I l 20 aprile scorso, con il crollo della domanda internazionale conseguente al lockdown per il contenimento del coronavirus, il prezzo del petrolio è diventato negativo per la prima volta nella storia. Solo una settimana prima, i Paesi produttori avevano raggiunto un tormentato accordo d’emergenza per tagliare drasticamente la produzione, ma non volendola arrestare del tutto (operazione difficile e costosa) hanno continuato ad estrarre barili di greggio, saturando rapidamente le scorte. Esaurita la capacità delle cisterne, diverse compagnie di estrazione si sono ritrovate a pompare petrolio in perdita, e a dover pagare i raffinatori per parcheggiare il greggio in eccesso in impianti di stoccaggio, navi petroliere e riserve strategiche nazionali.
Non è la prima volta che sull’industria petrolifera soffia vento di crisi, ma di fronte agli shock passati di domanda e offerta il redivivo petrolio ha sempre esibito grande elasticità: regolarmente, i consumi si contraggono per un periodo limitato, ma poi tornano immancabilmente a crescere a pieno ritmo. Oggi si discute se la pandemia di coronavirus possa aver anticipato il picco della domanda dei combustibili fossili causando il dissesto definitivo del settore petrolifero, ma è certo che quando la crisi sanitaria sarà rientrata ci ritroveremo con un’enorme quantità di petrolio a basso costo e pronto a inondare il mercato: una tentazione forse irresistibile per i governi alle prese con quella che si prospetta essere una durissima recessione economica globale. Anche il carbone tornerà a essere un’alternativa allettante per dare uno stimolo immediato alle economie depresse, con il governo cinese che – guarda caso – ha concesso più autorizzazioni alla costruzione di centrali elettriche alimentate a carbone nello scorso mese di marzo che in tutto il 2019.
Se gettiamo lo sguardo indietro alla storia dell’energia fossile, è indubbio che petrolio e carbone ci abbiano moltiplicati e arricchiti, ma hanno anche spinto la Terra ai suoi limiti di sostenibilità. Perché non riusciamo a liberarcene? Secondo l’economista del secolo scorso Nicholas Georgescu-Roegen, la ragione della forza dei combustibili fossili è da ricondurre all’affermarsi storico di macchina a vapore e motore a scoppio: due tecnologie “prometeiche”, ossia fautrici di un processo autoaccrescitivo al termine del quale la quantità di energia disponibile è di molto superiore a quella impiegata nella trasformazione della fonte. Una volta entrati in possesso di una tecnologia di questo tipo, osserva Roegen in Bioeconomia (1971), gli esseri umani ne espandono l’utilizzo al massimo, fino a che non si esaurisce il combustibile di cui si alimenta.
Se gettiamo lo sguardo indietro alla storia dell’energia fossile, è indubbio che petrolio e carbone ci abbiano moltiplicati e arricchiti, ma hanno anche spinto la Terra ai suoi limiti di sostenibilità. Perché non riusciamo a liberarcene?
Delle fonti fossili ci serviamo a ritmo serrato da soli due secoli, un fatto che rende i nostri tempi inevitabilmente anomali rispetto qualsiasi altra epoca precedente. Da decenni andiamo ripetendoci che le riserve di carbone, petrolio e gas naturale prima o poi finiranno, probabilmente già nel corso di questo secolo, e che una nuova transizione energetica ci condurrà all’uso esclusivo di energie rinnovabili e a zero emissioni di carbonio ricavate da sole, vento e acqua. Disponibilità e prezzo degli idrocarburi, però, ostacolano oggi l’ascesa delle alternative rinnovabili, la cui tecnologia di conversione non pare essere ancora entrata in un circuito autoaccrescitivo tale da produrre una nuova transizione energetica, forse l’ultima nella storia dell’umanità.
