R ingrazio la Grecia per essere la nostra aspida europea in questi tempi”. Aspida, è questo il termine scelto dal presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per ringraziare Atene che, a cavallo tra febbraio e marzo, ha dovuto far fronte al “ricatto della Turchia”. La parola deriva dal greco antico ἀσπίς [-ίδος, ἡ] e significa scudo, o in senso figurato difesa, riparo. Ma anche scontro, combattimento, battaglia. E proprio quest’ultima accezione sembra essere quella più adatta per descrivere la situazione che si è creata sul confine sud orientale dell’Unione, dove le forze armate greche hanno fatto più volte ricorso alla violenza per arginare il fiume di rifugiati provenienti dalla Turchia.
Eppure la Grecia, come tutti i Paesi membri dell’Ue, aderisce a un sistema comune di valori, che si fonda sul rispetto della dignità e dei diritti umani. Principi che avrebbero dovuto impedire ad Atene di sospendere le richieste d’asilo per vietare l’ingresso a nuovi migranti, spinti sul confine dal governo di Ankara. Si tratta quindi di una chiara violazione che il massimo rappresentante del potere esecutivo dell’Unione ha deciso di non condannare, anzi.
Il perché di questa scelta ha diverse ragioni, molte delle quali hanno a che fare con una gestione comunitaria dei flussi migratori che fa acqua da tutte le parti. “L’attuale sistema – spiega a il Tascabile Brando Benifei, capo della delegazione italiana nei Socialisti e Democratici (S&D) al Parlamento europeo – non consente una gestione ordinata e solidale del fenomeno dei richiedenti asilo verso l’Europa. Per questo è necessario il superamento del principio del Paese di primo approdo (regolamento di Dublino) o comunque una sua sostanziale mitigazione”. Non può sorprendere quindi che un Paese che deve far fronte a una pressione migratoria straordinaria decida come prima cosa di sospendere il principio di non-refoulement, per evitare un vertiginoso aumento dei richiedenti asilo sul proprio territorio. Profughi che, stando alle norme in vigore, sono destinati a rimanere per anni alle porte d’Europa, senza che gli altri Paesi si facciano carico dell’emergenza.
Del superamento del regolamento di Dublino si discute da oltre un decennio. Sotto osservazione è proprio il principio del primo Paese d’arrivo, secondo il quale lo Stato competente a esaminare una domanda di asilo è quello in cui un migrante ha fatto il suo ingresso nel territorio europeo. La prima versione dell’accordo è stata siglata nella capitale irlandese nel 1990. Si trattava di una convenzione, sottoscritta dagli iniziali 12 Paesi membri, che aveva lo scopo di armonizzare le politiche dei singoli Stati dell’Ue in tema di asilo. Nel 1999, con il trattato di Amsterdam, ha preso forma il regolamento Dublino II (in vigore dal 2003), che ha reso il diritto d’asilo competenza comunitaria. L’ultima modifica applicata è datata invece 2014, Dublino III, che ha confermato l’impostazione iniziale, e introdotto alcune novità, tra cui maggiori tutele per i minori e un ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare.
Del superamento del regolamento di Dublino si discute da oltre un decennio. Sotto osservazione è in particolare il principio del primo Paese d’arrivo.
Le politiche europee di asilo attualmente assicurano a ogni richiedente che la sua domanda sia esaminata nel rispetto della convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Richieste che, a causa del principio del primo Paese d’arrivo, inevitabilmente si accavallano nei Paesi alle frontiere meridionali dell’Unione. La maggiore pressione migratoria in questi Stati causa diversi problemi, tra cui la lentezza nell’esame delle domande: i richiedenti spesso aspettano anni prima di ricevere una risposta, rimanendo sul territorio italiano, greco o spagnolo.
