I l filologo tedesco Ernst Robert Curtius (1886-1956) ha dedicato la sua vita di studioso a dimostrare che la letteratura europea dai tempi di Cicerone presenta punti in comune, come attesta la sua teoria della topica storica. Non è difficile crederci, anche prima di leggere il suo elenco di metafore o topoi che si ripetono nel corso dei secoli, da Virgilio a Tasso, fino agli autori contemporanei. Però, c’è una cosa che non è rimasta come allora, come al tempo di Orazio: la satira.
Leggendo questa raccolta delle cronache che lo scrittore francese Éric Chevillard ha scritto regolarmente per Le monde durante il periodo di confinamento, tradotte da Gianmaria Finardi per la sua Prehistorica Editore, si ritrova il gusto dei sermones. A ricreare quell’atmosfera sono il senso dell’umorismo, amaro, l’ispirazione che nasce dalla vita quotidiana, una certa bonarietà infine per il genere umano.
Ritroviamo, poi, in queste pagine di Chevillard un’altra rarità, la scrittura gnomica:
È un guaio quando tutte le menti non riescono a carburare se non attorno alle stesse questioni […] Il confinamento si rivela quindi propizio alla creatività: siamo quotidianamente bombardati da video, immagini, burle… Ma, purtroppo, tutta questa inventiva a briglia sciolta attesta anche dei limiti di immaginazione e riafferma il regno schiacciante della banalità… Le idee si incrociano, si ripetono, come per contaminazione, come se la legge del Covid-19 si imponesse persino a coloro che la febbre risparmia, e lo stesso gioco di parole passasse di labbro in labbro.
Chevillard è ovviamente consapevole che con la sua Chronique du confinement si posiziona esattamente nel mucchio di coloro che hanno scritto, hanno dato sfogo alla loro creatività compressa, molto spesso con risultati deludenti. I mesi scorsi sono stati anche un lascia passare per i dilettanti, per coloro che hanno voluto a tutti i costi esprimersi attraverso testi o post dedicati al racconto della loro personale esperienza pandemica. Solo che c’è una differenza: “sì, inevitabilmente, tutti gli scrittori in attività tengono un diario del confinamento. Argomento obbligato. Argomento unico. Non ci opprimete. È scrivendo che produciamo i nostri anticorpi”.
Nella raccolta di Chevillard come nei brani di altri scrittori e autrici che si sono dedicati a racconti o riflessioni sul confinamento sta una storia che non si esaurisce nello spazio tra chi scrive il suo sfogo e la pagina, che ha bensì la forza sufficiente a raggiungere l’Altr*, le lettrici e i lettori. In questi testi troviamo raccontate attraverso immagini nuove le esperienze che una buona parte dell’umanità ha condiviso, di cui abbiamo sentito parlare e che noi stessi abbiamo fin troppe volte ripetuto. Per esempio, quanto ondivago fosse il nostro stato psicologico, che oscillava tra un senso di libertà inusitato e la più profonda angoscia:
Disciplina rigorosa, il confinamento mette in luce il nostro vero carattere. Siamo infine a quattr’occhi.
Quattro occhi, sì, perché due esseri almeno si incarnano simultaneamente in ognuno di noi. Il primo è molto nervoso, cammina su e giù mangiandosi le unghie […] mentre l’altro si lascia filosoficamente crescere la barba da vecchio saggio (questa metafora è valida anche per i giovani e le graziose signore, non ci sono più età né generi che tengano ormai) e tenta di trarre un qualche profitto da questa esperienza radicale.
Ancora meglio è poi leggere pensieri del tutto nuovi, immaginari esotici relativi a un periodo che è stato invece fortemente omologante:
Le belve in gabbia che siamo diventati attirano sempre più visitatori. Famiglie di scimpanzé sfilano dietro i miei vetri. I piccoli danno colpetti alla finestra nella speranza di scuotere la mia inerzia. Acconsento talvolta ad alzare la testa. Sento che il mio sguardo li agita. La nostra parentela muove in loro un’onda di vaga compassione. Ma la scacciano molto alla svelta e preferiscono ridere delle nostre facce e dei nostri giochi puerili.
Il gusto per l’assurdo è proprio la nota che allontana il testo di Chevillard dal solco di Orazio e lo catapulta nella contemporaneità. Le cronache riprendono spesso le tematiche che animavano il dibattito durante il confinamento: le mascherine, il ritorno alla normalità, la ridondanza dei mezzi di comunicazione, la noia, gli effetti della mancanza di socialità, trasfigurandoli attraverso l’inverosimile:
Lachesis è un ragno ballerino. Ci parliamo molto. Ci parliamo per ore. Sono soprattutto io a parlare, ma ho imparato a interpretarne le flessioni, le oscillazioni, i cenni, e credo di potere dire di non sbagliarmi più sul senso dei suoi interventi, sempre cauti e opportuni […] Lachesis scende a volte dalla tela. Lo lascio correre giù per il collo. Mi fa il solletico. Ben presto, non mi trattengo più dalle risate. Mio Dio, in questi tempi penosi, ciò è molto prezioso, e gli sono riconoscente di riuscire a distrarmi così dalla mia malinconia.
Chevillard è evidentemente il Lachesis dei suoi lettori: riesce a distrarre dalla malinconia, dalle paure che non si sono dissolte così repentinamente come le ordinanze di restrizione. Il suo umorismo è un ottimo modo per tenere a mente ciò che può già sembrare lontano, la reclusione in casa, che resta un’esperienza radicale della nostra vita umana.