Nel regno del carbone
All’alba della rivoluzione industriale, neanche il carbone parve essere un tipo di tecnologia prometeica, dal momento che il costo della sua estrazione era superiore al valore energetico generato dalla combustione. A farne lievitare il prezzo era soprattutto il fatto che le miniere si allagavano facilmente e il lavoro doveva essere frequentemente interrotto. Per drenare l’acqua piovana fuori dai siti di estrazione si ricorse inizialmente a un meccanismo idraulico azionato dalla forza motrice dei cavalli, successivamente a un sistema di scolo che soffiando aria compressa sul fondo della cava spingeva in su l’acqua accumulata. Ma si trattava di soluzioni estremamente inefficienti, e si dovette attendere la macchina a vapore (un nuovo convertitore) prima che si creassero le premesse per una vera transizione energetica.
Una prima pompa idraulica a vapore per l’estrazione dell’acqua dalle miniere fu inventata da Thomas Savery già nel 1698. Era una macchina da un cavallo-vapore (0,75 KW), troppo poco per sgottare con profitto le miniere allagate. Quattordici anni dopo, nel 1712, Thomas Newcomen progettò una pompa a pistone da 5 cavalli-vapore, ben più potente di quella di Savery sebbene ancora incredibilmente inefficiente: “il suo rendimento”, ricorda Massimo Nicolazzi in Elogio del petrolio (Feltrinelli, 2019), “viaggia attorno all’1%. Il 99% dell’energia che alimenta [il pistone] si disperde”. Tecnologia energivora per la quale la potenza conta più del rendimento, la macchina di Newcomen riusciva tuttavia a drenare fino a 2.000 litri d’acqua al minuto dal fondo delle miniere, e la soglia critica del ciclo autorinforzante delle tecnologie prometeiche fu raggiunta. Improvvisamente, l’estrazione divenne efficiente e il carbone una fonte di energia termica competitiva. Nel 1865 l’ingegnere scozzese James Watt perfezionò ulteriormente il sistema di Newcomen con l’introduzione dell’albero a gomiti che dimezzava i consumi di carbone ma soprattutto rendeva possibile l’azionamento di ruote meccaniche, e dunque l’applicazione dei motori a vapore alla produzione industriale e al sistema dei trasporti.
La quantità di energia disponibile per gli scopi sociali ne uscì notevolmente accresciuta. Si stima che il consumo energetico complessivo da parte degli esseri umani fosse di 1,5 miliardi di watt 10mila anni fa, 950 miliardi di watt nel 1500 e 17mila miliardi di watt a fine 1800. Dalla rivoluzione industriale in avanti, tale progressione energetica fu resa possibile dal fatto che il carbone è biomassa vegetale concentrata, le spoglie fossilizzate di intere foreste d’alberi che morirono tra i 280 e i 345 milioni di anni fa in assenza di ossigeno e organismi bioriduttori capaci di decomporli. “Con i combustibili fossili il genere umano aveva guadagnato l’accesso a eoni di energia solare congelata”, scrivono John McNeil e Peter Engelke ne La grande accelerazione (Einaudi, 2018). “Forse l’equivalente di 500 milioni di anni di fotosintesi precedente”. Sin dall’origine della nostra breve storia, avevamo potuto contare soltanto su energia ricavata da biomassa, vento e acqua. Con le macchine a vapore, invece, possiamo trasformare gli antichi depositi di energia solare concentrata in lavoro utile, e questa vertiginosa possibilità abbatte i limiti di stazionarietà economica e demografica della società agraria pre-industriale. Nei primi novant’anni dell’era fossile (1820-1910) il Pil pro capite su scala mondiale più che decuplica, dopo millenni di stasi, e la popolazione complessivamente raddoppia.
Nei primi novant’anni dell’era fossile (1820-1910) il Pil pro capite su scala mondiale più che decuplica, dopo millenni di stasi, e la popolazione complessivamente raddoppia.
