N ei due mesi di lockdown, sui social abbiamo contemplato le immagini di alberi e verde urbano che si impossessavano dello spazio delle nostre città, testimoni imperturbabili dei cicli della vita, di un tempo che si conta in stagioni e in anni, invece che in minuti, giorni e ore. Il nuovo interesse per il mondo vegetale non è però una fascinazione degli ultimi mesi. Basta guardare al numero di libri dedicati a botanica e dintorni per soppesare questo “risveglio”: tra guide illustrate, esplorazioni che mescolano botanica, arte, letteratura e divulgazione scientifica, si contano ormai decine di pubblicazioni solo negli ultimi anni. Ai libri di Stefano Mancuso, fisiologo vegetale e professore all’Università di Firenze, noto anche al grande pubblico per la sua ormai ingente produzione divulgativa dedicata al tema (gli ultimi suoi titoli sono La nazione delle piante e L’incredibile viaggio delle piante), si possono aggiungere Mirabilia, Erba volant, Le piante son brutte bestie del botanico e divulgatore Renato Bruni, La resilienza del bosco di Giorgio Vacchiano. E poi: Abbracciare gli alberi di Giuseppe Barbera, oppure Alberi sapienti, antiche foreste di Daniele Zovi – ma è una lista molto lunga, che deve tener conto anche della narrativa – Il sussurro del mondo di Richard Powers, il romanzo premio Pulitzer nel 2019, ha come protagonisti gli alberi – la filosofia – per il Mulino La vita delle piante, di Emanuele Coccia – e opere ibride come quelle pubblicate da nottetempo (tra cui Forest Law / Foresta giuridica di Paulo Tavares e Ursula Biemann, e Il giardino di Derek Jarman).
Insomma, quella che forse all’inizio poteva essere scambiata per una anomalia editoriale sta diventando un nuovo sguardo di ritrovata attenzione per la natura vegetale che sembra ormai ben intessuto nelle fibre dello spirito del tempo, e forse la crisi ambientale (e quella del virus) stanno solo rinsaldando questo nuovo interesse. Ma da dove è nata questa idea che la vita vegetale sia un oggetto degno di considerazione? E come è circolata al di fuori dell’ambiente scientifico per diventare materia di narrativa e fiction?
Basta guardare al numero di libri dedicati a botanica e dintorni per soppesare questo “risveglio”, tra guide illustrate, esplorazioni che mescolano arte, letteratura e divulgazione scientifica.
Parte tutto da una scintilla scientifica: negli ultimi anni la botanica, storicamente “cenerentola” della biologia per ruolo (e finanziamenti), ha iniziato una sorta di piccola riscossa. Nuovi studi hanno prodotto una mole di evidenze sperimentali, individuando aspetti sorprendenti della fisiologia delle piante. Hanno descritto per la prima volta i meccanismi biochimici con cui alberi e piante sono in grado di percepire segnali provenienti dall’ambiente, per esempio, elaborarli e mettere in atto strategie di adattamento. Questi studi, dai risultati in parte inaspettati, hanno contribuito alla nascita di un filone di ricerca in cui si è cominciato a usare un linguaggio prima riservato quasi esclusivamente al mondo animale. Nel campo hanno fatto così il loro ingresso termini e attributi come “comportamento”, “percezione”, “comunicazione”, “apprendimento”, e poi perfino intelligenza o coscienza.
A voler essere rigorosi, questo nuovo sguardo della scienza sul mondo vegetale non è neanche una novità assoluta degli ultimi tempi. Nel 1902, per esempio, il fisico e biologo indiano Jagandish Chandra Bose (più noto per i suoi esperimenti con le onde radio) trattò la pianta del ravanello con il cloroformio, e vide che smetteva di rispondere alle vibrazioni. “Si addormentava” nello stesso modo in cui lo fa un animale sottoposto ad anestesia. Per parecchi decenni in pochi si sono avventurati per questa strada, e i primi studi che mostravano qualche forma di comunicazione o intelligenza delle piante sono stati accolti con scetticismo quando non apertamente ridicolizzati. Il campo di studi aveva comunque già sommato una piccola mole di risultati da attirare l’attenzione della divulgazione scientifica. È del 1978 il documentario La vita segreta delle piante (da un libro con lo stesso titolo del 1973), che racconta “come le piante gioiscono o provano dolore, e come lo comunicano”.
Agli inizi degli anni Ottanta, alcuni studi mostrarono che certi alberi, come il salice, il pioppo o l’acero, sembrano in grado di “avvertirsi” l’un altro di minacce in corso: gli alberi che crescono accanto a una pianta infestata da insetti cominciano a produrre sostanze chimiche repellenti proprio per quei parassiti, come se un albero avesse comunicato agli altri il pericolo.
