E io per quale motivo sarei qui? Non mi piacciono né il postindustriale, né il postapocalittico. Ma per qualche assurda ragione un paio di volte al mese sono qui”, scrive Markijan Kamyš chiedendosi, come d’altra parte fa il lettore di Una passeggiata nella zona (Keller editore, traduzione di Alessandro Achilli), che cosa lo spinga ad addentrarsi nell’area contaminata dalle radiazioni di Černobyl’. Cosa lo porti d’inverno ad affondare da solo i passi nella neve, cosa a isolarsi e stordirsi di alcol sotto al cielo stellato nelle notti di primavera. Superata la paura del filo spinato e dei verbali della polizia, lo scrittore ucraino è entrato duecento volte nella Zona – ufficialmente vietata dalle autorità, ma dai confini porosi.
La ragione potrebbe essere biografica: “Mio padre era un liquidatore. È salito tre volte sul tetto del quarto blocco nel maggio del 1986, nel pieno dell’inferno, mentre stava ancora friggendo tutto. E non era un soldato sfigato, ma un ricercatore dell’Istituto di Fisica teorica. Lo mandava fuori di testa come i militari se ne sbattevano.” Sarebbe morto quando Kamyš aveva quindici anni. E lui, in poche righe, testimonia quel sacrificio: “Gli audaci liquidatori, con un cuore grande così, si occuparono dei rifiuti più sporchi del mondo, costruirono il sarcofago e se ne andarono dopo essersi presi le loro malattie”.
Dietro alla storia famigliare c’è evidentemente anche la necessità di confrontarsi con la tragedia della centrale nucleare, che ha segnato il nostro tempo e mostrato la degenerazione senza ritorno della volontà di potenza. “Il feticismo della radioattività è il supremo rituale d’iniziazione per la casta dei cretini”, avverte Kamyš. Il suo addentrarsi nei boschi, cresciuti a dismisura negli ultimi vent’anni, non ha nulla da spartire con la curiosità famelica delle folle dei turisti, definiti “ufficiali”, che anelano a ridurre quella realtà a un souvenir: “Fra un centinaio d’anni i simulatori insceneranno il giorno prima dell’incidente, gli ultimi attimi di gloria della Polissja in tutto il suo splendore. In una Prypjat’ minuziosamente ricostruita organizzeranno una festa della portata del Truman Show. Il turismo di massa nel passato è il futuro delle agenzie di viaggi. Welcome”. Dopo la messa in onda della serie televisiva prodotta da HBO, non a caso, si è registrato un boom nelle richieste di viaggio.
La ricerca di Kamyš si muove su altri binari, ricerca l’opposto di quella desolazione, il contrario delle tracce della tragedia. Tra i villaggi dimenticati, le case abbandonate dell’area di frontiera, gli angoli più remoti della zona di esclusione, si lascia sorprendere da una Chiesa ortodossa, che si erge nel nulla, col pavimento pulito, il breviario per le preghiere e la cassetta delle offerte. Kamyš sostiene che è l’unica cosa della Zona ad avere un futuro, grazie alla speranza e la sensibilità che sa infondere. Nel suo libro, contemporaneamente memoir, reportage e romanzo, l’autore coglie con gratitudine ogni stralcio di luce nelle paludi e nelle tenebre di Černobyl’. La notte del 26 aprile 1986, quando una prima serie di esplosioni distrussero il reattore e il fabbricato della quarta unità della centrale elettronucleare, Kamyš non era ancora nato, sarebbe venuto al mondo due anni più tardi. Tornare in quei luoghi per lui significa sottrarsi al silenzio del potere che permane ancora oggi, e impegnarsi a custodire e restituire le voci superstiti, ma sono soprattutto le descrizioni (una miniera di dettagli), a evidenziare l’impegno dello scrittore a cercare la bellezza dove sembrerebbe impossibile: “Alla fine siamo arrivati a Lub’janka, l’oasi della vecchia Zona, dove aleggiano ancora gli spiriti delle vecchie che sono morte, dove ci sono ancora gli orologi sulle credenze, che però non ticchettano più, dove si possono ancora vedere cose come vasi e scarpe ordinatamente riposti in corridoio. Qui la morte e distruzione non sono ancora arrivate, a parte il vuoto, le sedie a pezzi e le finestre rotte.”
