N ella cultura popolare italiana, gli ammiratori di Franca Leosini e del suo programma Rai3, Storie Maledette, sono un fenomeno unico nella forma e nel volume. Treccani, nel luglio del 2019, ha inserito il termine Leosiner come neologismo nel proprio vocabolario: “Chi sostiene con entusiasmo la giornalista Franca Leosini”. Una caratteristica dei Leosiner è l’ampiezza dello spettro delle loro età e identità sociali, ma il loro sostegno fanatico per Storie Maledette si regge su un solo pilastro: lei, Franca, con il suo linguaggio barocco, le sue incursioni cattoliche nel sordido.
Insomma, la notorietà di Leosini oggi sembra quasi esclusivamente una questione di folklore contemporaneo, di meme sul suo portamento elegante e il vocabolario ricercato, sui modi vanitosi e autoironici, e rischia di far dimenticare il valore e il ruolo che un programma di cronaca nera come Storie Maledette ha avuto nella storia della televisione e della cultura popolare italiana, rischia cioè di mettere in secondo piano le abilità giornalistiche di Leosini, la maniera sorprendente in cui gli autori dei crimini raccontati in trasmissione sono portati a descrivere, in ogni intervista, le scelte che hanno compiuto nella loro vita: la presa di coscienza, la convivenza umana con la colpa, la responsabilità e l’espiazione della pena.
Ho conosciuto televisivamente Franca Leosini grazie ad una serie di videocassette che circolavano all’Università e che ho bulimicamente assimilato in pochi mesi. Essendo cresciuto negli anni Ottanta in una famiglia in cui si guardavano solo reti Fininvest, mi ero perso tutta una serie di programmi di culto che avrei capito, più avanti, essere nati all’interno di Rai3 sotto la direzione di Angelo Guglielmi e Stefano Balassone, entrati come dirigenti nel 1987 e usciti poi dall’azienda nel 1994.
Tutta la televisione di cui mi sarei appassionato in seguito veniva da lì: i personaggi comici e surreali di Corrado Guzzanti, i deturnamenti taglienti di Blob, le inquietudini dei casi di Chi L’ha Visto, la gelida commedia del sistema giudiziario di Un Giorno in Pretura, lo squallore esistenziale di Cinico TV di Ciprì e Maresco, i cortometraggi surreali di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, la solidità elegante di Corrado Augias che racconta la cronaca nera in Telefono Giallo.
La notorietà di Leosini oggi sembra una questione di folklore contemporaneo e rischia di far dimenticare il valore di Storie Maledette nella storia della televisione italiana.
A Rai3 in quel periodo era successo un fatto strano. Da una decina di anni il servizio pubblico era passato dal controllo del governo a quello parlamentare. Democrazia Cristiana e Partito Socialista erano impegnati a costruire i propri consensi mediatici rispettivamente su Rai1 e Rai2. Nella lottizzazione della Rai, il terzo canale era destinato alla sfera di influenza del Partito Comunista. A fine anni ottanta, però, forse anche come conseguenza della crisi del blocco sovietico, il partito non aveva una strategia per il proprio canale, per cui nella rete si era creato una sorta di vuoto pneumatico nel quale c’era piena libertà di movimento, e all’interno del quale l’unico imperativo che arrivava dalla direzione era “Proviamo a fare la televisione”. Ovvero proviamo a scoprirne le tecniche, a conoscerne il potenziale, proviamo a portarla al limite di ciò che si può semioticamente fare. Proprio alla fine di quel periodo irripetibile, nel settembre del 1994, inizia Storie Maledette, un programma sul “delitto” condotto da una delle redattrici più ruspanti del Telefono Giallo di Corrado Augias, Franca Leosini.
Il programma completa una ideale trilogia del crimine in televisione, e del rapporto tra la comunità e aspetti solitamente in ombra della struttura sociale: Telefono Giallo raccontava i misteri e i delitti nel momento del compiersi, Un giorno in Pretura la complessità del meccanismo giudiziario e la formazione della realtà processuale, Storie Maledette avrebbe fatto luce sulla fase umana del castigo: un’analisi del condannato, quasi sempre reo confesso, che riflette su quanto ha commesso e costruisce il proprio presente all’interno della sua inevitabile condizione di pena.
