I l 21 aprile 1970 cominciarono a Londra le sedute di registrazione di Histoire de Melody Nelson: disco considerato universalmente il capolavoro di Serge Gainsbourg. Base delle operazioni furono i Pye Studios a Marble Arch, Londra, gli stessi dove l’anno precedente si era materializzato lo scandaloso bestseller Je T’Aime, Moi Non Plus: primo 45 giri non anglofono in vetta all’hit parade inglese, così come in Austria, Norvegia, Svezia e Svizzera, secondo posto in Italia con la scomunica per oscenità del Vaticano ma solo terzo in Francia, per un totale destinato a superare i sei milioni di copie vendute nel mondo. “Un successo inaspettato”, dichiarò l’autore al magazine transalpino Rock & Folk, affermando altresì di aver pensato: “Adesso che ho un po’ di grana, proviamo con un progetto serio”. Insieme a lui, nella capitale britannica, c’era la compagna Jane Birkin, coprotagonista di quel duetto a luce rossa: si erano stabiliti in un piccolo appartamento in affitto a Chelsea, mentre all’hotel Cadogan, nel quale Oscar Wilde aveva trascorso le ultime ore di libertà prima dell’arresto per sodomia il 6 aprile 1895, risiedeva Jean-Claude Vannier, conosciuto da Gainsbourg a fine 1968 e incaricato di coordinare il lavoro, benché in origine dovesse essere addirittura cointestatario dell’opera. “Io sono Cole e tu sei Porter”, gli aveva detto Serge, riconoscendone il valore, confermato in seguito dal visionario debutto da solista L’Enfant Assassin des Mouches, pubblicato in tiratura limitata nel 1972. “Ho solo il titolo. Niente musica, niente parole, niente di niente. Hai qualche rimasuglio?”, gli domandò alla vigilia. Ricorda Vannier: “Non c’era praticamente nulla su cui lavorare, nemmeno i testi, che arrivarono molti mesi dopo. Perciò ciascuno di noi portò due o tre frammenti di canzone raccattati frugando nei cassetti e su quelli improvvisammo liberamente le armonie. Non avevamo idea di che forma avrebbe preso l’album, cercavamo di racimolare brani a sufficienza per riempirlo”.
Alle sessions londinesi parteciparono strumentisti non specificati nelle note di copertina del disco: un mistero protrattosi per decenni, poi svelato parzialmente dalla puntigliosa ricostruzione effettuata dal produttore e DJ inglese Andy Votel per la riedizione in formato deluxe datata 2011. Si vociferava che in studio fosse transitato persino Jimmy Page dei Led Zeppelin, quando in realtà le tracce di chitarra vennero lottizzate fra Alan Parker, Big Jim Sullivan e Vic Flick, quest’ultimo abituale collaboratore di John Barry, ex marito di Jane Birkin, e segnatamente artefice del memorabile riff del tema di James Bond. Con Barry suonava stabilmente pure il batterista Dougie White, maggiore indiziato per quel ruolo, mentre al basso figurava Dave Richmond, anche se Vannier cita piuttosto Herbie Flowers, già implicato in Space Oddity di David Bowie e successivamente forza motrice di Walk on the Wild Side di Lou Reed, oltre a essere con Parker membro dei Blue Mink del tastierista Roger Coulam, a sua volta coinvolto nell’impresa. Completata in quattro giorni la fase preliminare, a maggio l’attività si spostò nel parigino Studio de Dames, dove furono registrati un cammeo del violinista jazz Jean-Luc Ponty e le sezioni d’archi affidate a componenti della Paris Orchestra: mansioni che diedero a Vannier la titolarità degli arrangiamenti e delle orchestrazioni. Le parti vocali giunsero in coda, fra l’11 e il 14 gennaio 1971, tre settimane prima del missaggio conclusivo.
