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ragedia contemporanea? Romanzo borghese? Umorismo novecentesco? Quale sia il carattere più profondo del romanzo I baffi di Emmanuel Carrère non è semplice da dire con certezza, soprattutto per la destrezza e la fluidità con le quali lo scrittore francese ha sempre dimostrato di sapersi muovere tra i vari generi letterari. La nuova traduzione di I baffi, a opera di Maurizia Balmelli e pubblicata dalla casa editrice Adelphi, riporta l’attenzione su uno spazio dell’opera di Carrère forse meno frequentato dal grande pubblico, quello dello scrittore di fiction, di storie che non hanno a che vedere con la sua biografia o con le vite di altri per parafrasare un suo importante titolo. Di queste ultime due tipologie Carrère è sicuramente un maestro, basti pensare al racconto autobiografico di Il regno, ultimo libro pubblicato nel 2014, alle vicende di Limonov o appunto a Vite che non sono la mia, racconto dello tsunami in Sri Lanka del 2004 in cui si inseriscono alcuni momenti centrali della vita dello scrittore (e già l’incipit è abbastanza significativo, oltre che iconico, “La notte che precedette l’onda ricordo che io e Hélène abbiamo parlato di separarci”). Ma Carrère è anche narratore puro di storie d’invenzione, come nel suo primo romanzo L’amie du jaguar, pubblicato nel 1983, oppure in La settimana bianca, terrificante storia della percezione del male attraverso gli occhi e la mente del bambino Nicolas.
A questo gruppo di narrazioni appartiene anche I baffi, breve romanzo di ambientazione borghese che racconta l’epopea del protagonista dal momento che decide, per curiosità e per divertimento, di tagliarsi i baffi che ha sempre portato. Ecco che allora, dopo aver ricevuto l’approvazione della moglie, poco dopo uscita per fare la spesa, il protagonista procede in questa operazione destinata a modificare, seppure temporaneamente, il suo aspetto. Nei pochi minuti in cui è solo il protagonista indugia, si interroga, scherza sui suoi baffi, sembra anche ripensarci per un momento, finché alla fine non decide di procedere:
Con la foga gioiosa di chi incarta un regalo all’ultimo momento, stese la crema da barba sulla zona da tosare. Il rasoio stridette, strappandogli una smorfia. Eppure non si era tagliato. Caddero nella vasca altri fiocchi di schiuma. In breve tempo il labbro superiore fu ancora più liscio delle guance, un ottimo lavoro.
Eppure il tempo di questa occupazione quotidiana sembra assumere immediatamente un valore straordinario, perché quei sei-sette minuti di rasatura si trasformano nell’inizio dell’epopea del protagonista: quando infatti la moglie Agnès torna a casa non si accorge di nulla, come per nulla sorpresi sembrano essere gli amici Serge e Véronique da cui si recano a cena, gettando così il protagonista nello sconforto, in una ricerca ossessiva sulla sua vera identità.
Da questa esile trama, ancora segno della grande abilità narrativa di Carrère, maestro nel ricamare storie complesse da elementi basici, comincia infatti un viaggio psicotico del protagonista che lo porta a mettere in dubbio ogni cosa, fino a dubitare della sua stessa esistenza: ma si tratta di un’incertezza ancor più problematica, che non trova un semplice incasellamento neanche nella pazzia, che a un certo punto si presenta al protagonista come un luogo in cui trovare una più semplice spiegazione: “Di fatto, quali ipotesi aveva preso in esame? Primo, era pazzo. E questo, in realtà, anche se le apparenze deponevano a suo sfavore, sapeva che non era vero. Segno di follia, certo, si può sempre dire così, ma no, no, i suoi ricordi erano davvero troppo precisi”. Al lettore sembrerà di rivivere alcune delle angosce delle pagine di Kafka, ma qui non è la Giustizia, con tutti i suoi risvolti teologici ed esistenziali, ad apparire inconoscibile e spalancare le porte dell’oscurità, qui ciò che è in gioco direttamente è l’identità stessa dell’uomo.
