città, ma non riconosciamo nessuno dei loro monumenti o scorci più famosi: c’è un’assenza di punti di riferimento che diventa un’assenza di direzione in cui a emergere sono i corpi e i volti – in caso ci si perdessero i titoli di testa, l’unica bussola a disposizione proprio le persone, i suoni che riconosciamo come specifici di un certo panorama. Per una volta non sono i belvedere, ma gli abitanti a dire la differenza tra un luogo e l’altro: Bêka e Lemoine, la coppia di registi che filma l’architettura come antropologia, titolano gli episodi Homo Urbanus Neapolitanus o Homo Urbanus Seoulianus, come se si trattasse di studi etologici su specie diverse appartenenti a una stessa famiglia. O forse non come se, perché è proprio questo il punto dell’indagine di Bêka e Lemoine, sin dall’inizio della loro carriera: capire come gli esseri umani hanno costruito il proprio nido e poi lo hanno reso casa, come si sono adattati localmente, anche quando il nido di cui parliamo sono città da milioni di persone.
Homo Urbanus, i cui primi episodi sono stati pubblicati nell’autunno del 2019, è una sorta di studio a campione: trae i suoi lineamenti di antropologia urbana da un elenco minimo di città che potrebbe allungarsi all’infinito, e le città che sceglie le mostra attraverso spezzoni, flash che durano pochi attimi, appunti visivi, come li chiamano loro. Più che dare risposte, Homo Urbanus solleva considerazioni, questioni sul mondo (urbano) che viviamo e su quello che vivremo.
Chi conosce la loro vasta opera filmica, dall’esordio di Koolhaas Houselife, girato nella Maison à Bordeaux di Rem Koolhaas, passando per Gehry’s Vertigo sul Guggenheim di Bilbao e The Infinite Happiness sull’8 House di Bjarke Ingels, riconosce in questo sguardo, a un tempo intensivo e parziale, la precisa scelta formale che li ha resi famosi – e che nel 2016 gli è valsa l’acquisizione dell’intera filmografia da parte MoMA, per la sua collezione permanente.
A Bêka e Lemoine non interessa spiegare l’architettura, ma capire come la viviamo, che si tratti di una autocostruzione, come quella di Butohouse, il racconto di un’impresa impossibile a Tokyo, o di un capolavoro dell’architettura, come la Moriyama house, progettata da un premio Pritzker e abitata da un insolito proprietario, in Moriyama-San; che si tratti di una piazza, come Place de la République in 24 heures sur place, di un hotel (Selling Dreams), di una chiesa a Tor Tre Teste (Xmas Meier), o, come adesso, di una città.
Capire come viviamo l’architettura e come la potremmo vivere, mostrare chi produce uno spazio, piuttosto che chi ne gode, dare spazio a tutti i micro atti di cura e sovversione che servono per rendere un posto abitabile (a questo proposito, nei primissimi giorni del lockdown è uscito Designing Disorder: Experiments and Disruptions in the City di Richard Sennett e Pablo Sendra, una nuova riflessione a favore di una città aperta e porosa): ecco come si spiega il lavoro di Bêka e Lemoine. C’è una frase che mi è tornata in mente, parlando con Bêka, e di cui non ricordo la provenienza: “gli animali domestici costruiscono il loro nido in modo conforme alla loro specie, senza aver potuto ricevere a questo riguardo nessuna lezione dall’esperienza”. Ho pensato che se da una parte la storia dell’architettura residenziale e della pianificazione urbana è una storia lunga secoli, mostrando che dunque come specie possediamo la lezione dell’esperienza, dall’altra Bêka e Lemoine scelgono di mettere in scena una pluralità di esperienze diverse – quelle degli abitanti, dei lavavetri, dei custodi, dei bambini – da cui possiamo trarre nuove lezioni, forse più utili. Anche oggi, che ci accingiamo a vivere dinamiche urbane e collettive di distanziamento di cui non abbiamo nessuna esperienza.