Anziché cantare, nella narrazione il protagonista impiega un tono conversativo per certi aspetti affine alle disposizioni della partitura de L’Histoire du Soldat di Charles-Ferdinand Ramuz e Igor Stravinskij, icona musicale venerata dallo stesso Gainsbourg, che nel 1984 avrebbe doppiato il Diavolo impersonato da Max Von Sydow nella versione francese dell’adattamento dell’opera curato dall’animatore statunitense Robert Oscar Blechman per il circuito televisivo Public Broadcasting Service. Espresso in testi a forma di sonetti, ispirati allo stile del poeta di origine cubana José-Maria de Heredia, il racconto ricalca in maniera trasparente il canovaccio di Lolita, romanzo dal quale Gainsbourg era ossessionato: “Leggerlo mi aveva colpito come un cazzotto al mento”, confessò in un’intervista. Con l’intenzione di musicare la poesia dedicata dal professor Humbert Humbert a Dolores Haze (capitolo 25: “Quel jukebox, Dolores, mi torce i budelli. A chi mentre balli ti avvinghi?”, recita un verso), nel 1962 si era messo in testa d’interpellare direttamente Vladimir Nabokov, incocciando però in un muro di gomma, siccome l’autore era assorbito dal lavoro di sceneggiatura del film di Stanley Kubrick derivato dal libro. Figure analoghe a Lolita avevano fatto capolino del resto in alcuni episodi del suo repertorio: “L’Eau à la Bouche”, “Cha Cha Cha du Loup”, “Une Petite Tasse d’Anxiété” (duetto con l’attrice inglese Gillian Hills, che fa coppia con Jane Birkin durante una scena scabrosa di Blow-Up di Michelangelo Antonioni) e Confidentiel. C’era stata poi la partnership con la ninfa pop parigina France Gall, vincitrice non ancora diciottenne all’Eurovision Song Contest tenutosi nel 1965 a Napoli con Poupée de Cire, Poupée de Son, canzoncina firmata da Gainsbourg (e ripresa in epoca recente dagli Arcade Fire), che l’anno dopo le affidò Les Sucettes: brano votato allo scandalo per il salace doppio senso fra il lecca lecca del titolo e il sesso orale.
Divorziato dalla seconda moglie nel 1966 e reduce da una breve ma intensa love story con Brigitte Bardot, nel maggio 1968 il quarantenne Gainsbourg aveva incontrato la ventunenne Jane Mallory Birkin sul set del film Slogan di Pierre Grimblat. Tra i due sbocciò l’amore e nella copia della raccolta di testi Chansons Cruelles che lui le regalò in occasione di uno dei primi incontri la dedica annunciava: “A Jane Mallory, per cui io scriverò la storia di Melody Nelson”. Sono dunque evidenti i riflessi autobiografici in quella rievocazione di un amor fou tra un uomo adulto e un’adolescente tipo Lolita, l’uno proiezione dell’autore e l’altra ricalcata sulla slanciata silhouette dell’attrice londinese: “Melody è Jane. Senza Jane, questo disco non esisterebbe”, ammise Gainsbourg intervistato da Rock & Folk nel giugno 1971, un mese prima della nascita della figlia Charlotte. Un’anticipazione del soggetto era stata pubblicata il 31 ottobre 1969 sul quotidiano L’Aurore: “L’Histoire de Melody Nelson racconterà l’iniziazione sessuale di una ragazzina investita un giorno in bicicletta nei sobborghi di Parigi da una Rolls guidata da un quarantenne. Ovviamente il sedile posteriore del veicolo servirà come ambientazione della messinscena”. La trama è suddivisa in episodi coincidenti con le sette canzoni della sequenza, che nell’arco di appena 28 minuti, metà dei quali occupati dall’iniziale Melody e dalla conclusiva Cargo Culte, dipana una vicenda aperta dall’investimento della ciclista quattordicenne da parte della Silver Ghost di lui (l’eccentrico Serge possedeva effettivamente una Rolls Royce, ma non aveva la patente), culminante nella perdita della verginità di lei su un letto rococò dentro la stanza 44 chiamata Cleopatra dell’albergo a ore Hôtel Particulier, fino al tragico epilogo in cui la ragazza muore nel disastro aereo del Boeing 707 che la sta riportando a Sunderland, lasciando il protagonista “con niente da perdere e senza un dio in cui credere”. “Tutti gli amori finiscono male”, commentava a riguardo Gainsbourg. Un condensato di lussuria e melodramma che lo scrittore inglese Darran Anderson, noto per il saggio Imaginary Cities e curatore di un testo a tema per la collana “33 1/3”, descrive così: “Il narratore è dannato e la sua musa è morta, ma non ci sono dubbi che di fronte alla medesima situazione commetterebbe gli stessi peccati all’infinito. È un circolo vizioso modellato su uno dei gironi dell’Inferno dantesco”.