Il criterio del primo Paese d’arrivo è il nodo gordiano del regolamento di Dublino e condiziona ogni tentativo di istituire un efficiente sistema di asilo. Sotto la spinta della crisi migratoria legata alla guerra in Siria si è provato, inutilmente, a scioglierlo: la Commissione europea, allora presieduta da Jean-Claude Juncker, ha presentato nel 2016 una proposta di riforma con un meccanismo correttivo di ridistribuzione dei richiedenti asilo dagli Stati soverchiati di richieste. A livello comunitario, la procedura legislativa ordinaria prevede che una proposta della Commissione venga vagliata in parallelo e separatamente sia dal Parlamento che dal Consiglio Europeo, i quali possono modificarla tramite emendamenti. Esaminando questa proposta, Il Parlamento Europeo ha votato nel novembre 2017 un testo ancora più ambizioso: un sistema obbligatorio di quote sostituiva il principio del primo Paese d’arrivo, l’onere di valutare le domande passava così dagli Stati di frontiera a tutti i membri dell’UE. La fase successiva del processo decisionale sono i cosiddetti “triloghi”, negoziati fra le tre istituzioni per raggiungere un accordo definitivo, una sorta di compromesso fra le rispettive posizioni.
Ma a questo punto non si è mai arrivati. “Il Parlamento ha fatto la sua parte. È stato il Consiglio l’anello mancante nel processo legislativo”, afferma Juan Fernando López Aguilar, deputato socialista spagnolo che presiede la Commissione parlamentare europea per le Libertà civili (LIBE). “I Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia, e Slovacchia, n.d.r.) hanno innescato una dinamica negativa, contraria alla solidarietà europea. E gli altri non hanno saputo reagire”. Nel giugno 2018 la Bulgaria, che deteneva la presidenza di turno del Consiglio, ha promosso un tentativo di conciliazione rifiutato da 11 Paesi. La proposta non includeva quote di ripartizione obbligatorie e il suo contenuto era così poco incisivo che non hanno aderito nemmeno Italia e Spagna, da sempre favorevoli a un nuovo regolamento.
Difficile del resto trovare una sintesi, quando ci sono governi arroccati su posizioni estremamente ostili ai flussi migratori. “Si nota una certa resistenza da parte di vari Stati membri ad applicare persino le norme esistenti. Preferiscono entrare in conflitto con le istituzioni europee piuttosto che adeguarsi”, sottolinea Brando Benifei, deputato alla seconda legislatura e capo della delegazione del Partito Democratico all’Europarlamento. Un caso emblematico è quello dei ricollocamenti emergenziali decisi dalla Commissione per alleggerire il peso migratorio su Grecia e Italia nel settembre 2015. In quell’occasione Polonia, Ungheria e Cechia si sono rifiutati di accogliere la propria quota, inadempiendo di fatto agli obblighi comunitari, come ha stabilito di recente La Corte di giustizia dell’Unione europea. “In certi Stati – aggiunge Benifei – non c’è solo un atteggiamento politico attivo, ma anche una resistenza passiva dei sistemi amministrativi”.
È difficile trovare una sintesi, quando ci sono governi arroccati su posizioni estremamente ostili ai flussi migratori.
La Commissione Von der Leyen è, almeno a parole, decisa a invertire la rotta. Dopo un giro di consultazioni nelle capitali europee, presenterà a breve una nuova proposta di riforma. “Il regolamento di Dublino è morto”, ha dichiarato il Commissario greco Margaritis Schinas, e quello nuovo potrà chiamarsi “Accordo di Lesbo” o “Accordo di Lampedusa”. Ma al di là di un nome suggestivo, servirà una buona dose di equilibrismo politico per produrre un meccanismo al tempo stesso efficace e accettabile da tutti i Paesi. Per il vicepresidente dell’Esecutivo europeo il nuovo accordo dovrà poggiare sui pilastri di “solidarietà efficace” e “responsabilità equa”, tenendo conto delle esigenze dei singoli Stati e mettendo a disposizione una serie di incentivi.
In attesa di questa proposta, nell’Europarlamento si prende posizione sul tema. “Vogliamo una responsabilità condivisa fra gli Stati membri, per evitare che i richiedenti asilo rimangano bloccati su qualche isola”, spiega a Il Tascabile Tineke Strik dei Verdi olandesi, membro della Commissione LIBE. Il gruppo Greens/EFA, di cui Strik fa parte, è tra i più attivi sul tema e promuove diverse proposte per scardinare il sistema attuale.