Nel 1902 il fisico e biologo indiano Jagandish Chandra Bose trattò la pianta del ravanello con il cloroformio, e vide che smetteva di rispondere alle vibrazioni: “si addormentava”.
Forti critiche metodologiche a queste ricerche, etichettate sarcasticamente come indagini sugli “alberi parlanti”, misero in forte crisi questo genere di studi. Alcuni anni dopo, nuove ricerche confermarono però che la comunicazione tra le piante non era una fantasia: segnali chimici rilasciati dalle foglie riescono ad attivare geni che inducono una risposta difensiva nelle piante vicine.
Pian piano, ne è nato un vero e proprio campo di studi, consacrato alla fine in una disciplina per cui i pionieri del settore hanno coniato il nome di “neurobiologia vegetale”. La loro visione è condensata in un articolo del 2006 – Plant neurobiology: an integrated view of plant signaling, co-firmato da Stefano Mancuso – che può esserne considerato il manifesto e il fondamento. Di fatto, oggi si può considerare assodato che le piante percepiscono l’ambiente circostante (alcune piante riescono a comportarsi come camaleonti, adattandosi a colori e forme delle piante nelle vicinanze, altre sembrano in grado di reagire ai suoni); si muovono (le acchiappamosche in modo rapidissimo, la maggioranza impercettibilmente); hanno preferenze (le radici avanzano verso l’acqua); comunicano e hanno relazioni (rilasciano sostanze chimiche attraverso radici, rami e foglie); ricordano (per fare un esempio, la sensitiva, Mimosa pudica, smette di arricciare le foglie in forma difensiva quando “ha imparato” che la caduta del vaso in cui si trova non è pericolosa).
Ma come definire questi comportamenti? Si tratta di “intelligenza” o addirittura di “coscienza”? Se i dati su cui si fonda la neurobiologia vegetale non sono più in discussione, il dibattito si è così spostato sul piano filosofico. È insomma questione di parole e di concetti, più che di dati, di come vogliamo o possiamo definire l’intelligenza delle piante in relazione a quella animale (e alla nostra).
Pian piano, ne è nato un vero e proprio campo di studi, consacrato alla fine in una disciplina per cui i pionieri del settore hanno coniato il nome di “neurobiologia vegetale”.
Le piante “sono una forma di vita diversa, né più semplice né meno sviluppata di quella animale” scrive Mancuso nell’Incredibile viaggio delle piante. E se intelligenza significa essere capaci di percepire l’ambiente che ci circonda, adattarsi ai suoi cambiamenti, comunicare, avere relazioni sociali, muoversi, conquistare nuovi spazi, allora sì, sono anche intelligenti. Insomma, ci sorprendiamo ma non dovremmo, come sottolinea Carlo Umiltà nella presentazione al volume La mente della piante – Introduzione alla psicologia vegetale di Umberto Castiello (il Mulino): in fondo, i destini evolutivi di piante e animali hanno iniziato a dividersi 800-500 milioni di anni fa. Non è un tempo così lungo, se rapportato all’inizio della vita sulla Terra, 3,5 miliardi di anni fa. “Condividiamo la biologia non soltanto con le scimmie e con i mammiferi, ma anche con le rose e le querce”. E se i comportamenti e i “processi cognitivi” delle piante sono diversi da quelli degli animali, non per questo sono inesistenti.
Erasmus Darwin, fisico e inventore, nonno del padre della teoria dell’evoluzione, nel componimento poetico Loves of the plants raccontava di violette malate d’amore, primule gelose e rose che arrossivano. Anche alcuni scienziati oggi sembrano ritenere che un certo linguaggio che “umanizza” le piante sia forse la sola maniera per richiamare l’attenzione sul mondo vegetale, e supplire alla scarsa consapevolezza e stima della sua importanza per la vita sul pianeta.
“Percependo le piante come molto più prossime al mondo inorganico che alla pienezza della vita, commettiamo un fondamentale errore di prospettiva, che potrebbe costarci caro” scrive sempre Mancuso ne La nazione delle piante. L’unica soluzione, argomenta, è dunque parlarne con categorie umane, e osservare i risultati sorprendenti che si ottengono da questa prospettiva. Improvvisamente, “la Nazione delle Piante, con il suo tricolore verde, bianco e blu (sono i colori del nostro pianeta e dipendono dalla presenza delle piante), rappresenta la più popolosa, importante e diffusa nazione della Terra (soltanto gli alberi sono oltre 3000 miliardi)”.