Si stima che l’evento funesto di Černobyl’ sia costato la vita a un milione e mezzo di persone. Le conseguenze continuano a propagarsi e, come all’epoca del disastro, le informazioni attendibili sono centellinate. Le voci di chi è rimasto sono fonti preziose, come quelle che Svetlana Aleksievič ha reso immortali in Preghiera per Černobyl’ : “Io col mio bastone cammino ancora. A fatica, ma vado. Se mi prende la malinconia, piango un po’ e mi passa. Il villaggio è vuoto…Ma ci sono uccelli d’ogni tipo… Che volano… E capita di vedere un alce che passeggia come niente fosse…(piange)”. A parlare così, nel libro di Aleksievič, è la signora Zinaida Kovalenko, residente non autorizzata. Černobyl’, sostiene Aleksievič, è un enigma che dobbiamo ancora decifrare, un compito e una sfida del Ventunesimo secolo. Riguarda ciò che l’uomo ha appreso, intuito, scoperto su sé stesso e sul proprio atteggiamento nei confronti del mondo. È lo stesso mestiere di Kamyš: la ricostruzione non degli avvenimenti, ma di una percezione collettiva mutata.
Il più grande disastro tecnologico del Novecento, che Kamyš indaga a un livello intimo, oggi più di ieri nell’esplosione della pandemia interroga chiunque. La prima domanda è: dopo Černobyl’ ci siamo davvero resi conto di vivere in un mondo diverso da quello precedente? Che cosa ha cambiato nella nostra percezione della vita e della morte, della memoria e del senso umano di onnipotenza? Qual è la civiltà nata da quella incrinatasi a Černobyl’? Le questioni, le impressioni e i sentimenti sembrano tutti ripresentarsi, mentre tocchiamo nuovamente con mano una condizione ignota, che ci ha colto impreparati. Come ricorda Aleksievič, accanto ai reattori in ebollizione gli scienziati armeggiavano in abiti civili senza maschere. Parte del personale medico negli ospedali e nell’iniziale assistenza ambulatoriale è stato chiamato a fronteggiare l’ondata iniziale dell’epidemia causata dal Coronavirus senza gli adeguati protocolli e le protezioni essenziali attivate. Dall’alba del contagio solo in Italia ad oggi sono morti più di 150 medici, e chi opera nelle strutture ospedaliere è stato sottoposto a uno stress psicologico inedito e pesantissimo.
Come era accaduto nel 1986, la morte ha una faccia nuova, che ignoravamo e con la quale siamo destinati per un periodo probabilmente abbastanza lungo a trattare, a interagire assumendo gli unici e pesanti strumenti di precauzione noti. Tra i quali rientra la militarizzazione della convivenza sociale. Aleksievič si sofferma anche su questo aspetto con l’ironia che spesso la contraddistingue: “Intorno a noi soldati con il mitra imbracciato. Perché a chi dovevano sparare? Alla scienza? Alla fisica?” Dopo Černobyl’ un quinto dei bielorussi si è riabituato a convivere in aree contaminate. Sono scomparse circa cinquecento cittadine e un terzo del ricco patrimonio boschivo e forestale sta in quelle zone. Tra le pagine più intense di Preghiera per Černobyl’ c’è il racconto della moglie del vigile del fuoco Vasilij Ignatenko. Ljudmila sfida le autorità e il distanziamento necessario a evitare il contagio delle radiazioni, che segnano l’agonia del marito intervenuto nell’ora della tragedia, perché è disumano pretendere di seppellire un amore a distanza. Nelle ultime settimane invece questo è accaduto di continuo, siamo stati costretti a percepire il dolore chi si spegne in solitudine senza la vicinanza delle persone amate.
