E ra il 5 marzo, primo giorno di chiusura delle scuole in tutta Italia, ancora non era entrato in vigore il lockdown, e sui social resistevano gli strascichi della discussione “il coronavirus è solo un’influenza”, “no, è un’emergenza di portata planetaria”. Quello stesso giorno, per la trasmissione di La7 Piazzapulita le telecamere entrarono nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Cremona (ASST), per mostrare che quella ancora percepita da molti come una minaccia lontana poteva in realtà colpire, e duramente, ovunque e chiunque. In tanti hanno poi confessato di essersi resi conto per la prima volta, vedendo quei corpi inerti, anche dall’aspetto assai giovane, intubati, alcuni nella posizione “pronata” che poi anche i non addetti ai lavori hanno imparato a riconoscere come la più adatta a facilitare la respirazione per i polmoni colpiti dalla COVID-19, di quanto grave e inedita fosse la situazione.
L’ingresso delle telecamere all’interno della terapia intensiva (dove in quel momento si trovavano 11 pazienti) ha suscitato anche un’altra discussione: quella tra chi ha sostenuto fosse legittimo e anzi utile mostrare nella loro crudezza quelle scene, superando l’obiezione di un eventuale diritto alla tutela della vita privata, e quella di chi è rimasto colpito dai rischi di spettacolarizzazione di un servizio televisivo che di fatto sembrava violare l’intimità più profonda delle persone, esponendole nel momento della massima debolezza, incoscienti e sedate in un letto d’ospedale. È un dilemma che si pone spesso quando si deve raccontare la salute, la malattia, la medicina e l’altro grande tema tabù connesso a questi: la morte.
Il primo problema che forse si pone per giornalisti e fotoreporter che hanno a che fare con persone malate (ma anche ferite, o comunque in situazioni di vulnerabilità) è quello del permesso e dell’opportunità di ritrarle. A chi giaceva in quei letti della terapia intensiva non è stato possibile chiedere il consenso alle riprese. Ma in quel caso la domanda se fossero d’accordo non è stata posta neppure ai loro familiari.
Come mi ha confermato Stefania Mattioli, responsabile della comunicazione dell’ASST di Cremona, cui l’ho chiesto nei giorni scorsi, l’ingresso della troupe nel reparto è stato concordato con la direzione sanitaria dell’ospedale. “Abbiamo molto riflettuto su come comportarci” mi ha detto. “Siamo stati i primi a far vedere che cosa erano diventate le terapie intensive, quando ancora molti non si rendevano affatto conto della situazione, e fuori c’era chi si lamentava che i bar chiudessero alle 18. Il servizio di Piazzapulita ha cambiato la percezione di molti”.
Come bilanciare il diritto di informare con quello alla tutela della vita privata?
Mattioli ha anche precisato che le riprese sono state fatte con il massimo garbo e rispetto; di non aver ricevuto in seguito lamentele dai pazienti o dai loro familiari, ma anzi molti commenti di approvazione per il servizio, e che nei giorni successivi altri pazienti hanno deciso di rendere pubblica la loro testimonianza.
Di sicuro, da quel 5 marzo in poi, dubbi sulla gravità della situazione, sui rischi di collasso dei reparti destinati ad accudire i malati più gravi tra quelli affetti da COVID-19, oltre che sulle condizioni ai limiti della resistenza in cui erano da giorni costretti a lavorare medici e infermieri, non sono più stati avanzati. Immagini drammatiche di pazienti intubati, racchiusi come astronauti dentro i caschi che aiutano la respirazione o soccorsi nelle loro case con le maschere dell’ossigeno hanno iniziato ad apparire e a farsi sempre più frequenti, suscitando sempre meno stupore, diventando anzi quasi l’ordinario.
Uno straordinario, sconvolgente articolo pubblicato dal New York Times (disponibile anche in italiano), realizzato a Bergamo, parla dello stesso tema – la malattia e la morte nella pandemia – mostrando immagini per certi versi analoghe a quelle del servizio televisivo: persone soccorse nelle loro case, letti sfatti e pigiami, e poi in ospedale, intubati o con i caschi per la ventilazione. È del 27 marzo, due settimane lo separano dal primo servizio. E anche questo ci interroga. A quali condizioni è lecito che lo sguardo del giornalista, e con il suo quello di telecamere e fotocamere, si intrometta nell’intimità della vita delle persone, in particolare quando sono malate e si trovano nei luoghi destinati a prendersene cura? Come bilanciare, in poche parole, il diritto di informare con quello alla tutela della vita privata?