Homo Urbanus è il vostro ultimo progetto, una serie di film sulle città e la vita urbana ancora in corso di pubblicazione. Di tutte le cose di cui vorrei parlare, vorrei cominciare dalla più evidente, cioè che a guardare la vostra filmografia da qui sembra che dal particolare siate arrivati al generale, da Koolhaas Houselife a Seoul, dalla vita nella casa alla vita in città. Se questo è un dato di fatto, la mia impressione è che l’elemento umano e la sua interazione con l’ambiente costruito siano comunque sempre stati al centro della vostra indagine, spostandosi su ecosistemi via via più complessi. Come è nato Homo Urbanus?
A partire dal primo film, e ancora oggi, io e Louise lavoriamo sul rapporto che il corpo crea con lo spazio che vive e occupa, ma, ancora di più, con lo spazio che costruisce per sé. Se la relazione tra il corpo e lo spazio è un soggetto molto importante per l’architettura, va oltre questo ambito di studio, perché riguarda la vita di tutti i giorni. A noi premeva sensibilizzare all’utilizzo dello spazio, al modo in cui relazioniamo; quando si parla di spazio in astratto, non si riesce a capire bene cosa sia. Ma se metti al suo interno delle persone che si muovono, inizia a diventare più chiaro, perché ci si immedesima in quelle persone, si vede se stessi al centro di quello spazio.
Quelle relazioni e proporzioni tra lo spazio e il corpo ci parlano tantissimo, parlano del modo in cui viviamo il contesto che abbiamo costruito per noi: partire dalla casa era la cosa più semplice da fare. In Koolhaas Houselife siamo in uno spazio confinato e attraverso il corpo di Guadalupe, la governante al centro di quel nostro primo film, che si muove all’interno della Maison à Bordeaux, si capiscono subito le relazioni con la casa, i posti che funzionano e quelli in cui il corpo soffre per la compressione nello spazio. Dopo quel film, abbiamo provato a vedere cosa accade quando più corpi entrano in uno spazio, in diversi tipi di architetture, così abbiamo lavorato su spazi più dilatati come quelli della chiesa, del museo, dello spazio semi-pubblico, come la [Dominus] Winery di Herzog & de Meuron.
Contemporaneamente, volevamo lavorare su un altro tema cruciale per noi, cioè la rappresentazione dello spazio in architettura, che passava e passa tuttora attraverso una idealizzazione dell’estetica dello spazio: le case e le architetture vengono sempre mostrate nella migliore maniera possibile, cioè sono sempre trattate in una maniera molto astratta, come uno spazio vuoto dove tutto è pulito e tutto è in ordine.
Quando ci siamo liberati di questa cosa, ci siamo focalizzati di più sul vero rapporto tra lo spazio e il corpo, e così facendo abbiamo potuto cambiare la scala. Alla città ci siamo arrivati piano piano, lavorando prima su piazze, poi su parti più grandi e, in effetti, con Homo Urbanus portando a conclusione questo processo che cerca di capire come viviamo la città, come viviamo lo spazio in comune.
È interessante parlarne oggi, in periodo di isolamento, perché quello pubblico è lo spazio che soffre di più: mentre quello domestico è diventato il solo spazio che utilizziamo, quello in comune ci è vietato. Siamo usciti dalla casa e siamo arrivati in città, nel momento in cui ci viene negata: lo trovo interessante perché Homo Urbanus è una sorta di studio su come le persone, a seconda di culture e climi e condizioni diverse, condividano uno spazio pubblico. E appunto con spazio in comune non intendiamo parchi e piazze, ma la strada, che a noi interessa in quanto scena di uno spettacolo, che va avanti dal momento in cui esci di casa e cominci a seguire determinate regole. La strada, insomma, è sia un palco sia un pubblico.
Il passaggio tra privato e pubblico avviene attraverso il limite della porta di casa, mentre oggi questo limite è stato sostituito dalla frustrazione della finestra: resta solo il privato, quindi. Tutto quello che accade in questi giorni avviene attraverso le finestre, dalle immagini registrate alla comunicazione tra le persone: questa frustrazione dello spazio impossibile è molto interessante. Lavorando su Homo Urbanus a noi non premevano tanto le dinamiche di condivisione dello spazio in comune di una singola città, quanto la possibilità di paragonarne varie: così il soggetto non è più la città, ma come l’uomo vive nella città. In questo modo riesci a capire moltissimo su quanto sia assurdo questo spazio che ci siamo creati.