Drammaturgia a parte, l’impianto musicale era straordinario per l’epoca: una sorta di rock orchestrale impregnato di un erotismo da black music, che nell’esemplare Hôtel Particulier rimandava all’Isaac Hayes di Hot Buttered Soul. Serge ci metteva voce da marpione e Jane si concedeva con parsimonia, fra risatine e gridolini (tipo En Melody), quasi che i due volessero far presagire l’imminente affaire sessuale fra Brando e Schneider in Ultimo tango a Parigi, cui fa pensare Valse de Melody. Più dei singoli episodi conta comunque l’effetto d’insieme, tuttora ammaliante e immaginifico, per quell’aria al tempo stesso letteraria e cinematografica che l’album emana. Nella biografia di Gainsbourg Per un pugno di Gitanes, Sylvie Simmons scrive: “È musica che suona come un jukebox da fine anni Sessanta atterrato su un’orchestra che accompagna un reading di Samuel Coleridge”. Edito il 24 marzo 1971 con relativo successo commerciale (circa 30.000 copie vendute allora in patria, avrebbe superato quota 100.000 – diventando disco d’oro – solo nel 1983), Histoire de Melody Nelson esponeva maliziosamente in copertina la figura esile di Jane Birkin a torso nudo, abbracciata a un pupazzo di pelouche (che 20 anni dopo sarebbe stato sepolto con Gainsbourg nel cimitero di Montparnasse) e con i jeans sbottonati in vita: “Ero incinta di quattro mesi”, spiegò lei in seguito. Sulla scia del long playing vennero prodotti video per ciascun brano con la regia Jean-Christophe Averty, che utilizzò filtri, sovrapposizioni in chroma key e insoliti movimenti di camera ottenendo un risultato a metà strada fra psichedelia e surrealismo, in un’anticipazione lungimirante dell’era dei videoclip: l’intero cortometraggio – ora rintracciabile su Vimeo – fu trasmesso a dicembre dalla televisione francese.
Per più di una ragione, si trattava dunque di un’opera in anticipo sui tempi, destinata perciò a essere apprezzata compiutamente con il passare dei decenni. E così è stato: elevata al rango di oggetto di culto da epigoni quali Beck, Pulp, Air, Portishead e Massive Attack (che hanno ripreso la linea di basso di “Melody” in “Karmacoma”), nonché venerata da Michael Stipe (interprete di una cover di “Hôtel Particulier” nell’antologia celebrativa Monsieur Gainsbourg Revisited del 2006) e campionata dai De La Soul (Ah! Melody in Held Down, da AOI: Bionix del 2001). Eppure fu un capolavoro per caso, secondo Vannier: “A volte penso che tutto ciò che è venuto dopo, il successo dell’album e il mito che ora lo circonda, sia parte di un enorme equivoco: certi aspetti di Melody… che oggi sembrano essenziali erano allora assolutamente insignificanti per noi”. Egli stesso l’ha rievocato il 21 ottobre 2006 sul palco del Barbican di Londra dirigendone l’esecuzione integrale affidata alla BBC Concert Orchestra e al Crouch End Festival Chorus, con la partecipazione di alcuni degli strumentisti originari (Wright, Sullivan e Flick) e vari ospiti in voce, fra cui Jarvis Cocker, Badly Drawn Boy, la chanteuse Brigitte Fontaine e Mick Harvey, ex partner di Nick Cave nei Bad Seeds in fissa con Gainsbourg, al quale ha dedicato quattro dischi di tributo. Esperienza replicata due anni più tardi alla Cité de la Musique di Parigi (con il cineasta Mathieu Amalric e Brian Molko dei Placebo, tra gli altri) e nell’estate del 2011 all’Hollywood Bowl di Los Angeles (nel cast: Beck, Mike Patton, Sean Lennon, Ed Droste dei Grizzly Bear e Victoria Legrand dei Beach House, accanto all’attore Joseph Gordon-Levitt e a Lulu Gainsbourg, figlia del rapporto con Caroline Paulus, alias Bambou, nata nel 1986).