Se le persone non sono riprese in volto, e quindi non sono riconoscibili, da un punto di vista strettamente formale non si pone la questione della protezione dell’immagine come dato personale secondo la disciplina del Regolamento europeo sulla privacy. E probabilmente neppure quella dell’eventuale abuso dell’immagine di una persona, regolata dall’articolo 10 del Codice Civile e dalla legge sul diritto d’autore. Ci sono però in ballo altri diritti, doveri, e tutele, dal punto di vista di chi fa il mestiere dell’informazione.
A quali condizioni è lecito che lo sguardo del giornalista si intrometta nell’intimità della vita delle persone, in particolare quando sono malate?
Sono stata – lo dico apertamente – tra coloro cui il servizio di Piazzapulita ha provocato un profondo disagio. L’articolo del New York Times mi ha invece commosso, mi ha colpito, in maniera diversa. E non ho potuto fare a meno di riflettere sul perché. Il senso di disagio per il servizio di La7 è stato forse acuito dal fatto che mi sono tornate in mente le volte in cui dall’altra parte – da quella del giornalista che aveva a che fare con persone malate, e che in quanto tale ha compiuto delle scelte – ci sono stata io?
Mi è capitato di entrare negli ospedali per raccontare di un intervento, di un farmaco in sperimentazione, per vedere in azione un nuovo strumento. Mi sono trovata in corridoi, stanze, sale operatorie dove ho visto pazienti addormentati, intubati, sotto i ferri. E calpestando quei corridoi mi è capitato di chiedermi se avrei voluto che occhi estranei, a mia insaputa, guardassero attraverso il vetro mio padre o mia madre, sul tavolo operatorio. Non mi sono data risposte: ho solo sperato che, se fosse accaduto, fossero occhi rispettosi.
Ma non sono state le occasioni di maggiore disagio. Altre volte sono stata più in dubbio su quel che fosse giusto fare e mostrare. Ricordo distintamente un servizio realizzato parecchi anni fa, a Torino, per raccontare dal di dentro come funzionava il soccorso sanitario con l’istituzione del numero unico dell’emergenza, il 118, e l’opera delle varie pubbliche assistenze. Per la testata per cui lavoravo, insieme con un collega fotografo, passammo una notte “aggregati” a una squadra di soccorritori della Croce Verde, seguendo l’ambulanza nei vari interventi. A distanza di anni, riesco a ricordare distintamente quasi tutte le case in cui entrammo e le persone soccorse: la signora spaventata nel letto, l’anziano pallidissimo sdraiato per terra nel corridoio, il ragazzo che aveva preso un calcio durante una rissa fuori da un bar…
Ma più di tutto ricordo una sensazione indelebile e straniante: nonostante mi sia qualificata non appena ne ho avuto l’occasione (non sempre è stato immediato, per non intralciare i soccorritori), nessuno mi ha prevenuto chiedendo chi fossi, perché me ne stessi in disparte a prendere appunti a casa loro nel cuore della notte mentre qualcuno stava male, e chi fosse la presenza ancora più ingombrante – in teoria impossibile da ignorare – che scattava fotografie. Nessuno. Avevo immaginato di dover fornire spiegazioni, chiedere permessi, fornire credenziali. Neppure una volta mi sono trovata a farlo.
I codici deontologici pongono paletti, ma non possono dettare il comportamento nelle specifiche circostanze in cui ci si trova: ogni caso è a sé.
Ci piacerebbe credere di essere nel nostro lavoro solo dei testimoni neutrali. Quasi mai è così. Un altro episodio mi è tornato in mente. Quella volta ero andata per documentare come si svolgeva il lavoro all’interno del pronto soccorso di un grande ospedale milanese, da poco ristrutturato secondo criteri innovativi. Tra i pazienti di quella mattina, una caldissima giornata d’inizio primavera, ci furono diversi anziani, il “pubblico” abituale del pronto soccorso, alcuni bambini che si erano fatti male in casa. E un giovane, svenuto mentre giocava a tennis, verso l’ora di pranzo. Al pronto soccorso era arrivato ancora tutto sporco di terra rossa per la caduta, ma perfettamente cosciente.