L’operazione, dal punto di vista culturale, è rivoluzionaria. È la prima volta nella storia della cultura popolare italiana che l’autore di un reato viene mostrato così liberamente in TV. Entrano così tra le pareti delle cucine e dei salotti dei telespettatori i riverberi ampi delle chiavi che aprono e chiudono le sbarre, lo scorrere ferroso delle porte, i vestiti mesti dei carcerati che si mettono in ordine, per quanto possibile, per le telecamere. E in quel nuovo rapporto tra cittadini e detenuti Franca Leosini è il Caronte perfetto che traghetta la coscienza dell’italiano medio felice del sapere i criminali in galera, all’interno delle pieghe oscure e contorte delle scelte che portano qualcuno ad uccidere un essere umano.
Chiariamo subito una cosa: Franca Leosini è probabilmente una delle più brave intervistatrici che l’Italia del dopoguerra abbia avuto, insieme a Sergio Zavoli, Enzo Biagi, Oriana Fallaci, Gianni Brera, Tina Merlin e pochi altri. La sua ferma sicurezza nell’affrontare, sola, anche i più pericolosi assassini, la calma determinazione che incornicia le sue discese negli inferi della colpa, la capacità di chiedere, senza remore, anche le domande meno confortevoli, sono state per molti anni gli ingredienti perfetti che hanno consentito a Storie Maledette di esistere e durare nel tempo. Non sarebbe potuto esistere (e non esisterà in futuro) un programma di quel tipo senza Franca Leosini e le sue doti di giornalista.
Sono passati però 26 anni dalla prima puntata, e molte cose inevitabilmente sono cambiate. Oggi Storie Maledette è diventato una sorta di Leosini Show, dove tutto è funzionale ad alimentare il mito di Leosini, rendendo a tratti difficile persino la distinzione tra programma originale e le sue parodie. Un prodotto perfetto per questi tempi di “opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità ossessivo-compulsiva”, perché il consumo del programma oggi si esaurisce in questo ciclo: Franca Leosini intervista Sabrina Misseri, in carcere in quanto giudicata colpevole dell’omicidio della cugina Sarah Scazzi; nell’intervista Leosini ammicca all’intervistata definendola una “babbalona”; i fan saltano sul divano, la citazione precipita su twitter con i rispettivi hashtag, “babbalona” diventa un meme, #leosini diventa un trend topic trasversale ai social e il percorso biografico di Sabrina Misseri scompare nel nulla, ingoiato dalle viscere della voracità tecnologica.
Per cercare di capire cosa è cambiato tra la prima vita di Storie Maledette, quella di una effettiva indagine sul tema del “delitto”, e quest’ultima, dedicata esclusivamente all’esaltazione del mito Leosiniano, uno stratagemma utile è fare avanti e indietro tra le prime stagioni e le ultime, per annotare quali sono le principali differenze tra i due estremi di una linea temporale lunga 26 anni.
La prima differenza che salta agli occhi è l’espansione del protagonismo della conduttrice, che è anche misurabile. Nella puntata dedicata a Rita Squeglia, quarta puntata in assoluto e una delle più intense di sempre, Franca Leosini parla per circa 12 minuti su un’ora di trasmissione, coprendo quindi circa il 20% del parlato totale. Nella puntata con protagonista Celeste Saieva, andata in onda nel 2016, la conduttrice parla per circa 45 minuti in una puntata di un’ora e quaranta, coprendo il 45% del tempo totale. Una lievitazione del 125% che non può fare altro che schiacciare l’intervistato in uno spazio più angusto con una limitata possibilità di “spiegare” le proprie scelte.
L’operazione, dal punto di vista culturale, è rivoluzionaria. È la prima volta che l’autore di un reato viene mostrato così liberamente in tv.