Mancuso propone di parlare delle piante usando categorie umane, e osservare i risultati sorprendenti che si ottengono da questa prospettiva.
C’è chi va oltre. Monica Gagliano, ricercatrice all’Università di Sidney, non esita a raccontare esperienze, per esempio “conversazioni” con gli alberi (una quercia l’avrebbe rassicurata sul fatto che la sua domanda di fondi per una ricerca avrebbe avuto successo), che di sicuro fanno alzare qualche sopracciglio, e non solo agli scienziati. “Le piante non hanno una coscienza, e non ne hanno bisogno” hanno intitolato un recente articolo sulla rivista Trends in Plant Science alcuni ricercatori criticando l’impianto concettuale della neurobiologia vegetale. Se si considerano i requisiti minimi da un punto di vista anatomico e funzionale, diventa estremamente improbabile che le piante possano esserne dotate. In parole povere, gli organismi vegetali non possiedono strutture neppure alla lontana paragonabili a un sistema nervoso e a un cervello. E, oltre ai vertebrati (inclusi i pesci), gli unici animali che secondo gli autori soddisfano i criteri di base per l’emergere della coscienza possono essere considerati gli artropodi (insetti e ragni) e i cefalopodi.
Nonostante il tono, il linguaggio, e i significati filosofici con cui presenta le sue ricerche, però, i lavori scientifici di Gagliano sono guardati con rispetto dagli esperti del settore. Uno dei più famosi è proprio quello della Mimosa pudica (co-autore Stefano Mancuso) che “impara” a non arricciare le foglie in forma difensiva dopo un certo numero di cadute del vaso, citato in precedenza.
Comunque sia, dal mondo della ricerca scientifica, questa nuova (e in parte ritrovata) concezione delle piante è percolata nel settore delle scienze umanistiche, dalla filosofia alla narrativa. Parlare di intelligenza, altruismo, perfino coscienza delle piante le ha rese un oggetto molto più facile e coinvolgente da raccontare al pubblico.
Secondo il filosofo Michael Marder, si può arrivare a parlare di coscienza delle piante, sebbene con la consapevolezza che non può essere la nostra.
Il filosofo Michael Marder, autore di Plant Thinking: A Philosophy of Vegetal Life, è stato uno dei primi a interessarsi del modo di essere della vita vegetale, da sempre al margine dei margini della riflessione filosofica occidentale, e del tutto trascurata da un punto di vista etico, per provare a elaborarla concettualmente. Anche se non sapremo mai che cosa significa “essere un albero”, secondo Marder dovremmo imparare ad apprezzarne, invece che a ignorare, la loro radicale alterità rispetto a noi. In questo senso, diventa lecito, e neppure troppo stravagante, parlare di coscienza delle piante, sebbene con la consapevolezza che non può essere la nostra. Emanuele Coccia – che tra l’altro ha un diploma di perito agrario, e quindi conosce da vicino l’oggetto delle sue riflessioni filosofiche – propone una vera metafisica delle piante: la vita vegetale, così apparentemente indifferente a tutto ciò che definiamo cultura, è per lui il fondamento e la sostanza del mondo, non un suo accessorio. “La botanica non è solo una scienza particolare: è un sapere privilegiato sul legame più stretto ed elementare che la vita possa stabilire con il mondo”, scrive.
Le piante hanno prodotto il mondo come lo conosciamo e lo abitiamo, e lo mantengono in vita. Già Alexander von Humboldt, pioniere della scienza dimenticato e ultimamente riscoperto, parlava più di duecento anni fa della natura come di forza globale, da comprendere anche attraverso l’immaginazione e l’intuizione. Quel che Humboldt diceva del genere umano, folle al punto di devastare il suo pianeta e, se solo ne avesse la possibilità, perfino stelle e pianeti lontani, non è lontano dal pensiero e dai toni di Greta Thunberg: il suo approccio interdisciplinare, le sue intuizioni sulla stretta connessione tra questioni sociali, economiche e politiche e i problemi ambientali sono tornate di strettissima attualità. L’emergenza sanitaria che ha sconvolto in modo impensabile le vite di tutti noi ha un legame forte e innegabile con la perdita di natura e la distruzione degli ecosistemi.
Le motivazioni scientifiche si sono saldate con quelle filosofiche. La crisi ambientale probabilmente ha prodotto i primi cambiamenti. Quella di salute, che preoccupa tutti e da vicino, ha dato uno scossone più forte. Ed ecco che improvvisamente abbiamo iniziato a fare caso agli alberi. Li abbiamo sempre avuti vicini, ma ora ci appaiono diversi.