La città è una nostra invenzione [di esseri umani, ndA], ma se tu vedi questi film e osservi come si comportano le persone, ti rendi conto che è una lotta continua, una sofferenza, perché non è uno spazio adatto alla vita in comune, non è fatto apposta per quella condizione. A partire da questa cosa stranissima di condivisione tra trasporto e vita in strada: da una parte la strada deve permettere il trasporto dei corpi, dall’altra è contemporaneamente marciapiede.
C’è chi ha provato a trovare soluzioni utopistiche per risolvere questo tipo di esercizio di dicotomia tra la macchina e il pedone, come il Barbican di Londra, ma non c’è una soluzione definitiva. Venezia, per esempio, ha eliminato il trasporto mettendolo su una rete di canali non sono accessibili al pedone, cioè tra trasporto e pedone non c’è nessun tipo di comunicazione, e in quel caso il rapporto funziona molto meglio. Se non fosse per il turismo, sarebbe la città ideale, però il suo modello non funziona altrove.
A proposito di questo, tra le tante discussioni di questi giorni, c’era quella su come i marciapiedi non consentano sempre la distanza di sicurezza: è da notare come siamo costretti a rinegoziare il nostro spazio di vita, in quanto pedoni, nella città.
Questa è un’altra assurdità delle città moderne in cui si è dato tantissimo spazio alla macchina, molto più che al pedone. Se tu vedi la proporzione delle strade rispetto ai marciapiedi non c’è paragone. Questo è il frutto della città moderna costruita attorno alla macchina ed è una catastrofe: lo si vede ovunque e ancora di più nelle città più moderne e in quelle che si stanno rimodernizzando, dove è ancora più evidente questa sproporzione. In posti come Seoul ci sono in piena città praticamente delle autostrade, tra l’altro più grandi delle nostre autostrade.
Homo Urbanus Venetianus è l’ultimo video da voi pubblicato, trailer di uno dei prossimi capitoli della serie, girato nei giorni del recente alluvione della laguna. Verrebbe da dire che eravate nel posto giusto al momento giusto, per raccontare cos’è Venezia e cosa sarà. Ma mi chiedo se per voi esiste “il posto giusto al momento giusto”, se è importante, per esempio, conoscere le città che filmate. Anche se quella di Venezia è stata una coincidenza forse più significativa di altre, di Homo Urbanus scrivete che sono “appunti visivi, presi al volo”.
Quello di Venezia è un puro caso: in realtà non ci interessa essere al posto giusto nel momento giusto, anzi, ci piace di più essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, per cercare di catturare più la quotidianità che l’evento. Siamo interessati alla straordinarietà dell’ordinarietà – quando non c’è niente da vedere, se cominci a concentrarti trovi tantissime cose.
Non è facile fare un film senza struttura su città che molto spesso non conosciamo, filmando la banalità, l’ordinario: non prepariamo niente, perché quello che cerchiamo è appunto un’immersione nella vita quotidiana, cercando di catturarla: è un lavoro che ci richiede molto tempo di montaggio. Certo, sarebbe più facile andare a filmare una città durante un evento, ma non rispetterebbe la ricerca che stiamo facendo, non darebbe un’idea di com’è la città tutti i giorni.
È quello che abbiamo fatto anche nei film di architettura: provare a non filmare, come fanno tutti nel cinema e nella fotografia, quando c’è la luce perfetta (che spesso è al tramonto), che se piove torni il giorno dopo. A noi queste migliori condizioni non ci hanno mai molto interessato, perché non corrispondono a quello che si vede di solito. Un bel tramonto ce l’hai due o tre volte all’anno e il resto dei giorni hai una luce grigia magari bruttina: quello non lo vuole raccontare nessuno ed è quello che ci interessa.
Quella straordinarietà dell’ordinario sa tenerti a sé: capita, quando facciamo le proiezioni nei musei o nei cinema e mostriamo un film dopo l’altro, che moltissimi spettatori restino per tre o quattro ore a guardare i film, una cosa che ci sorprende molto. È una sorta di noesi del quotidiano, per cui ti rendi conto che all’interno del quotidiano ci sono dei micro-eventi straordinare; anche quando non accade nulla, in realtà, se ti fermi a guardare bene succedono moltissime cose. Ed è un po’ quello che ci attira nella strada, nello spazio straordinario della strada.