Frattanto a rinfocolarne il mito, in prossimità del ventennale della scomparsa, aveva provveduto nel 2010 il lungometraggio diretto dal fumettista Joann Sfar, all’esordio dietro la macchina da presa, vincitore di tre premi su otto nomination ai César: quelli per l’attore protagonista assegnato a Éric Elmosnino, il film di un regista debuttante e il sonoro. Il valore di Gainsbourg, Vie Héroïque si deve anzitutto all’intreccio fra il resoconto dell’aneddotica che rese scandalosa la vita del nostro (anti)eroe e il contrappunto allegorico fornito dai caricaturali alter ego La Gueule e Professeur Flipus, che rappresentano la tormentata autocoscienza dell’artista francese in un’estensione da cartoon del doppio depravato da lui creato: Gainsbarre. In qualche modo, egli stesso aveva provato a immortalare nel 1980 la propria identità complessa in Evguénie Sokolov, un’“autobiografia iperastratta” specifica il sottotitolo dell’edizione italiana curata da Isbn, che ha rinominato il volumetto Gasogramma, ponendo l’accento sulla prerogativa bizzarra del personaggio: pittore che tramuta un’imbarazzante disfunzione organica in strumento creativo, impiegando a fini espressivi le flatulenze. Una metafora dell’esistenza dell’autore, il cui disordine comportamentale era inscindibile dal suo estro vulcanico. Non avremmo insomma il Gainsbourg che conosciamo senza le volute di fumo delle Gitanes e i vapori alcolici che aleggiavano in permanenza intorno a lui: cause del primo infarto patito nel maggio 1973, cui seguì una paradossale intervista sul letto d’ospedale concessa a France-Soir durante la convalescenza.
Era una strategia dell’eccesso che sfociava in sortite offensivamente eclatanti: l’album a soggetto del 1975 Rock Around the Bunker sulla Germania del Terzo Reich, aperto da Nazi Rock con le SS che ballano durante la Notte dei Lunghi Coltelli vestiti da drag queens; la torbida traduzione cinematografica da regista esordiente di Je T’Aime, Moi Non Plus nel 1976, con Jane Birkin al fianco di Joe D’Alessandro e un cammeo di Gérard Depardieu; la rivisitazione sarcastica della Marsigliese a ritmo di reggae, realizzata nel 1979 in Giamaica e ribattezzata Aux Armes et Cætera (“Le Figaro” scrisse che per questo gli si doveva revocare la cittadinanza); l’indecente duetto con la figlia Charlotte, allora 13enne, nell’eloquente singolo del 1985 “Lemon Incest” (prendendo spunto musicalmente dall’Etude N° 3 Op. 10 di Chopin), situazione scabrosa riproposta in Charlotte Forever, film da lui diretto l’anno seguente, nell’aprile del quale partecipò ubriaco a un talk show televisivo per famiglie e disse a Whitney Houston: “Ti voglio scopare”. “Per me la provocazione è ossigeno”, spiegava. Di tutte le oscenità, la più celebre rimane l’orgasmo celebrato in hit parade da “Je T’Aime… Moi Non Plus”, per lui “la canzone d’amore definitiva”: tour de force erotico concepito in origine per Brigitte Bardot (nel lungometraggio di Sfar impersonata da Lætitia Casta) e registrato con lei nel 1968, insieme al 45 giri “Bonnie and Clyde” e all’LP Initials B.B., dove nel brano omonimo spicca una citazione del primo movimento della Sinfonia dal Nuovo Mondo di Antonin Dvořák. B.B. però si tirò indietro in extremis su sollecitazione del marito, il playboy miliardario Gunther Sachs, cosicché quella versione rimase inedita sino al 1986: una volta incassato il rifiuto opposto da Marianne Faithfull, il compito di sospirare e mugolare fu assegnato a Jane Birkin (che in Vie Héroïque ha le fattezze della sventurata attrice inglese Lucy Gordon, morta suicida poco dopo la fine delle riprese), con cui già si era espresso in 69 Année Érotique. Due fra le bellissime nel suo curriculum da “sciupafemmine”, nel quale figurano inoltre Catherine Deneuve e Isabelle Adjani, nonostante tutto fosse fuorché un bell’uomo: naso adunco, orecchie a sventola, basso di statura. L’overdose di argomenti da gossip non può offuscarne comunque la levatura artistica, sintetizzata nel 2011 da una commentatrice su The Guardian con l’aforisma: “La risposta francese a David Bowie, Mick Jagger e John Lennon avvolta in una nube di controversia”.
