L
a prima battuta arriva già nell’esergo, dopo due citazioni inventate, di Wittgenstein e Flaubert: “Le epigrafi non hanno mai niente a che vedere con il libro”. Dopo tre pagine spunta il primo grafico, che serve a classificare i protagonisti lungo la scala di colore della loro pelle, da 1, bianco, a 10, nero (passando per bianchiccio, marroncino, marronissimo e scurino). Subito dopo c’è il primo dialogo rivolto al lettore, che viene invitato a scegliere liberamente la stagione in cui è ambientata la storia (con un consiglio: “in un volume di questa lunghezza, l’estate è la più logica: evita di sprecare pagine su pagine a descrivere persone che si infilano e si sfilano il cappotto”).
Oreo è un libro satirico e grottesco, pieno di quei virtuosismi metanarrativi ai quali ci siamo abituati col tempo ma che, all’uscita del libro, nel 1974, contribuirono forse a renderlo un oggetto incomprensibile e alieno per il mercato editoriale e ne decretarono l’insuccesso. La sua autrice, Fran Ross, non scrisse mai un secondo libro; lavorò nell’editoria, fece l’autrice TV, morì a cinquant’anni nel 1985. Da qualche tempo Oreo è stato riscoperto, è stato ristampato, ed è arrivato in questi giorni per la prima volta in Italia grazie a SUR, nella traduzione di Silvia Manzio.
È un romanzo sperimentale, parodistico, un puzzle con troppe tessere, eccessivo, scritto in una lingua che mescola yiddish, slang e lessico familiare. La storia principale, che fa da traino narrativo a tutte le altre, è quella della giovane protagonista, Christine, che lascia la casa di provincia dove è cresciuta, in Pennsylvania, per andare a New York alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto e che ha abbandonato la famiglia (Christine, la madre e il fratello) quando lei era in culla. Di lui Christine sa solo che è un attore fallito, e che fa il doppiatore nelle réclame televisive (“Hai mai visto la pubblicità in cui la casalinga viene lapidata per aver usato il detersivo sbagliato mentre una voce che esce da un roveto ardente fomenta i lapidatori?” chiede la madre a Christine. “Il roveto è tuo padre. Hai mai visto quella in cui alla casalinga viene un eczema quando dalla tazza del gabinetto salta fuori un omino? Il gabinetto e l’eczema… tuo padre”).
Oreo somiglia molto alla stand up, con le sue divagazioni disordinate e la libertà espressiva, è un fiume di pensieri e avvenimenti impossibile da riassumere. Il pregio indiscutibile del libro sono proprio i lampi di comicità che riesce a regalare.
Una volta arrivata in città, una New York caricaturale, popolata solo di svitati, prostitute e criminali, Christine scopre che il padre, oltre ad avere una seconda moglie, è diventato anche un puttaniere incallito. Lo rintraccerà in un bordello, ma si ricongiungerà a lui solo dopo aver preso a bastonate un socio del pappone che tenterà di violentarla. Dopo un po’ di pagine, e decine di avventure del genere, diventa piano piano evidente che le vicende di Oreo siano una riscrittura moderna del mito greco di Teseo (che per ricongiungersi con il padre Egeo deve affrontare diverse prove, tra cui l’uccisione del Minotauro). Alla fine del libro Ross svela tutti i parallelismi in un capitolo che si chiama piuttosto esplicitamente “Una chiave di lettura per i frettolosi, i non classicisti, ecc.”.
Il soprannome di Christine è Oreo, definizione da strada di “persona nera fuori e bianca dentro”: il padre di Christine è ebreo, la madre è nera e lei da piccola assomiglia a uno di quei famosi biscotti al cacao con la crema di vaniglia (poi, però, siccome in Oreo non c’è mai una sola verità, scopriamo che il nomignolo è nato in realtà da un equivoco: la nonna voleva un giorno chiamarla amorevolmente “oriolo”, come l’uccellino, ed è stata fraintesa).
Leggendo si incontrano alcune equazioni inventate dalla madre di Oreo che con genio matematico descrive qualsiasi situazione sociale, o sentimento, tramite formule del tipo:
C = N – MS²
dove
C = catarsi, N/m.
N = nostalgia di casa, m.
M = malevolenza, pme.
S = squillo del telefono, min.
E poi cartelli stradali, ritagli di giornale, cinque pagine interamente dedicate al menu di una pantagruelica cena di festeggiamenti familiari che avviene a metà libro, e la riproduzione di un test a scelta multipla inventato per devozione dal nonno di Oreo per valutare le conoscenze delle persone su Gesù – ma non Gesù in quanto profeta, troppo facile: Gesù in quanto, prima di tutto, falegname e semplice artigiano.