I vostri film sono girati con una tecnica quasi di fly on the wall, quasi senza interazioni. Mi sono tornati in mente certi film di Frank Wiseman, ma nei vostri c’è un senso di sospensione del giudizio maggiore, il montaggio è meno drammatizzante. Eppure ogni film finisce per raccontare le strutture interne delle città, i loro suoni e i ritmi, ma anche la loro accessibilità e i loro confini, i modi che i loro abitanti hanno di vivere, di accettare e di resistere alla forma urbana, quasi micro-forme di sovversione alla struttura cittadina. Come succede nella pioggia improvvisa di Bogotà che blocca, ma non del tutto, la vita dei suoi cittadini. Mi interessa capire anche quanto della vostra etica della città ci sia dentro.
Ci interessa molto vedere come l’uomo si sia creato la città e poi passi il suo tempo a trovare soluzioni per cercare di integrarsi meglio a questo contesto, o per resistere alla pressione e alla violenza che gli porta. È un meccanismo assurdo, se ci pensi: ti crei una casa e poi passi la giornata a trovare soluzioni per viverci meglio – ti viene da pensare che forse si poteva costruire meglio, o che forse la città non è il posto migliore dove vivere. Però a noi non interessa dare risposte, quello che ci interessa è osservare, poi da qui ognuno tira fuori le sue considerazioni: il nostro è un punto di vista, come ce ne sono tanti altri.
Nel caso della pioggia battente di Bogotà a cui fai riferimento, c’è un uomo che poggia dei mattoni nell’acqua per aiutare le persone a passare e poi fa pagare il pedaggio: è un esempio straordinario di adattamento alla città e alle condizioni, metereologiche o di qualsiasi altro tipo, che la attraversano, ed è proprio su questo che vogliamo mettere l’accento.
Il caso di Venezia era ancora più interessante, perché ci siamo ritrovati lì nei giorni dell’acqua alta. Sarà anche il futuro di Venezia, ma in questo caso è stata solo una settimana: è interessante vedere come in quel periodo gli esseri umani abbiano cercato soluzioni per sopravvivere. In situazioni tremende si provano a trovare soluzioni, come adesso che diciamo “usciamo sì, ma proteggiamoci”, e chissà se magari vivremo per sempre così.
Un’altra cosa notevole di Venezia è lo spazio che si trasforma, si dilata e si comprime: il suolo diventa di acqua e in quel modo tutto cambia. I veneziani, tradizionalmente gran mercanti, hanno subito cercato soluzioni per rimanere aperti e questo ha richiesto dell’invenzione: c’è chi ha provato a ripararsi dall’arrivo dell’acqua e chi lo ha accettato e ricominciato subito; meccanismi del genere sono utili per capire come evolvano la città e lo spazio.
Nella clip di Homo Urbanus Venetianus c’è quella che io chiamerei una capacità tutta locale di adattarsi alla città: l’acqua è salita, sì, eppure si vedono veneziani al bar, c’è cioè una certa abitudine a convivere con la città che deriva dal viverci, una specie di genio locale, insomma. Se l’idea dell’anima autentica della città o di una loro essenza eterna è una visione banalizzante, perché le città cambiano, è evidente che i processi di commodificazione delle città sono sempre più rapidi. In questo senso Homo Urbanus mi pare anche un lavoro di testimonianza della differenza e della unicità legate a saggezze locali e specifiche.
Lo diciamo spesso anche noi che questi film sono testimonianze su un mondo che sta scomparendo, perché le città stanno si uniformando tra loro e sono sempre più simili. Ci sono parti di città che non abbiamo filmato e che non sapresti dire neanche dove sono: potrebbero essere Atlanta come Seoul, non ti rendi conto della differenza.
Poi ci sono ancora zone che resistono, ma sono le zone che stanno piano piano scomparendo, come quella dove abbiamo gran parte del film di Seoul, che è centrale, ma che piano piano si sta facendo mangiare dalla città generica, per citare il Koolhaas di vent’anni fa. Anche Bogotà aspira a quel tipo di città lì: vorrebbe ripulire la città per diventare una città generica e, se in gran parte riesce ancora a sfuggire a quei sistemi, c’è già una zona a nord, più ricca e molto più generica. Stiamo vivendo oggi un passaggio da una città che non so se ha un’identità, ma certo una particolarità, verso la città standard. Queste nuove zone a noi non interessano molto, perché lì è un ordinario-non-straordinario o meno straordinario, perché nella città globale tutti i comportamenti sono standardizzati: fatto il film in una città fatto in tutte.