Mentre il medico di turno lo visitava, io osservavo a distanza in compagnia del primario. La visita e gli esami non mostrarono niente di allarmante, e mentre il medico suggeriva di tenerlo sotto osservazione per alcune ore, tranquillizzandolo perché riteneva che il malore fosse stato un semplice colpo di calore in quella giornata afosa anzitempo, il primario suggerì di fare per scrupolo una Tac alla testa. Non potei fare a meno di pensare che a quel ragazzo l’esame era toccato “per colpa mia”. La mia presenza, la volontà di mostrare a una giornalista venuta a documentare e sperabilmente raccontare dell’efficienza del reparto, secondo me avevano avuto un ruolo nel far intervenire il medico con quel suggerimento. Non dissi niente, trascorsi la mattinata a fare altri giri e vedere il resto del reparto. Nel pomeriggio passai a salutare il primario nel suo studio e chiesi se mi poteva aggiornare su come si erano concluse le vicende dei pazienti che avevo visto la mattina. Chiesi anche del giovane tennista. “Ho sentito ora arrivare un fax, deve essere il referto della Tac, lo prenda” mi invitò. Prendendo in mano il foglio dalla macchina, alcune parole mi saltarono agli occhi come fossero evidenziate. Lo porsi al medico, dissi che non mi parevano buone notizie. Rimase in silenzio anche lui qualche secondo. “Sembra un tumore” disse.
Ci ho ripensato tante volte. All’ingiustizia di avere saputo io per prima – un’estranea capitata lì per caso – di una diagnosi grave che riguardava un’altra persona, al macigno che si stava per abbattere sulla vita di quel ragazzo, a come, forse, se non fossi stata lì io, quella notizia non sarebbe arrivata quel giorno, e chissà se era un bene o un male, a come, senza averne l’intenzione, avevo dato un buffetto alla traiettoria del destino di un altro essere umano.
Non ci sono soluzioni facili quando si tratta di scegliere quali immagini mostrare, che cosa raccontare quando si ha a che fare con la vita privata e la salute. Il Testo Unico dei doveri del giornalista ricorda all’articolo 10 che il giornalista,
nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali.
D’altra parte, la pubblicazione di dati e immagini sulla salute, è ammessa nel contesto “dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona”. Anche le Linee guida per la salvaguardia della privacy sui media codificate dal Consiglio d’Europa suggeriscono che in linea di principio il giornalista dovrebbe cercare di ottenere il consenso della persona di cui viene presa l’immagine, a meno che non si tratti di affrontare una questione di pubblico interesse. Le parole chiave, in questi testi e codici deontologici, sono “rispetto della dignità della persona” e “pubblico interesse”. I codici deontologici pongono paletti, ma non possono arrivare a dettare il comportamento nelle specifiche circostanze in cui uno si trova: ogni volta è un caso a sé.
C’è un’immagine ormai iconica che provoca di solito reazioni fortemente contrapposte: quella dell’uomo – una sagoma non identificata – che cade nel vuoto giù da una delle Torri Gemelle nell’attacco dell’11 settembre 2001. Vedere una persona nell’attimo che precede la sua fine terribile, anche se non è riconoscibile, anche se non avrà mai un’identità, è per alcuni intollerabile e scandaloso.
E ci sono punti di vista che ci possono far riflettere su quello che facciamo da un’altra prospettiva. A metà marzo, Nana Kofi Acquah, un fotografo del Ghana, ha scritto sul suo account Instagram a proposito della pandemia: “Più di 3mila decessi in Italia, e nessuna immagine di morti o morenti. Cari fotografi bianchi, potete fotografare l’Africa con lo stesso livello di rispetto ed empatia? La dignità è un diritto umano fondamentale, non un privilegio per pochi”. Quella “dignità” – dice Acquah – è presente nelle immagini che i fotografi occidentali riprendono nei loro paesi, ma spesso manca quando gli stessi vanno a scattare in Africa, ritraendo senza alcuna pietas i malati di Ebola, o i loro corpi morti.
Empatia e rispetto sono parole che vanno riempite di significato ogni volta da capo.