L
a scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti”, scrive Trevi. “Consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne”. Il motivo è semplice. Quando scriviamo di un morto, il suo spettro si manifesta con una presenza ingombrante, quasi tangibile, e non in un debole miraggio, come può succedere invece in un sogno, o nel pensiero. In Due vite Trevi evoca così gli amici scrittori Rocco Carbone, scomparso in un lampo, sbattendo con il motorino contro una macchina parcheggiata in doppia fila, e Pia Pera, morta invece lentamente di SLA.
Trevi ricorda le serate e i viaggi passati tutti e tre insieme. Ripercorre le carriere dei due amici, le loro qualità umane e letterarie, le rispettive storie d’amore, i litigi e i lenti riavvicinamenti. Rocco Carbone ne emerge come una persona eternamente insoddisfatta, con un carattere “per niente facile”, ostinato; uno che, da autore, cerca un ordine razionale che nella vita gli sfugge: usa la scrittura come una cesoia per tagliare e levigare la realtà nell’allegoria. Il suo ultimo libro, L’apparizione, (“quello che per comune consenso si può definire il suo capolavoro”) sarà un romanzo simbolico sul disturbo mentale, la psicosi, la mania bipolare di cui soffriva.
Pia Pera viene raccontata invece, con malinconica ammirazione, come una persona curiosa, un “essere incantevole” e una “grande scrittrice”, maliziosa e lieve, dall’“intelligenza scintillante”, che traduce, tra gli altri, Lermontov e Puskin con “leggerezza, lirismo, duttilità”. Masochista nelle questioni amorose, e per questo anche lei, a suo modo, infelice, troverà consolazione, negli ultimi anni, nel trasferimento in un casale di famiglia, in campagna. Lì inizierà a scrivere libri sulla vita all’aria aperta e la cura dell’orto e del giardino.
Un anno fa, in un’intervista di Laura Marzi sul Tascabile, Trevi disse che la letteratura, a differenza della filosofia o della scienza, è una ricerca della verità pigra, che non tende all’universale ma si concentra sul particolare, sulla singolarità. Lo ripete anche nel libro, esplicitamente: “la letteratura deriva la sua stessa ragion d’essere dal rifiuto di ogni generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua singolarità”. La letteratura è ancorata al racconto di un caso, non può essere un criterio di conoscenza generale e definitivo.
Eppure, in Due vite torna spesso un movimento tipico della scrittura di Trevi: è quel particolare passo che gli permette di spostarsi – in maniera repentina, a volte, ma mai violenta – dall’io al noi. Anche quando è nel bel mezzo delle vicende, Trevi è capace cioè di smarcarsi da quello che sta raccontando per aprirsi a qualche considerazione universale: sullo spirito umano, sulle passioni, sulle contraddizioni dei rapporti, sulla morsa dei desideri. È una ricerca forse pigra, quindi, poetica o letteraria della realtà, ma non si può negare che tenti anche di essere generale. Prendo solo un esempio, in cui questo passaggio dal particolare all’universale è più evidente che altrove:
Da pochi mesi ho compiuto l’età esatta in cui Pia si è ammalata, cominciando a perdere progressivamente, inesorabilmente, giorno dopo giorno, l’uso del suo corpo. Gli anni di Rocco, invece, ormai li ho superati abbondantemente. I nostri amici sono anche questo, rappresentazioni delle epoche della vita che attraversiamo come navigando in un arcipelago dove arriviamo a doppiare promontori che ci sembravano lontanissimi, rimanendo sempre più soli, non riuscendo a intuire nulla dello scoglio dove toccherà a noi, una buona volta, andare a sbattere.
Ma ci sono tanti di questi contrappunti alla narrazione, nel libro, e varrebbe la pena di riportarli tutti perché sono luminosi: è come se Trevi cedesse la parola a una sorta di coro che chiede al lettore di astrarsi dalle vicende raccontate e di confrontarsi per un attimo con qualche particolare verità che riguarda l’animo umano, di solito una verità rimossa ma condivisa, rivelatrice. Sono tante epifanie sull’esistenza, è come se di continuo Trevi chiedesse al lettore: hai mai notato come siamo fatti, il modo incoerente in cui viviamo le nostre vite?
Come è possibile che conteniamo in noi tante cose così disarmoniche e spaiate, manco fossimo vecchi cassetti dove le cose si accumulano alla rinfusa, senza un criterio?
Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi.
Due vite è un ordito tessuto con cura e cognizione, un’opera ancora una volta difficile da definire perché Trevi per annodare le sue storie ha costruito il telaio con elementi di saggi, romanzi, divagazioni e appendici. Nelle sue poche pagine, questo libro riesce a essere tante cose: il racconto dei fantasmi dei due amici lo rende un’opera intima, dolorosa, ma la voce di Trevi mescola a quei ricordi citazioni di altri libri e altri scrittori, descrizioni di quadri e opere d’arte, delle chiese e delle piazze di Roma. Due vite – come il precedente Sogni e favole – diventa così un gioco di ombre (in cui Trevi cerca, per sottrazione, di raccontare anche se stesso) e una riflessione sull’identità, sulla letteratura, sulla giusta distanza da tenere per scrivere le vite degli altri, sulla natura transitoria dell’esperienza umana e sulle ferite che lascia.
Noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno.