I ntorno a me c’è il Morbo Colera. Lo sai che belva terribile è questa? Purché non ci raggiunga qui a Boldino e non ci addenti!”. A scriverlo è Aleksandr Sergeevič Puškin, il 9 settembre del 1830. È iniziato l’autunno che si rivelerà il più prolifico per il poeta più influente nella storia della letteratura russa: in soli tre mesi, Puškin scrive Le piccole tragedie, I racconti di Belkin, innumerevoli poesie, nonché porta a termine il suo capolavoro, frutto di sette anni di lavoro, l’Evgenij Onegin, un romanzo in versi che Dostoevskij definì incarnazione letteraria della “vera vita russa, con una tale forza e con una tale compiutezza, quali mai ci furono prima o dopo Puškin”.
Scrive il teorico della letteratura Jurij Lotman nel suo Puškin, opera da cui sono tratte le citazioni qui riportate, che “nell’autunno di Boldino il talento di Puškin raggiunse l’apice del suo sviluppo. A Boldino si sentì finalmente libero”. Una libertà garantita però, paradossalmente, dalla quarantena, che non gli permetteva di tornare a Mosca. Nella campagna di Boldino il poeta era finito in realtà un po’ per caso, doveva sistemare dei documenti relativi ad alcune proprietà paterne; a Mosca sarebbe dovuto rientrare quanto prima, tra le altre cose anche per celebrare il suo matrimonio con la reginetta della scena mondana moscovita, Natal’ja Gončarova (la coppia divenne simbolo nell’immaginario russo ed è oggi monumentata sulla via del vecchio Arbat). L’epidemia di colera però sopraggiunge e il poeta è così costretto all’auto-isolamento in campagna.
Il 9 settembre Puškin scrive due lettere, una alla fidanzata e l’altra al suo amico ed editore Pletnëv: se alla prima confida rassicurante che nel giro di una ventina di giorni potrà di certo tornare a Mosca, al secondo non nasconde che non sarebbe affatto tornato prima di un mese. Commenta Lotman: “via via che il pericolo del contagio si avvicinava, egli rimandava il momento della partenza e cresceva il tempo che poteva dedicare alla poesia”. Ma come reagì Puškin all’isolamento, per di più giunto in autunno, la stagione da lui prediletta?
“Ah, mio caro! Com’è bella qui la campagna! Pensa: steppa, steppa, niente vicini; puoi andare a cavallo quanto vuoi, oppure te ne stai a casa a scrivere quanto ti piace, nessuno ti disturba. Sto già preparando un po’ di tutto, prosa e poesie”, scriveva a Pletnëv. La solitudine viene accolta con gioia da Puškin, che finalmente si sente recuperare il tempo che la vita moscovita, pur amata e ricercata, gli rubava alla scrittura e alla riflessione. Inoltre, “il senso del pericolo lo elettrizzava, lo eccitava e lo rendeva allegro”, annota Lotman. Alla moglie del governatore di Nižnij Novgorod che gli chiedeva se si fosse annoiato a Boldino, Aleksandr Sergeevič rispondeva “nient’affatto”. Come scriverà in una delle piccole tragedie scritte in quel periodo, Il banchetto al tempo della peste
Tutto che morte minaccia,
Al cuore mortale asconde
Inspiegabili piaceri.
Se Puškin è il padre della letteratura russa moderna – “è il nostro tutto” come ripetono i russi (un’affermazione gonfiata anche dalla retorica sovietica) – allora non stupisce forse che nel mondo russo, dove la letteratura conserva un prestigio novecentesco, la poesia si trasforma in cura, catarsi per i tempi difficili, duri, di isolamento, come il presente.
Ol’ga Berggol’c (1910-1975) era un figura di secondo piano della letteratura sovietica, ma un volto – o piuttosto una voce – diventata simbolo della resistenza durante l’assedio di Leningrado, durato 872 giorni (dal settembre del 1941 al gennaio del 1944: due anni, quattro mesi, due settimane e cinque giorni – un assedio superato solo da quello degli anni Novanta a Sarajevo, nella storia moderna). Ol’ga Berggol’c lavorava alla radio della città e ogni giorno leggeva versi che infondevano coraggio, amore, speranza ai concittadini affamati, disperati, ammalati, feriti – non era l’unica a farlo, ma la più ostinata. Non la fermò la morte del marito per inedia nel gennaio del 1942, né la propria distrofia progressiva. Nel 1943 fu insignita della medaglia d’onore per la difesa di Leningrado, una resistenza poetica.
A distanza di un anno dalla fine dell’assedio, insieme ad alcuni colleghi, Berggol’c curò il “radio-film” 900 giorni, in cui sono registrate le voci della radio, gli annunci dati dagli altoparlanti cittadini, ma anche la Sinfonia n.7 di Dmitrij Šostakovič, scritta dal compositore in parte durante l’assedio e dedicata proprio alla città. Nella vecchia capitale assediata l’orchestra del radiocomitato leningradese riuscì incredibilmente a interpretarla, il 9 agosto del 1942. Durante l’assedio molti musicisti erano morti, per cui si dovettero “arruolare” nuovi membri tra i cittadini comuni e, soprattutto, tra i militari.
La poesia che apparentemente, scriveva W. H. Auden, “non fa accadere niente”, è una forma di resistenza, di sopravvivenza – così in se stessa (immortala chi scrive), ma anche come mezzo (aiuta chi legge). E lo è in più modi. Il teorico formalista russo Viktor Šklovskij è passato alla storia per l’introduzione del concetto di ostranenie, straniamento, ovvero il “procedimento” base della lingua poetica. Lo straniamento è ciò che a parole “rende la pietra di nuovo pietra”, scriveva nel suo celebre L’arte come procedimento (1917). Il lettore di fronte alla poesia non riconosce, ma percepisce e conosce come per la prima volta, novello Adamo sulla Terra. E l’autore, come mette in atto questo tipo di conoscenza? Scriveva il romanziere Andrej Bitov (1937-2018), in merito alla prosa di Saša Sokolov, che “redigere un inventario lirico del mondo, in modo tale da farcelo ri-conoscere mentre lo abbiamo davanti, questa è evidentemente la funzione sociale del Poeta”; continuava: “svelare ciò che è già svelato a ognuno non è cosa da tutti. Questo è il vero scrittore” (dalla postfazione al romanzo La scuola degli sciocchi [1976], uscito nel 1989 in Unione Sovietica).
La poesia insomma permette una conoscenza del mondo sempre rinnovata; quando il mondo si allontana dalla quotidianità abituale – in situazioni belliche, durante catastrofi naturali o epidemie virali – il rifugio che offre la poesia è quello di un vocabolario, un manuale di sopravvivenza per reinterpretare noi stessi e ciò che ci circonda.
Avere uno sguardo “straniato” sul mondo è infatti forse un riflesso più automatico, comune in determinati periodi. La giornalista e scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievič ha più volte sottolineato la natura epocale, completamente nuova e destabilizzante della tragedia di Chernobyl, per descrivere la quale mancavano completamente le parole:
tutto era in apparenza uguale, ma allo stesso tempo morto. Le radiazioni fanno decadere le nostre capacità umane, nessuno dei cinque sensi ci permette di percepirle.
La giornalista impiegò non a caso undici anni per scrivere Preghiera per Černobyl’, per trovare letteralmente le parole. In russo esiste un vocabolo adatto per descrivere la sensazione provata dall’uomo davanti a simili situazioni: rasterjannost’, un sostantivo che nasce dall’unione tra il prefisso ras-, che indica una dispersione in più direzioni, e il verbo terjat’, perdere, smarrire. Potremmo tradurla come smarrimento, sbigottimento, perplessità, ma è più la sensazione di trovarsi a un tempo frantumati e sfrattati da noi stessi, completamente perduti, senza punti di riferimento davanti a qualcosa di inafferrabile. Ed è lì insomma, che si torna alla situazione adamitica ed eminentemente poetica, quando si cerca di conoscere e ri-conoscere il mondo attorno a noi, pezzo per pezzo.
Il giovane poeta e attore teatrale Egor Sal’nikov sottolinea come appena un anno fa la serie tv Chernobyl avesse inchiodato tutti davanti allo schermo, ma nessuno si aspettava che nel giro di poco tempo avremmo rivissuto nelle nostre città, e nelle vie di tutto il mondo lo stesso scenario. Lo ha fatto nel corso della seconda “maratona poetica” di dodici ore organizzata dal Museo Politecnico di Mosca lo scorso 24 aprile. Ventiquattro ore di poesia a ciclo continuo declamata in primo luogo da poeti e attori, ma anche giornalisti, cantanti, registi – cento voci che circa ogni quarto d’ora si sono susseguite trasmettendo in diretta dalle proprie case, con tutti i problemi di connessione del caso e con la comparsa di gatti, compagni e figli a mo’ di cameo nello schermo (le registrazioni sono disponibili sul canale YouTube del museo).
L’evento ha registrato oltre 860.000 visualizzazioni, complice sicuramente la fama di cui godono molti degli invitati. La prima puntata di questa maratona si è tenuta in una data non casuale, il 3 aprile, a 101 anni di distanza dalla serata organizzata nell’auditorium dello stesso museo dagli immaginisti, una delle più note correnti d’avanguardia degli anni Venti: lessero i propri versi allora Sergej Esenin, Anatolij Mariengof, Vadim Šeršenevič. Il Museo Politecnico nel corso del Novecento è stato infatti teatro delle più importanti, e spesso irriverenti, esibizioni poetiche; il suo palco è stato calcato da Vladimir Majakovskij, Anna Achmatova, Bulat Okudžava.