I Verdi, nello specifico, puntano su un meccanismo in due fasi. Chiunque presenti una domanda di protezione, a prescindere dalle reali chances di ottenerla, entra nel sistema di redistribuzione. La prima fase, “solidarietà volontaria”, prevede un’open-call: regioni e comuni europei che accettano di accogliere quote di richiedenti asilo vengono finanziati al 100% tramite il Fondo Asilo e Migrazione (FAMI). Gli enti ricevono i fondi comunitari in maniera diretta, bypassando così di fatto le (spesso riluttanti) autorità nazionali. Una soluzione vantaggiosa da entrambi i lati, secondo Strik, con le comunità locali che possono ricollocare in base ai loro bisogni e i richiedenti asilo che si sentirebbero benvenuti. Nonostante gli incentivi, tuttavia, non è scontato che scatti una gara di solidarietà europea. Per questo esiste un secondo step: esaurite le proposte di ricollocazione volontaria, si procede con una key distribution che individua il totale di richiedenti asilo da ripartire in ogni Stato membro. I criteri sono la popolazione del Paese e il Pil, più il numero di richiedenti accolti con la “‘solidarietà volontaria” e quello di rifugiati arrivati con corridoi umanitari da Paesi terzi, entrambi calcolati in percentuale sul totale degli abitanti.
Così ogni membro dell’UE avrebbe una sua quota equa di richiedenti asilo in attesa di risposta. Chi non volesse farlo, comunque, può pagare tutti i costi relativi ad accoglienza e integrazione per i “suoi” migranti a un altro Stato. E, scommettono i Verdi, a nessuno piacerà finanziare beni e servizi che alimentano l’economia altrui invece che la propria. Oppure, i Paesi maggiormente contrari ad accogliere i migranti contribuiranno di più, in termini economici, al sistema comune di accoglienza. L’extrema ratio di questa proposta prevede anche dei ricollocamenti obbligatori in uno Stato riluttante, previa procedura di ammonimento da parte della Commissione europea. Per Strik sono i contesti nazionali a fare la differenza. Alcuni appaiono ostili, altri accetterebbero questa soluzione. “Il governo dei Paesi Bassi ad esempio non prenderebbe mai migranti volontariamente. Ma tende a rispettare i suoi obblighi comunitari”.
La proposta dei Verdi olandesi prevede che ogni membro dell’UE abbia una sua quota equa di richiedenti asilo in attesa di risposta.
Fra i punti chiave del progetto dei Verdi c’è un approccio umanitario all’asilo, che tenga in considerazione le preferenze dei diretti interessati. L’attuale regolamento prevede la possibilità di chiedere protezione soltanto a un Paese, quello di primo ingresso: una misura volta a evitare il cosiddetto asylum shopping, l’inoltro di più domande diverse da parte della stessa persona. Nella proposta dei Greens/EFA, la richiesta d’asilo resta una sola, ma ogni migrante potrebbe esprimere fino a 5 preferenze sullo Stato a cui presentarla, basandosi su criteri come legami famigliari, conoscenza della lingua o esperienze lavorative precedenti. Non sarebbe facile incrociare queste preferenze con il sistema di quote, ma i Verdi sostengono che “nessuno dovrebbe essere ricollocato contro il proprio consenso”. Se tutte le scelte di un richiedente sono indisponibili, gli viene offerto di decidere fra i Paesi rimasti e, come ultima opzione, di fare domanda nello Stato di primo ingresso. Una procedura del genere dovrebbe scoraggiare i secondary movements, gli spostamenti irregolari dei richiedenti asilo da un Paese dell’UE all’altro, spiega Strik. “Credo che chiunque preferisca aspettare, se ha la possibilità di arrivare dove vuole in modo regolare”.
In quest’ottica rientra anche l’auspicata modifica della Direttiva 2003/109, che riguarda il diritto dei cittadini extracomunitari di spostarsi nell’UE. Al momento chi ottiene un permesso di soggiorno deve restare 5 anni nel Paese che glielo ha concesso, un lungo lasso di tempo che spinge molti a intraprendere vie alternative. “Ma se io potessi cercare lavoro da un’altra parte dopo un anno – sottolinea Strik – non mi sentirei bloccato dove ho chiesto asilo. E accetterei più volentieri di attendere lì la mia risposta”.