A noi interessano quelle zone di resistenza, ci interessano quei comportamenti particolari, legati al contesto culturale, climatico.
C’è un segmento di Koolhaas Houselife in cui Guadalupe corre per la casa a mettere vasi e bacinelle perché piove e l’acqua filtra all’interno (sembra essere la pioggia il filo conduttore dell’intervista!). Koolhaas Houselife insomma metteva in scena il modo in cui un oggetto architettonico, anzi un capolavoro dell’architettura, vive nelle mani di chi lo pulisce, che forse è chi lo conosce davvero, in un modo diverso forse, ma altrettanto puntuale di chi è un critico d’architettura. Entrambi ne sono “esperti”. E raccontava appunto questa continua lotta contro il decadimento delle cose, questa pulizia che è un po’ un modo per mantenere il controllo sullo spazio. In scala più grande mi pare che lo stesso valga per le città: sono a volte frutto di un genio collettivo, a volte di impianti urbanistici calati dall’alto: chi le abita sa se funzionano e non funzionano meglio di chiunque altro.
Ho studiato architettura e non avevo nessuna intenzione di fare i cosiddetti film di architettura, che trovavo assolutamente poco interessanti. Quando abbiamo iniziato a discutere con Louise su come lavorare, abbiamo notato una cosa, cioè che in quei film non vedevamo mai come lo spazio veniva vissuto realmente. Noi non volevamo il racconto di chi ha capito tutto, ma quello di chi fa un’esperienza dello spazio. Così quando abbiamo cominciato a pensare all’esperienza di uno spazio, non ci sono venuti in mente né i proprietari, né gli architetti, né le pubbliche relazioni, ma le persone che quello spazio lo lavorano. Non chi ne gode, ma chi lo prepara, insomma, chi si interessa alla manutenzione, alla pulizia, a far sì che lo spazio viva, perché, come abbiamo scoperto in questi giorni, le case hanno bisogno di molte cure – sono cose che dimentichiamo perché abbiamo suddiviso il mondo in chi gode degli spazi e chi invece li prepara o se ne occupa.
Andare a seguire chi fa un’esperienza dello spazio attraverso il lavoro cambia completamente la percezione di quel tempo e di quello spazio. E per noi l’esperienza di uno spazio va fatta in tutte le condizioni, non basta scegliere la migliore – in questo senso la condizione della pioggia è proprio la condizione che viene rimossa, perché non è consona alla promozione dello spazio, che è la ragione principale dei film di architettura.
Quando in Koolhaas Houselife piove e Guadalupe deve cercare soluzioni anche molto banali per risolvere un problema all’interno di una casa che è straordinaria, che è un’icona dell’architettura, ecco in quel momento viene fuori un clash culturale e architettonico in cui ti rendi conto che anche gli spazi più belli, quelli più mediatizzati e fotografati, sono lo stesso spazi umani. È venuta fuori l’umanità che uno spazio come la Maison à Bordeaux aveva perso, perché era diventata (ed è tutt’ora) un’architettura da copertina: eppure quando vai a sottolineare i lati deboli di quello spazio, quello spazio diventa ancora più interessante.
In quella scena di Guadalupe e della pioggia c’è una certa tenerezza: la casa non è più potente come è nella sua rappresentazione tipica e mediatica, e chi la può aiutare non è più l’architetto o il critico, ma la donna delle pulizie. Per noi, all’epoca del nostro primo film, Guadalupe era un simbolo fondamentale perché a noi premeva parlare di un aspetto assolutamente dimenticato in architettura, cioè quello degli invisibili, come li chiamiamo noi, delle persone che non compaiono mai nelle rappresentazioni, ma che fanno un lavoro enorme nella manutenzione degli spazi.