“Un’ora di ‘coltivazione’ della miniera”, scrive Nicolazzi, “ti mette a disposizione oltre cento volte più energia di quanto fa un’ora di coltivazione dei campi”. È come avere accesso a una “foresta sotterranea”, la scoperta che la terra in superficie sarà anche limitata ma giù, nel profondo, c’è una manna di energia solare fossilizzata che attende soltanto di essere prelevata e utilizzata. “Come il fossile ti abbatte la limitatezza della terra”, aggiunge Nicolazzi, “così la macchina ti libera dalla limitatezza del muscolo”. Dal 1800 in avanti le macchine rimpiazzeranno progressivamente il lavoro utile degli esseri umani e degli animali da soma: “quanti, lo dirà lo sviluppo tecnologico”. Allo “schiavo” umano e animale inizialmente si aggiunge e poi si sostituisce quello meccanico, in primis nell’industria tessile. Parallelamente, le reti ferroviarie cominciano ad avvolgere il mondo, i battelli a motore sostituiscono le vele, il fumo nero delle locomotive abbatte i costi di movimentazione delle merci via terra mentre il trasporto su acqua si emancipa dalle correnti. Già attorno al 1870 metà dell’energia mondiale viene ottenuta dal carbone e il consumo annuale da fonti fossili supera l’energia creata sull’intero pianeta dalla fotosintesi. È la fine dell’epoca “organica” e l’ingresso in quella fossile.
Difficile a credersi, nel corso dell’Ottocento aleggiava già una certa consapevolezza che il radicale cambiamento in atto – energetico e dunque sociale – fosse degno di preoccupazione, altrimenti non ci sarebbero stati il luddismo, il romanticismo, il comunismo e altri moti critici nei confronti della nascente società termoindustriale. “L’uscita dall’economia organica e la rottura dei cicli metabolici”, fanno notare Cristophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz ne La terra, la storia e noi (Treccani, 2019) “sono avvenute a dispetto di una profonda attenzione verso il futuro e malgrado la chiara coscienza del carattere non sostenibile del nuovo sistema economico [basato sulle fonti fossili] che si andava costituendo alla fine del Diciannovesimo secolo”. La trionfale ascesa del carbone pareva però irrefrenabile, e finì per essere corroborata da altre tecnologie prometeiche inventate in quel secolo di furore.
Nel 1831, ad esempio, lo scienziato britannico Michael Faraday scoprì l’induzione elettrica, ossia il principio secondo cui l’energia meccanica può essere trasformata in elettricità e viceversa. La corrente elettrica è una forma secondaria di energia ricavabile da qualunque altra fonte – sole, vento, acqua, fossili – e a sua volta convertibile in lavoro meccanico, energia cinetica o semplice illuminazione. Il principale vantaggio competitivo dell’elettricità è che si tratta di una forma ideale di somministrazione dell’energia, anche se terribilmente inefficiente: ancora oggi, metà del potenziale energetico di gas e carbone bruciati per produrre corrente finisce per dissiparsi durante la conversione. Nel lungo termine, a premiare l’elettricità fu però la sua straordinaria versatilità, senza la quale non vi sarebbero stati elettrodomestici, telecomunicazioni, informatica. “Se i computer fossero alimentati da un motore a scoppio” ironizza Nicolazzi, “la rivoluzione digitale sarebbe puro nonsense”.
Dacché furono inventate le tecnologie per produrla, l’energia elettrica viene ricavata per lo più dalla combustione del carbone. Ancora oggi, nonostante siano note modalità alternative per ottenerla da fonti rinnovabili, i tre quinti di tutta l’elettricità consumata nel mondo hanno origine nelle centrali a carbone. Secondo un recente rapporto dell’ONG End Coal, dal 2010 è la Cina il principale produttore al mondo, nonché il paese in cui si sta costruendo il maggior numero di centrali elettriche, circa il 50% in più di tutti gli altri paesi messi assieme. Complice l’accelerata cinese, negli ultimi anni il consumo di carbone per la produzione di energia elettrica ha globalmente ripreso a crescere, pertanto – osservano giustamente Bonneuil e Fressoz – “il carbone non può essere considerato un’energia più ‘vecchia’ del petrolio; anzi, potrebbe anche esserne il successore”. Più che di sostituzione, sarebbe opportuno parlare di supplemento.