Al di là della misurazione cronometrica, il cambiamento si nota anche negli strumenti che Leosini usa per condurre l’intervista: le domande sono sempre più chiuse, spesso richiedono solo di pronunciarsi con un “sì” o un “no”, sono sempre più frequenti forme retoriche tipo “lei se lo ricorda questo? Vuole che glielo ricordi io?”. È proprio nella puntata su Celeste Saieva che nasce la formula-tormentone “Questa non è una domanda, e quindi non esige una risposta”, che al di là della sua predisposizione alla viralità, rende conto della ristrettezza di movimento di chi sta dall’altra parte del tavolo, che subisce domande alle quali nemmeno può rispondere. Sono considerazioni che Franca Leosini precipita nel dialogo a due col condannato e che hanno al loro interno anche una “questione morale”, che all’inizio non c’era. Anzi, era proprio l’assenza di giudizio di fronte a un assassino che le consentiva di aprire un canale esclusivo di confidenza con l’intervistato e di portarlo a tirar fuori quei racconti che rendevano il programma così rivoluzionario.
Il secondo cambiamento che salta nettamente all’occhio è la sparizione del carcere e della condizione di detenzione, a favore di un non-luogo televisivo che altro non è che il regno metafisico della sua conduttrice-regina. La prima scena della prima puntata del 1994, dedicata al caso del catamarano Arx, è una ripresa caleidoscopica di sbarre del carcere accompagnata da un rumore assordante di chiavi e porte di ferro, con la scritta in sovraimpressione “Carcere di Busto Arsizio”. L’edificio carcerario è stato, nelle prime stagioni, il protagonista assoluto del contorno ai personaggi, gli intervistati avevano sullo sfondo le sbarre della cella illuminate in maniera realistica, senza chiaroscuri o profondità di campo, uno “smarmellamento” che restituiva l’inesorabile grigiore lineare degli istituti penitenziari.
La seconda puntata, ad esempio, dedicata a Patrizia Badiani, inizia con Franca Leosini in giacca pied-de-poule che parte da una strada deserta di Perugia, e che con una ripresa alla Fratelli Dardenne attraversa tutta la procedura dell’entrata in carcere, passando attraverso controlli, portoni, porte, lucchetti e sbarre, fino ad arrivare a guardare la sua intervistata dallo spioncino della sua cella. Nelle puntate di oggi il carcere è stato rimosso anche nella scenografia: non si vedono più sbarre e chiavistelli, rimane solo una combinazione di sfondi rossi in ombra intarsiati con dei tagli di luce blu obliqui e laterali. Gli intervistati non sono più in cella, ma vengono ripresi nei più ambigui “spazi comuni” delle carceri, come Rudy Guede che viene intervistato nella sartoria del carcere di Viterbo, spazio che nella quotidianità non frequenta. L’architettura penitenziaria viene occultata completamente oppure sfocata sullo sfondo dei primi piani ultra illuminati, e non compare più nemmeno nella sigla iniziale, dove le sbarre sono state sostituite da un aggregato di immagini stock: un orologio, un’automobile, un cavalcavia.
Un ulteriore fronte su cui il protagonismo di Franca Leosini si è espanso è l’introduzione al caso di puntata, che un tempo era affidata a una voce didascalica esterna che in modo descrittivo e obiettivo, incorniciava l’intervista all’interno del caso di cronaca di cui l’intervistato era protagonista. Oggi Leosini si è presa anche quello spazio, incalzando già dalle prime battute con la sua scrittura barocca e la sua voce ampollosa, abbandonando lo stile della cronaca nera a favore del romanzo rosa.
Rispetto alla scrittura dei testi, simboleggiati dall’immagine iconografica del “faldone”, è importante anche notare che quelle che oggi sembrano delle locuzioni irrinunciabili, le “Leosinate” delle quali la conduttrice fa un marchio di fabbrica, in passato non erano sempre presenti, o perlomeno non obbligatoriamente presenti e autoreferenziali come lo sono oggi. Erano uno dei tanti strumenti che lei utilizzava per strappare un’intimità con l’intervistato per poi andarlo a colpire quando il racconto giungeva ai suoi nodi più complessi (ad esempio, quando Leosini costringe una più che reticente Rita Squeglia a descrivere nei dettagli lo stupro che aveva subito a 19 anni). In alcuni casi le sue locuzioni arcaiche non erano presenti in quanto sarebbero state del tutto superflue, come nell’intervista a Mario Piergrossi, dove Franca Leosini, una volta capito che l’intervistato aveva un eloquio ancora più aulico e ridondante del suo, decide, con intelligenza, di starsene praticamente zitta e lasciare che l’intervistato faccia tutto da solo.
Per un programma con 26 anni di età, è difficile individuare un preciso momento in cui le cose sono cambiate; è lo storico di tutte le puntate a dare l’idea di un lento spostamento verso un formato Leosinocentrico. Se però dovessi individuarne una in cui è evidente lo scivolamento di obiettivo e prospettiva, direi che è la puntata con protagonista Soter Mulè, prima puntata della stagione 2012. Innanzitutto perché il caso non è un delitto, ma una semplice tragedia. Un gruppo di appassionati di Shibari, pratica sadomaso che prevede la legatura del corpo con delle funi, si infilano di notte a fare pratica in un garage alla Bufalotta a Roma, e una dei tre, Paola Caputo, rimane soffocata durante la pratica. Soter Mulè, il “legatore” del gruppo, non aveva alcuna intenzione di commettere un delitto, come confermano i tre gradi di giudizio che l’hanno visto colpevole soltanto di omicidio colposo. E infatti Franca Leosini non è interessata ad indagare le sue scelte, ma a fare domande pruriginose sulla pratica in sé, continuando a torchiare l’intervistato chiedendogli conto di dettagli scabrosi sul “bondage”, ripetendo quella parola in maniera ossessiva e quasi ridicola per tutta la puntata.
Per un programma con 26 anni di età, è difficile individuare il momento in cui è avvenuto un lento spostamento verso un formato Leosinocentrico.
È proprio guardando quella puntata che ci si rende conto che quello che alla fine rimane è un sentimento di simpatia nei confronti della conduttrice anziché di comprensione per uno sconosciuto che sta espiando la pena per un delitto commesso. Questo tipo di puntate, come altre, hanno contribuito ad una escalation di notorietà per Franca Leosini: sul palco di una delle serate gay più famose d’Italia, Muccassassina, nel 2013, è stata consacrata ufficialmente come “icona gay”. M¥SS KETA le ha reso omaggio su Youtube, e poi ci sono le ospitate sui palchi dei Gay Village, i gruppi facebook, gruppi telegram, cameo cinematografici nei panni di sé stessa, parodie su parodie, da quella di Paola Cortellesi su Rai1 fino all’ultima di Germana Pasquero agli Stati Generali su Rai3.
Sarà molto difficile che Storie Maledette possa, nelle stagioni a venire, tornare indietro. Da fan di Franca Leosini come la conduttrice che fu, penso che sarebbe di vitale importanza, però, tornare ad avere la detenzione carceraria e gli autori di un reato come protagonisti di Storie Maledette, perché se la condizione di detenuto e il processo di espiazione della pena erano assenti dal servizio pubblico negli anni Novanta, sembrano esserlo ancora di più ora, nel vortice dell’intrattenimento on-demand contemporaneo.
Se quello scenario è, come credo che sia, perso per sempre, sarebbe importante almeno recuperare una certa sobrietà dovuta alle storie che hanno a che fare con i delitti, con i morti ammazzati e le loro famiglie, con il peso che si porta dentro chi ha decenni per riflettere sulle proprie scelte sbagliate, e sulla fatica di una ripartenza tra le mura di un istituto di pena. Un’ultima vita di Storie Maledette che renda davvero omaggio alle capacità giornalistiche di Leosini, alle quali dobbiamo l’imprudente coraggio di aver accompagnato una nazione negli abissi di quello che non comprendiamo ma che comunque ci appartiene.