La scena iniziale, che è anche l’emblema del film, è Guadalupe che va verso il cielo: un tributo a tutte le persone che si occupano degli spazi e ci permettono di viverli al meglio: con lei salgono tutti quelli che poi abbiamo continuato a filmare. In tutti i nostri lavori ci sono tantissime persone che puliscono, lavano, mettono a posto, che sono fondamentali per il modo in cui viviamo lo spazio. Perché cosa succede se non lo facciamo? Lo vediamo in questi giorni, vediamo come la natura si riprende tutto e ci mette fuori. Se lasci a se stesso un edificio per dieci anni, non lo usi più, non puoi farci più niente – qualsiasi società che ha in gestione edifici lo sa. È il caso del film che abbiamo fatto a La Maddalena con Stefano Boeri: quell’edificio, pur essendo nuovo, non è stato mantenuto e ora si è degradato in modo irreversibile.
Negli ultimi mesi abbiamo visto le immagini delle città deserte: all’inizio si parlava di quanto finalmente ce le saremmo potute godere – tranne che ovviamente non c’è modo di farlo. Pensavo a questo e ai vostri film e pensavo che sono l’opposto: manca del tutto il panorama umano. I vostri film parlano del modo in cui viviamo la casa, del modo in cui viviamo insieme, del modo in cui viviamo nella città. Il titolo della prossima Biennale è How we will live together e mi pare che da sempre abbiate provato a rispondere a questa domanda, da Koolhaas Houselife, a Barbicania, a Homo Urbanus. E la situazione in cui ci troviamo in questo momento pone delle questioni su tutti e tre questi piani di vita: domestico, locale (vicinato), urbano.
Più di quello che sta succedendo in questi giorni, secondo me è interessante quello che accadrà tra poco e che già comincia ad avvenire. Insomma non ci interessa tanto la città vuota: basta farci un giro e l’hai capita, basta vedere le foto, che poi sono molto noiose. Per esempio ho visto un film su Venezia vuota che durava tre minuti e l’ho stoppato dopo venti secondi, perché non c’era niente da vedere. Se una città non è filmata nelle migliori condizioni di luce, dopo un po’ è una noia tremenda, perché ciò che rende le città interessanti sono le persone, perché lì inizia la vita: altrimenti sono immagini di morte. Il problema è certo come andrebbero meglio vissute, ma è un altro discorso. Possiamo riflettere su come cambieranno, magari non per sempre, ma sicuramente per qualche mese, su come cambierà il rapporto tra corpo e corpo. Edward T. Hall ne La dimensione nascosta ha studiato i rapporti di distanza tra le varie persone a seconda delle culture: uno dei libri più importanti dell’antropologia urbana oggi è messo completamente in discussione a causa del virus, perché le distanze stanno cambiando.
È interessante capire come cambierà una città che non è stata pensata per questo tipo di situazione, che è fatta per gli assembramenti dei corpi – pensa alla metro, che è pensata per portare carichi altissimi di persone perché li puoi ammassare, e che non tiene conto della situazione attuale.
Spero che la situazione attuale non persista così a lungo da dover trasformare la città, ma so che sicuramente lo farà abbastanza per dover cercare soluzioni per adattarci a questo problema all’interno della città esistente. Non ci abbiamo neanche pensato a filmare le città deserte, ma vorremmo farlo nel momento in cui ripartono, perché si produrranno delle nuove situazioni di adattamento alla città e nei rapporti tra le persone entro uno spazio, come quello della strada, che è completamente sfalsato rispetto a prima. Vedere come la città riparte, al di là delle mascherine, capire come andremo in spiaggia, al mercato, comprendere come cambieranno questi equilibri, come lo spazio privato cambia nel pubblico: ci piacerebbe girare un Homo Urbanus a testimonianza di un periodo in cui i rapporti tra corpo e spazio sono completamente sfalsati.
Questi sono dei meccanismi di adattamento di primo livello: cioè siamo costretti a provare e a cercare di capire, ma è tutto nuovo, mentre la città per come la conosciamo è vissuta da secoli e ognuno di noi inconsciamente di solito sa come si deve comportare. Ma oggi per la nostra indagine, per lo studio di come viviamo insieme, la città diventa assurda: come i veneziani sono capaci di adattarsi all’acqua alta, ora il mondo intero deve dimostrare com’è capace di adattarsi al virus, nello spazio pubblico.