Figlio di ebrei ucraini emigrati a Parigi ai tempi della Rivoluzione, era nato con la gemella Liliane il 2 aprile 1928 all’Hôtel Dieu, il più antico ospedale della capitale. Registrato all’anagrafe come Lucien Ginsburg, da adolescente sperimentò sulla propria pelle il veleno antisemita degli occupanti nazisti (memorabili le scene del film in cui ostenta con fierezza impertinente la coccarda gialla a forma di stella che identificava gli ebrei) e imparò di malavoglia a suonare il pianoforte per assecondare il volere paterno, quando ad appassionarlo era soprattutto la pittura, vocazione assecondata studiando all’École Nationale Supérieure Des Beaux-Arts. La sua educazione musicale si compì nel dopoguerra, tra i fumi dei piano bar e gli echi del jazz da Rive Gauche, avendo quale modello la poetica stralunata di Boris Vian, riecheggiando i “maledetti” (nel 1962 avrebbe musicato Le Serpent Qui Danse di Baudelaire, trattamento riservato l’anno prima a La Chanson de Maglia di Victor Hugo: “Tu sei meravigliosa e io sono brutto”, a proposito) ed eleggendo a musa Juliette Gréco. Scelse allora lo pseudonimo con cui lo conosciamo, in onore del pittore inglese Thomas Gainsborough, e divenne culto da bohémien. Tutto ciò lo rese chansonnier sui generis, sensibile a ogni tipo di suggestione e istintivamente onnivoro: dal beat della Swinging London ai ritmi latini, intercettando via via e facendo propri i codici del funk afroamericano, del punk, del reggae e addirittura dell’hip hop, Gainsbourg non si fece mancare nulla, da “furfante eclettico” qual era, nella definizione dell’insigne estimatore James Ballard.
Insediato dal 1969 nell’abitazione dalle pareti nere al numero 5 bis di Rue de Verneuil, a due passi da Boulevard Saint-Germain, nel Settimo Arrondissement, divenne così prototipo pop dell’intellettuale postmoderno. Ed è stata appunto tale attitudine a renderlo nel tempo figura influentissima sulla scena musicale, fonte d’ispirazione per artisti della più varia specie, dai connazionali Air al californiano Beck (non a caso entrambi produttori di lavori discografici della figlia Charlotte). Senza dimenticare che, oltre a comporre canzoni (più di 550 in totale), manifestava il proprio talento irrequieto come pittore, scrittore e regista cinematografico: Salvador Dalì lo chiamava per questo Maestro, non essendone ricambiato. A morte avvenuta, fu Jane Birkin a coniare per lui l’epigrafe perfetta: “Era un genio travestito da clown”. Quando il suo cuore di sessantaduenne, affaticato da un’esistenza di abusi, cessò di battere nella notte fra l’1 e il 2 marzo 1991, per qualche momento la Francia trattenne il respiro. Per pronunciare poi – con un pizzico di garbata ipocrisia – parole di encomio postumo e unanime per bocca di personaggi fra loro antitetici, dall’allora presidente François Mitterand (“Era il nostro Baudelaire, il nostro Apollinaire”) alla star antagonista Manu Chao. Più prosaicamente, lui avrebbe scelto forse il “requiem per un coglione” intonato su 45 giri nel 1968. Diceva di sé: “Nella mia vita c’è una trilogia, un triangolo equilatero diciamo, e non intendo isoscele, di Gitanes, alcolismo e ragazze”. E nell’intervista acclusa nel 1958 al primo long playing, Du Chant à la Une, alla domanda “Chi vorrebbe essere se non fosse chi è?”, rispondeva: “Il marchese De Sade. O Robinson Crusoe”.