Si diceva poco sopra delle forme molteplici e complesse che assume l’opera di Carrère: I baffi infatti sembra suggerire quel tipo di lavoro letterario che non permette allo scrittore di accontentarsi di concentrare la propria attenzione su una sola delle sue ossessioni. In questo romanzo infatti fanno continuamente capolino le fissazioni e gli assilli dell’autore e così al lettore resta la possibilità di provare a metterli in fila e intraprendere un’indagine sulle loro diverse declinazioni in cerca di un denominatore comune. Pur avendo concentrato la sua attenzione su soggetti molto diversi tra loro, storie d’invenzione e personaggi viventi o che sono esistiti, Carrère attraverso questo romanzo ci porta infatti a interrogarci ancora su quale sia il fine più profondo della sua opera suggerendo una possibile chiave interpretativa unitaria. Quella che resta una delle cifre caratteristiche del suo lavoro, forse la maggiore, è il tentativo di comprendere la natura umana: per perseguire questo fine lo scrittore utilizza la materia letteraria plasmandola nelle sue forme ibride e diverse, scegliendo una modalità che certo si conviene alla nostra epoca frammentaria e impossibile da ridurre all’unità. Un’operazione complessa provare a conoscere la natura umana, un tentativo che sembra essere continuamente sull’orlo del fallimento: eppure, accostando le differenti prove di Carrère, si ha l’impressione di poter intravedere un disegno univoco, immaginare una certa unità.
La vita sregolata e le diverse incarnazioni di Limonov, la vita vera e quella immaginata di Philip K. Dick in Io sono vivo, voi siete morti, il racconto della propria vita attraverso un confronto con il mondo cristiano del primo secolo in Il regno, sono tutte storie che mirano ad avvicinarsi alla conoscenza del mistero umano. E la stessa forza muove anche I baffi, libro che, indagato da questo punto di vista, trova un corrispettivo nelle vicende di L’avversario, in cui Carrère racconta la storia di Jean-Claude Romand, assassino della sua stessa famiglia. Pure in quel caso, anche se in maniera ancor più spaventosa perché lì si tratta di una storia vera, il protagonista si ritrova a vivere una vita divisa, due esistenze diverse, quella reale che solo lui conosce e quella inventata che invece conoscono le persone della sua famiglia, quella di un disoccupato che si trova a trascorrere le giornate in macchina e quella di un famoso e stimato medico. La storia di L’avversario portò Carrère, che conobbe Romand attraverso una serie di colloqui, a chiedersi cosa si muovesse nella sua testa, come potesse essere sopportabile una vita falsa come quella e se la confusione tra i due piani lo avesse mai portato a credersi davvero ciò che non era:
quando restava solo, si trasformava in un automa capace di guidare, camminare e leggere, ma non di pensare né di provare sentimenti, un dottor Romand residuale e anestetizzato. Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean Claude Romand.
Romand scivola inesorabilmente verso un tragico smarrimento della sua identità, così come accade al protagonista del romanzo I baffi.
I baffi sembra contenere alcuni macroscopici rimandi all’opera di Luigi Pirandello, uno su tutti pare collegare il suo personaggio al Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno, centomila, il figlio di un ricco banchiere che dopo la scoperta del suo naso leggermente storto (“Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra”) vive una svolta esistenziale, uno strappo che lo porta a dubitare di se stesso e, soprattutto, a indagare le discrepanze tra il modo in cui lui si vede e quello in cui lo vedono gli altri. Anche per il protagonista del romanzo di Carrère le convinzioni riguardo la sua identità si sgretolano pian piano e così si fa sempre più furiosa la sua ricerca, che lo porta a viaggiare, a muoversi da Parigi, in un itinerario che però sembra essere dettato da un fisiologico desiderio di fuga da un mondo che sta crollando. Un romanzo sull’identità dunque, ma anche sulla relatività delle percezioni: “crollate le vecchie norme, non ancora sorte o ben stabilite le nuove è naturale che il concetto di relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l’estimativa” scrive ancora Pirandello, questa volte in Arte e coscienza d’oggi, più di un secolo prima di Carrère, ma illustrando le stesse forze che muovono l’animo del protagonista di questo romanzo. Le parole di Pirandello sono il racconto della crisi del nostro tempo, uno spaesamento che nasce nel Novecento e ancora non si spegne. È questa un’altra delle caratteristiche dell’opera di Carrère, capace di continuare a rappresentare la disgregazione della realtà e lo smantellamento del concetto di unità dell’individuo, un individuo che allora in maniera quasi schizofrenica, come il Limonov raccontato dallo scrittore parigino, si muove in cerca di una impossibile uniformità.
Cercare dunque una risposta alla domanda iniziale sulla natura di questo formidabile romanzo di Carrère potrebbe farci scivolare nella stessa situazione paradossale che segna il protagonista, meglio allora abbandonarsi al flusso narrativo fino a perdere le proprie coordinate e rimanendo, come la grande letteratura riesce a fare, con una serie di interrogativi insolubili, specchio del nostro fallace tentativo di possedere il mondo.