In ambito politico, mediatico e scientifico, si parla di transizione energetica anziché di crisi per rendere il futuro molto meno ansiogeno, ancorandolo a una presunta razionalità pianificatrice e gestionale.
Secondo i due storici francesi, il fatto che nemmeno il petrolio abbia completamente soppiantato il carbone è la prova lampante di come le transizioni energetiche, in un certo senso, non esistano: le nuove fonti o i convertitori più efficienti non rimpiazzano del tutto quelli precedenti, ma vi si aggiungono per aumentare la dotazione di energia disponibile, che non è mai abbastanza rispetto agli usi sociali possibili. “Non siamo passati dal legno al carbone, poi dal carbone al petrolio, quindi dal petrolio al nucleare”, aggiungono Bonneuil e Fressoz. “La storia dell’energia non è una storia di transizioni, ma di ‘addizioni’ successive di nuove fonti di energia primaria”. In ambito politico, mediatico e scientifico “parlare di transizione anziché di crisi rende il futuro molto meno ansiogeno, perché lo ancora a una razionalità pianificatrice e gestionale”.
Petrolio moltiplicatore
Se il carbone è l’energia solare concentrata di foreste fossilizzate, il petrolio è l’esito della liquefazione di organismi unicellulari oceanici – il fitoplancton e lo zooplancton – che centinaia di milioni di anni fa rimasero sepolti sotto la pressione di strati di roccia impermeabile. Capitava che in passato il residuo organico di quegli esseri ancestrali affiorasse in superficie, e gli umani ne fecero gli usi più svariati: come materiale incendiario a uso bellico, emolliente e lubrificante in quello artigianale, asettico nella pratica della mummificazione e addirittura medicinale nella farmacopea antica e medievale.
Da un punto di vista chimico, il petrolio greggio è una miscela di idrocarburi a base di carbonio e idrogeno che solo con la raffinazione si impara a suddividere nei suoi costituenti fondamentali, di modo da servirsene per scopi diversi. Se bruciate, le componenti più pesanti sono sporche e puzzolenti, ma conservano una loro dignità come materia prima plastica o bitume per l’asfalto e il calafataggio. Quelle più leggere, come le benzine, sono invece ottime per la combustione nei motori a scoppio, sicché il petrolio finì innanzitutto per stravolgere il sistema dei trasporti, consentendo la mobilità “punto a punto” anziché quella “stazione a stazione” dei treni a carbone. Il petrolio, scrive ancora Nicolazzi, “è il fossile energeticamente più denso, e cioè con maggiore energia per unità di volume” (42 mega-joule per chilo, contro i 22-25 del carbone e i 17 della legna da ardere). “Aggiungi per volume che un metro cubo di petrolio contiene grosso modo mille volte l’energia contenuta in un metro cubo di gas naturale e capisci perché il petrolio signoreggi laddove ci sia necessità di portare cose e persone”. Più di ogni altra fonte, ti permette di concentrare molta energia in un piccolo serbatoio.