Oggi, nel pieno di una pandemia, è tornato un importante teatro della poesia contemporanea: alcuni tra i poeti intervenuti hanno addirittura proposto componimenti inediti, spesso legati nei temi alla realtà quotidiana della quarantena. Tra gli organizzatori della maratona spicca Andrej Rodionov, poeta e drammaturgo. Insieme alla collega Ekaterina Troepol’skaja, Rodionov è autore di una pièce intitolata Svan, un poema distopico, in cui in una riconoscibilissima Russia (chiamata Lebedjanija, ovvero Cignolandia) si vede introdurre un nuovo parametro per l’ottenimento della cittadinanza: la capacità di parlare in versi, comprovata da un esame di abilitazione. Dopotutto “la Russia – spiegano gli autori – è il paese dei poeti”.
Come un tempo, gli artisti si fanno riflesso dell’atmosfera in cui sono immersi, cercando di conoscerla e attraverso le parole farla ri-conoscere. Come ha affermato nel corso della maratona Oksana Vasjakina, poetessa e protagonista del femminismo russo contemporaneo, nell’auto-isolamento di oggi è la cultura a rivelarsi “la nostra migliore amica”. Nel contesto russo, dove la poesia non ha mai perso la sua rilevanza sociale – come accaduto altrove –, questa “amicizia” si è tradotta in innumerevoli iniziative sorte fin dall’alba della quarantena.
Una maratona simile a quella del Museo Politecnico è il minifestival, anch’esso virtuale, Corona-drama – una sfida alla chiusura dei teatri. Un gruppo composto da attori, drammaturghi e critici ha lanciato a fine marzo un concorso, aperto a tutti, di mini-drammi: quindici pagine al massimo. In appena dieci giorni i testi raccolti erano ottanta. Le migliori proposte sono divenute video-letture sperimentali ad opera di alcuni registi e attori, e trasmesse online, sulla piattaforma del progetto, il 25 aprile e il 2 maggio.
Sono tuttavia i social network a essersi mossi per primi, proponendo una forma di resistenza artistica al regime di auto-isolamento della quarantena. Igor’ Kotjuch, poeta estone di lingua russa, dall’inizio del mese di marzo colleziona giorno per giorno in forma antologica sulla sua pagina Facebook Est Lit Locus quelli che definisce “coronatesti”: si tratta di brevi componimenti sia in poesia che in prosa, dal serio al faceto, regalati a mo’ di post da scrittori, poeti, membri della realtà culturale russofona alla comunità del web. Raccogliendo una media di 45 “coronatesti” al giorno, oggi il corpus è ben nutrito. Il poeta russo Dmitrij Bobyšev ha scelto di aprire un gruppo Facebook allo stesso fine, Poesie al tempo della quarantena. Anche la giovane poetessa pietroburghese Stefanija Danilova (classe 1994) sta raccogliendo le produzioni poetiche scaturite in maniera spontanea ed eterogenea nel corso della pandemia; una volta superata la quarantena, la raccolta prenderà la forma di un libro. Ancora, dagli Stati Uniti il poeta russo Gennady Katsov gestisce il sito Coronaverse, nel quale ha raccolto i componimenti poetici di oltre ottanta poeti russi e russofoni, compresi quelli che vivono all’estero, in Europa, negli Stati Uniti, in Israele: tra loro, da Pisa, sotto lo pseudonimo di Stepan Frjazin, si nasconde anche lo slavista italiano Stefano Garzonio. Alcuni dei “coronatesti” raccolti in queste diverse piattaforme sono stati declamati proprio durante la maratona del Museo Politecnic; tra loro c’è Possiamo non fare niente, una poesia di Dmitrij Danilov ripresa da Est Lit Locus alla fine di marzo:
Possiamo non fare niente
È stato annunciato ufficialmente
È stato detto a tutti
Che possiamo non fare niente
Per la prima volta nella vita
Nell’intera storia della Russia
Nell’intera storia dell’Europa
Nell’intera storia
Della civiltà globale
Hanno preso e annunciato
Che possiamo non fare niente
[…]
In realtà
Va tutto bene
O meglio, no
Va tutto male
È tutto preoccupante
Abbiamo un problema serio
Lo abbiamo tutti
Ma lo supereremo
Certo lo supereremo
Occorre solo stare un po’ a casa
Mentre i dipendenti delle attività fondamentali
Devono lavorare, osservando
Le misure di sicurezza
E tutto in qualche modo si sistemerà
E tutto infine
Andrà, è certo,
Bene
A tutte queste iniziative della rete si aggiungono ancora incontri virtuali di più ampio respiro, legati al tema della pandemia, ma non solo, come quelli del progetto Rhizome o del Centro Voznesenskij. In maniera non dissimile ha reagito il Centro di Cultura e Lingua Russa di Roma, che ha lanciato un ciclo di incontri di letteratura e storia russa con alcuni professori ed esperti italiani.
È abusata, anche ora durante l’emergenza virale, quella trita citazione di Dostoevskij – “la bellezza salverà il mondo”; meno ricordata è però la definizione, più complessa e affascinante, che dà della bellezza il fratello Dmitrij nei Karamazov:
La bellezza è una cosa terribile e paurosa. Paurosa, perché è indefinibile […]. La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini.
L’arte e la poesia sono parte di questo mistero innominabile che ci innalza e tormenta.