Su posizioni simili a quelle dei Verdi si attestano anche il gruppo dei Socialisti e Democratici, (il secondo più numeroso dell’Eurocamera, a cui appartiene il Pd), e la sinistra radicale (Gue/Ngl). L’altra metà dell’Emiciclo è più restia, afferma ancora Benifei. “L’estrema destra ha un atteggiamento demolitorio: sostenere proposte funzionali a livello comunitario non conviene a chi costruisce il suo consenso alimentando paure”. A favore di una riforma netta potrebbero giocare i liberali del gruppo Renew Europe e, per il deputato del PD, anche una fetta del Partito Popolare Europeo, quella più lontana da Orbán e più vicina a principi cristiano-democratici di rispetto della dignità umana. Ottimismo con riserva, dunque, sull’esito del dibattito parlamentare. Nonostante l’aumento dei nazionalisti rispetto alla passata legislatura, persiste nell’Eurocamera una maggioranza pronta alla condivisione della responsabilità, che dovrebbe partorire un testo simile a quello del 2017.
A pochi minuti di cammino dal Parlamento di Bruxelles c’è il palazzo Europa, dove si riunisce il Consiglio Europeo. È questo il “collo di bottiglia” della riforma di Dublino, il luogo dove i nodi verranno ancora al pettine. Ci sarà ancora un blocco orientale ideologicamente contrario a ogni tentativo di redistribuzione e, secondo Benifei, pure una possibile resistenza da parte dei Paesi scandinavi, tradizionalmente più aperti all’accoglienza dei rifugiati ma forse meno propensi a un sistema d’asilo comune. “Potrebbero essere spaventati da un meccanismo che non controllano a sufficienza, nella convinzione che riescano a far meglio da soli”. E ci sarà, infine, una logica diplomatica e intergovernativa da soddisfare, per cui l’unica strada percorribile è “bilanciare” una vera riforma di Dublino con compromessi su altre norme in ambito migratorio.
Nonostante l’aumento dei nazionalisti rispetto alla passata legislatura, persiste nell’Eurocamera una maggioranza pronta alla condivisione della responsabilità.
Il rischio concreto è che un nuovo fallimento metta in luce “una crisi più generale di legittimità e di funzionamento delle istituzioni europee”, dice Benifei evidenziando la sostanziale indisposizione degli Stati nazionali a negoziare con il Parlamento riconoscendolo come soggetto paritario. Secondo la procedura ordinaria, infatti, l’approvazione delle politiche di asilo in Consiglio richiede una maggioranza qualificata: una proposta può passare con l’appoggio del 55% dei Paesi UE (15 su 27), rappresentanti del 65% della popolazione totale. Per bocciare una proposta servirebbe quindi una minoranza consistente o in termini numerici, o di peso specifico dei suoi componenti. Ma in linea generale il Consiglio punta a ottenere l’accordo unanime fra capi di Stato e di governo anche quando non è tenuto a farlo. Un’impostazione risalente al Compromesso di Lussemburgo del 1966, funzionale a non imporre decisioni penalizzanti nei confronti di nessuno. Ma anche una pericolosa esposizione ai veti dei Paesi non allineati, “un’unanimità impossibile”, come la definisce López Aguilar.
Il risultato è una sostanziale condanna all’immobilismo che rischia di minare il progetto europeo alle fondamenta. Non sono bastate, infatti, l’emergenza migratoria del 2015, con le immagini dei bambini annegati in mare, per arrivare a una soluzione condivisa che desse forma ai proclami del momento. A cinque anni di distanza i problemi sono rimasti pressoché gli stessi e gli ostacoli per giungere a un accordo efficace rimangono difficili da superare. A maggior ragione in questi mesi, in cui l’emergenza coronavirus sta definitivamente mettendo a nudo tutte le fragilità di un’Unione nata per “rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri”, e che invece rischia di rimanere imbrigliata in egoismi feudali. “Sempre più cittadini si chiedono dove sia l’Europa di fronte alle grandi sfide – conclude Aguilar. “Se l’Unione non troverà le risposte giuste, milioni di cittadini si dissoceranno dal progetto europeo, con danni irreparabili per tutti”.