Le prime applicazioni del petrolio nel settore dei trasporti favorirono l’innovazione delle tecniche di raffinazione, che durante tutto il Novecento conobbero progressi entusiasmanti. Nel 1913 venne inventata la tecnica del cracking termico, che consiste nella frantumazione delle molecole pesanti contenute nel greggio in componenti più leggere. La resa delle benzine per unità di petrolio passò in un lampo dall’11% al 25%, e poi al 50% con il cracking catalitico. “Per il resto”, scrive Nicolazzi, “il motore a diesel consentirà l’uso combustibile delle frazioni più pesanti”, ma anche le componenti di scarto trovarono impieghi efficaci e remunerativi. Sempre dal 1913, i residui della raffinazione cominciano a essere utilizzati nel processo Haber-Bosch di fissazione dell’azoto atmosferico per la produzione di ammoniaca, che combinata all’azoto genera l’urea. Questa si rivela essere un prodigioso fertilizzante sintetico a base fossile, efficace al punto da mettere presto fuori gioco i concimi organici come il letame degli animali da allevamento o il guano importato a bastimento dal Sud America. “Cade una grande barriera alla possibilità di produrre cibo”, commenta Nicolazzi, “e il processo [Haber-Bosch] si merita il nome di ‘detonatore dell’esplosione demografica’”, poiché trasforma l’aria in concime, il concime in cibo (si calcola fino al 40% in più) e il cibo in energia con cui sostenere una popolazione esponenzialmente più vasta.
Il petrolio più di ogni altra fonte permette di concentrare molta energia in un piccolo serbatoio.
Ma gli irresistibili doni del petrolio non si fermano qui. Assieme al concime chimico, a inizio Novecento arriva infatti anche il trattore, che in origine condensa nel suo motore a scoppio la potenza di 15-20 cavalli, e oggi arriva anche a 575. “La manifesta inferiorità segna il destino dell’animale”, conclude Nicolazzi, e con la meccanizzazione dell’agricoltura l’aumento della produttività è impressionante: “nel 1900 ci volevano sette ore di lavoro umano per produrre una tonnellata di frumento; nel 2000 bastano novanta minuti”. Armato di sola zappa, un contadino nerboruto e in salute poteva scaricare sul suo terreno agricolo una potenza di 50 watt, con due cavalli da tiro al traino di un aratro manuale fino a 1.000 (la potenza di 20 contadini), sulla sella di un piccolo trattore raggiungeva negli anni ’50 circa 50.000 watt e oggi anche 298.000 (l’equivalente di 5.960 contadini muniti di zappa). Quando all’ammoniaca e al trattore si aggiungono poi l’ibridazione delle sementi e l’uso dei pesticidi i tempi maturano per un nuovo salto energetico: se nel 1960 un ettaro rendeva mediamente 1.422 chilogrammi di cereali, nel 2016 svetta a 3.967. Le eccedenze alimentari e il parallelo declino del lavoro agrario spingono incontenibilmente all’urbanizzazione, e nel giro di pochi decenni il petrolio decreta l’estinzione della civiltà contadina, del suo stile di vita frugale e della sua millenaria abitudine a vivere in condizioni di penuria energetica.
L’utilizzabilità di una nuova fonte di energia abbondante e a basso costo come il petrolio, aggiungono McNeil e Engelke, “ha [inoltre] consentito lo svolgimento di molte attività che altrimenti sarebbero state antieconomiche e non si sarebbero sviluppate, o forse si sarebbero diffuse molto più lentamente”. Si pensi alla deforestazione: i taglialegna equipaggiati con motosega a benzina sono da 100 a 1.000 volte più efficienti di quelli che abbattono alberi attrezzati soltanto di seghe e saracchi manuali. Senza petrolio, poi, il trasporto della legna e di altre materie prime sarebbe lento, faticoso e dispendioso al punto da far lievitare vertiginosamente il costo finale del carico, facendolo uscire di mercato. Anche l’agricoltura senza l’intensità energetica del petrolio non avrebbe mai conosciuto la meccanizzazione, e sarebbe rimasta legata alla forza muscolare degli esseri umani e a quella motrice degli animali da soma. Ma tolto il petrolio neanche l’estrazione dei metalli, l’espansione delle città, il trasporto di massa e molti altri tratti del capitalismo moderno sarebbero economicamente praticabili ai livelli attuali. “L’energia a basso costo ha ampliato l’orizzonte di ciò che può essere considerato remunerativo, estendendo la scala o l’intensità di queste attività ad alto consumo di risorse”. Il petrolio ha reso possibile l’insostenibile e questo ha cambiato irreversibilmente le società.