La riflessione di Aleksievič e Kamyš permette di ragionare su tre nodi fondamentali: l’impatto e l’influenza dei mezzi di comunicazione, la questione politica del “noi – loro”, il sentimento della paura. La scrittrice, riferendosi al gravissimo incidente avvenuto nel marzo del 2011 nella centrale nucleare di Fukushima, sottolinea come i media odierni ci consentano di assistere pressoché in diretta agli eventi epocali. Ma questo contatto e le sensazioni derivanti sono reali fino se non li sentiamo sulla nostra pelle? L’equazione “accade davanti agli occhi, tocca anche noi” non sembra essere tale anche nello stesso paese. In questi giorni ricorrono le parole dei principali esponenti politici, non soltanto italiani, che ancora alla fine di febbraio, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza in Italia, chiedevano di non fermarsi. Nei telegiornali avevamo visto le immagini del silenzio di Wuhan e le nostre bacheche virtuali si erano riempite con ammirazione e qualche sgomento dell’eco delle voci delle persone rinchiuse nelle case. “La paura dell’atomica ha reso il mondo ancora più piccolo. Il vecchio lessico della politica, ‘lontano – vicino’, non ha più alcun senso”, asserisce Aleksievič in Preghiera per Černobyl’. Eppure fino a quando il contagio è deflagrato in casa ogni nazione ha esorcizzato il pericolo, volendo credere che i rischi connessi appartenessero a mondi lontani che in realtà distano poche ore di volo. Il libro di Kamyš, a sua volta, esplora le paure con le quali ci stiamo misurando. Tra i ricordi di chi è nato nella seconda metà degli anni Ottanta, mediati dal racconto dei genitori, c’è il lavaggio della spesa alimentare. Qual era il livello di contaminazione dei frutti della terra? Oggi tra le principali indicazioni fornite dall’Organizzazione mondiale della Sanità c’è il medesimo accorgimento.
Negli ultimi due anni Kamyš ha lavorato in isolamento al nuovo romanzo, che tocca una questione attualissima come gli incendi, il taglio e il trasporto illegale di legname in Ucraina. Ed è un testimone d’eccezione per ricostruire l’evoluzione dei roghi che dall’inizio di aprile hanno devastato dodicimila ettari della foresta limitrofe alla centrale. Dopo le fiamme è stato registrato un picco delle radiazioni nell’area. Come trentaquattro anni fa, i vigili del fuoco, circa mille, e volontari sono schierati in prima linea. “Viviamo la stessa emergenza che ha colpito l’Australia”, spiega lo scrittore a Il Tascabile: “I pompieri hanno lavorato per molte settimane, aiutati dalla pioggia. Non abbiamo invece bisogno dell’aiuto della Russia. L’ultimo impero europeo sogna di avvicinare le proprie autopompe antincendio e poi i carro armati a Kiev. Non potranno strumentalizzare questa situazione ai danni dell’indipendenza ucraina”.
Le fiamme non hanno distrutto l’intera flora di quella che Kamyš definisce l’Amazzonia europea. La nube nera ha oscurato il cielo di Kiev a metà aprile. Sono stati inceneriti i ruderi di circa venti dei cento villaggi della Zona. Secondo le rilevazioni di Greenpeace ha bruciato il 22% della superficie boschiva. Tre dei focolai più violenti continuano ad ardere, tra i quali uno a quattro chilometri dal sarcofago. Il rischio consiste nell’inalare le sostanze radioattive accumulate dalla foresta e sprigionate dal fuoco. Le particelle che viaggiano con il vento più tossiche e pericolose sono quelle di plutonio. La presenza di piromani e gli incendi sono divenuti una costante, ma non si erano mai estesi in questo modo. “Nella Zona tutti pensano si tratti di una serie di incendi dolosi molto strani, che è difficile attribuire semplicemente ai piromani, i quali certamente hanno delle responsabilità. In modo sospetto però gli incendi si propagano anche in altre aree del paese. È un fattore della guerra ibrida che la Russia sta conducendo contro gli ucraini, e anche regolatore dei conflitti interni tra politici, funzionari pubblici e uomini d’affari per affossare un luogo o un business come il turismo”, spiega Kamyš.
Lo scrittore si ripromette di tornare presto nella foresta: “Sì, ritornerò nella Zona anche se al suo posto fosse solo quel che resta di una conflagrazione. La Zona vive nel mio cuore, qualunque cosa accada. Esistono ancora dozzine di villaggi, chiese abbandonate, la città di Pripyat, il radar di Cernobyl 2, risparmiate dalla nuova distruzione”. Kamyš, come un archeologo del nostro tempo, continuerà ostinatamente a mostrarci i resti del muro dove si sono schiantate le certezze e la presunzione di poter controllare tutto.
Tutte le foto sono di Markijan Kamyš nella Zona di esclusione di Černobyl’, per gentile concessione dell’autore, tranne la prima e l’ultima, ad opera di ©Oleg Paskar.