Rispondi alle seguenti domande come se fossi un abitante dell’antica Galilea:
1. Come definiresti Gesù in termini di capacità generali?
□ Balmalocha □ Bravo □ Discreto □ Negato
E così via. Oreo è una delle poche opere di satira scritte da una donna afroamericana in quegli anni. Nonostante il flop del romanzo, qualche tempo più tardi a Ross venne offerto un lavoro come autrice per il “Richard Pryor Show”. L’esperienza non fu fortunata, la trasmissione chiuse dopo solo quattro puntate, ma sulla carta era un incontro felice: la libertà che in quegli anni Pryor si stava conquistando sul palco dei suoi spettacoli aveva già contribuito alla nascita della stand-up comedy moderna e affrancato la comicità statunitense dalla commedia degli equivoci e dei giochi di parole. In perfetta armonia con la follia dissacrante che emana Oreo, Pryor parlava di sesso, droga e questioni razziali, e uno dei tanti fili tematici che tornano nel libro è proprio la parodia delle ansie della classe media bianca americana.
In un pezzo che avrebbe benissimo potuto essere un monologo di Pryor dell’epoca (o, oggi, uno di Chris Rock o Dave Chappelle) Ross deride il racconto pubblico che si faceva – e si fa ancora – della comunità nera. In una grottesca inversione dei ruoli, scrive:
La borghesia nera di Whitehall
[un sobborgo della Pennsylvania] si era fermamente opposta all’invasione dei visi pallidi, non perché fossero poveri (“I poveri infatti li abbiamo sempre con noi”, aveva dichiarato il reverendo Cotton Smith-Jones, portavoce della città e pastore della Chiesa episcopale St. John), ma perché erano bianchi (“è solo che non vogliamo essere circondati da mozzarelle”, aveva proclamato, seguito da un coro di distinti “Amen” episcopali). Come denunciava Smith-Jones, i bianchi erano casi disperati. Non sguazzavano nella delinquenza come i neri; non se la spassavano particolarmente a farsi spaccare la faccia, svaligiare la casa e stuprare la moglie come i neri; non esultavano quando i loro figli si calavano le pasticche, si fumavano le stagnole o si facevano le pere come i neri. Non bisognava permettere che gente tanto bigotta, tanto stitica, si mescolasse a delle persone perbene e amanti della vita come loro.
Anche nello stile Oreo somiglia molto alla stand up, con le sue divagazioni disordinate e la libertà espressiva, è un fiume di pensieri e avvenimenti impossibile da riassumere perché l’unico modo di tenere fede al suo spirito picaresco sarebbe una riproduzione 1:1 del libro. Il pregio indiscutibile di Oreo sono proprio i lampi di comicità che riesce a regalare. Alcuni dei personaggi sembrano usciti dal bestiario di freak di Rodolfo Wilcock: uno dei professori di Christine, per esempio, è un naturofobo che spera un giorno di riuscire a coprire di asfalto l’odioso verde dei parchi pubblici:Aborriva la baia di Fundy, detestava la fossa delle Marianne, abominava l’aurora boreale, vituperava il mar dei Sargassi, era agghiacciato dai poli, sia Nord che Sud, e nauseato da qualsiasi altra manifestazione di Madre Natura, banale o straordinaria che fosse.
Altri paragrafi potrebbero essere, da soli, racconti di Kurt Vonnegut, di Tom Robbins o di Woody Allen, del Woody Allen che negli anni Settanta scriveva storielle e saggi paradossali – Rivincite, Effetti collaterali, Senza Piume – esasperando la vena nonsense di Groucho Marx:
Gladstone vantava non solo uno scemo del villaggio, ma anche un cretino del villaggio e un imbecille del villaggio. Erano tre fratelli. [Di mestiere] i tre confezionavano mocassini al ritmo di mezzo al giorno. Producevano un solo numero (il 37⅔ da donna), e solo il piede sinistro. Ogni sera Lulu, la loro mamma-zia, doveva disfare il frutto del loro lavoro, ma almeno così stavano alla larga dalla strada.
Oppure:
Perché, quando tutto quello che la circondava aveva l’accento neutro della costa est, Louise si ostinava a parlare come se avesse una patata in bocca? Il motivo era semplice: il più delle volte aveva in bocca una patata o qualche altro alimento commestibile, raro o comune che fosse. Un giorno qualcuno la sfidò a nominare un cibo che non le piacesse. Esitò. Quell’esitazione durava ormai da quindici anni.
Ross ha scritto la storia di un viaggio già in partenza labirintico e l’ha intarsiata di una serie di storie complementari folli, fenomenali, violente e surreali; ha preso quello che rischiava di essere solamente un gioco cinico di identità e rimandi e l’ha trasformato in un’epopea comica fuori dal tempo. Se non ci si fa intimidire dalla struttura cervellotica, si scopre un libro divertente e complesso, che è una fortuna aver riscoperto.