Oltre a diffondere attività che altrimenti non sarebbero mai esistite, il petrolio ebbe sin dall’inizio anche un effetto moltiplicatore. Fu il carburante che rese possibile la “grande accelerazione” del secondo dopoguerra: “tra il 1950 e il 1970”, scrivono Bonneuil e Fressoz, la popolazione aumenta di 1,46 volte, il Pil mondiale di 2,6, i consumi di minerali e di prodotti minerali per l’industria di 3,08, quelli dei materiali da costruzione di 2,94”. Prima della rivoluzione industriale (1500-1820), si stima che il Pil mondiale sia cresciuto dello 0,3% annuo, tra il 1820 e il 1950 dell’1,6%, mentre dopo il 1950 del 3,6%. Da allora, ad ogni tonnellata di petrolio bruciata la ricchezza ci aumenta di 1.000 dollari, molto più che con una qualsiasi altra fonte di energia. “L’apice della crescita”, scrivono McNeil e Engelke, “avvenne tra il 1950 e il 1973, un periodo che è stato chiamato ‘età dell’oro’, Wirtschaftswunder (‘miracolo economico’), les trente glorieuses (‘i trenta gloriosi’), long boom (‘il lungo boom’), a seconda della nazionalità degli osservatori”. Fu benessere economico e abbondanza energetica, almeno per l’Occidente. Il livello dei consumi si impennò per miliardi di persone, ma crebbero anche le aspirazioni materiali di tutte le altre.
Dal 1950 abbiamo bruciato in petrolio l’equivalente di luce solare fossile attestabile tra i 50 milioni e i 150 milioni di anni.
Dal 1950 abbiamo bruciato in petrolio l’equivalente di luce solare fossile attestabile tra i 50 milioni e i 150 milioni di anni: detto in altri termini, abbiamo beneficiato annualmente dell’intensità energetica accumulata dalla natura in due milioni di anni. “L’intera esperienza di vita di quasi tutti gli individui che abitano il pianeta si è svolta in questo particolare momento storico”, notano McNeil ed Engelke. “Senz’altro il periodo più anomalo e meno rappresentativo dei rapporti tra la nostra specie e la biosfera in una storia lunga 200.000 anni”. Guai a credere allora che l’effetto moltiplicatore innescato dal petrolio possa durare ancora a lungo. La parentesi fossile e la grande accelerazione dei consumi, più che la norma, sono una digressione ingannevole e diuturna dal regolare corso della storia.
I limiti dell’entropia
Con l’utilizzo dei combustibili fossili, scrivono Bonneuil e Fressoz, il consumo assoluto di energia dal 1800 al 2000 è aumentato di 40 volte: “questo grande balzo nell’impiego di energia è servito a trasformare il pianeta con una potenza decuplicata, dissodando, urbanizzando e modificando gli ecosistemi”. È tutto lavoro utile che abbiamo scaricato sulla superficie terrestre, deformandola irrimediabilmente. Abbiamo tramutato gli alberi in mobili e bruciato carbone per far lavorare le macchine, anche se tornare indietro – dai mobili agli alberi e dal lavoro delle macchine al carbone – ci risulta da sempre impossibile.
“L’energia chimica contenuta in un pezzo di carbone è energia libera”, scriveva Georgescu-Roegen in Bioeconomia, “perché l’uomo può trasformarla in calore e, se vuole, in lavoro meccanico. […] L’energia legata è, al contrario, energia caoticamente dissipata”. Ogni organismo vivente trae energia libera dall’ambiente per compensare l’aumento di entropia cui è soggetto per natura e fisiologia. Tuttavia, solo gli esseri umani hanno spinto la Terra ai suoi limiti di sostenibilità adottando un sistema economico che trasforma a ritmo crescente le risorse naturali (energia libera) in scarti energetici (energia legata).
“Dal punto di vista della termodinamica”, scrive infatti Roegen, “la materiaenergia entra nel processo economico in uno stato di bassa entropia e ne esce in uno stato di alta entropia”. La bassa entropia è condizione necessaria affinché un bene abbia un valore economico: prima di essere bruciati carbone, petrolio e gas naturale sono mezzi per svolgere lavoro meccanico e dunque hanno un valore d’uso e di scambio, ma dopo la combustione quel valore svanisce poiché del carbonio originario non restano che particelle di scarto che danzano inservibili nell’aria. L’immenso rompicapo, economico e scientifico, che il nuovo capitalismo verde promette di sgrovigliare in questo inizio di secolo è proprio come conferire un valore economico a quelle particelle danzanti.
“La materia altamente dissipata non ha alcuna utilità per noi”, avvertiva Roegen mezzo secolo fa. “Lo stesso vale per il calore altamente dissipato, con la differenza che la sua accumulazione può rappresentare la più grave minaccia per la nostra esistenza”. Dall’invenzione dell’agricoltura alla rivoluzione industriale, la concentrazione del carbonio nell’atmosfera è cresciuta ogni anno di 0,003 parti per milione (ppm), dopo la rivoluzione industriale di 0,6 ppm, due ordini di grandezza in più. Dal 1958, in piena grande accelerazione, il carbonio nell’atmosfera ha preso ad aumentare annualmente di 1,5 ppm, e dal 2015 addirittura di 3,02 ppm. “In questa degradazione qualitativa della materia-energia che procede con velocità crescente”, per citare ancora Roegen, “risiede il problema fondamentale per il futuro della specie umana”.
Ogni organismo vivente trae energia libera dall’ambiente, ma solo gli esseri umani hanno spinto la Terra ai suoi limiti di sostenibilità adottando un sistema economico che trasforma a ritmo crescente le risorse naturali in scarti energetici.
Una parentesi fossile lunga solo due secoli ha fatto uscire il nostro pianeta da un periodo di stabilità climatica durato più di diecimila anni. Carbone e petrolio ci hanno accelerato il mondo e moltiplicato la ricchezza ampliando esponenzialmente la capacità di convertire energia in lavoro per mezzo delle macchine, ma ora c’è il rischio che la fortuna energetica si tramuti in sventura climatica. In uno scenario business as usual che ci conduca a bruciare i combustibili fossili fino all’ultima goccia di petrolio e all’ultima scheggia di carbone, entro la fine del secolo avremo una concentrazione di carbonio nell’atmosfera di 700 parti per milione, con una media di 5-10 gradi in più di temperatura terrestre. “C’è un’unica ragione che può e deve spingerci a finirla con il fossile prima che ci finisca lui”, ammonisce Nicolazzi, “ed è il rischio ambientale a cui ci sta esponendo”.
Il consumo energetico globale è oggi di circa 14 milioni di tonnellate di petrolio equivalente, per l’80% di origine fossile e un restante 20% di nucleare e rinnovabili – che a differenza delle fonti fossili non generano entropia sotto forma di carbonio gassoso. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), per rimanere sotto la soglia di sicurezza di 1,5 gradi in più della temperatura terrestre entro la fine del secolo, dovremmo grosso modo invertire le percentuali dell’energy mix con un 70% di rinnovabile e 30% fossile. Ma è necessario cominciare subito. Non appena il lockdown per il contenimento del coronavirus sarà sciolto e troveremo nelle riserve di petrolio accumulate in questi mesi la soluzione più facile alla crisi economica che ci aspetta, dovremo ricordarci che c’è un’altra crisi che monta attorno sempre più minacciosamente, ed è quella climatica, per la quale esiste una soluzione unica e contraria: via dai fossili, e al più presto possibile.