C i sono voluti due mesi per vedere il presidente cinese Xi Jinping comparire di persona a Wuhan. Il leader di Pechino si è recato nella città epicentro dell’epidemia di COVID-19 solo il 10 marzo, quando ormai l’emergenza contagio era ampiamente rientrata. In sua vece, una donna ha presidiato senza interruzione le zone colpite dal virus, incontrando il personale medico, supervisionando la costruzione di nuovi ospedali e dando indicazioni ai funzionari locali. Perentorie e senza giri di parole. “I disertori saranno inchiodati al pilastro della vergogna per sempre”, intimava lo scorso 6 febbraio Sun Chunlan, 70 anni, vicepremier con delega alla Sanità e all’Istruzione nonché unica donna del Politburo, il potente organo composto da 25 membri che controlla il partito comunista cinese.
Con una laurea in meccanica e un trascorso lavorativo in una fabbrica di orologi della provincia nordorientale del Liaoning, Sun è uno dei pochi volti femminili della politica cinese. Il suo ingresso nel Partito Comunista Cinese risale agli sgoccioli della rivoluzione culturale. Da allora è stata un’ascesa inarrestabile attraverso la gerarchia comunista. Prima come segretario del partito di Dalian (2001) e della provincia meridionale del Fujian (2009). Poi come capo del partito della città portuale di Tianjin, prima donna ad ottenere l’incarico in una delle quattro municipalità controllate direttamente dal governo centrale. Una posizione che le ha aperto le porte del Politburo, proiettandola nel 2014 al vertice del Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito, agenzia di intelligence utilizzata per raccogliere informazioni e gestire le relazioni con partiti democratici, intellettuali, dissidenti, gruppi religiosi ed etnici, accademici, imprenditori ed altre figure influenti non direttamente associate al partito comunista o residenti all’estero.
Come scrive John Dotson, editor del progetto China Brief presso la Jamestown Foundation, proprio quest’ultima esperienza professionale potrebbe averla catapultata a Wuhan. Un destino segnato il 26 gennaio scorso, tre giorni dopo l’imposizione del regime di quarantena, in concomitanza con l’istituzione di un gruppo di lavoro “guidato dal comitato permanente del politburo per rafforzare la leadership e la direzione unificata nella prevenzione e il controllo dell’epidemia”. Un team presieduto dal primo ministro Li Keqiang – comparso brevemente in città alla fine del mese – ma di cui Sun è diventata cinghia di trasmissione con l’amministrazione locale. E soprattutto con la popolazione.
“È una finta, è tutta una finta!” sono le accuse urlate dalla finestra di un complesso residenziale di Wuhan presso il quale, poche settimane fa, la vicepremier si è recata per testare l’umore dei cittadini in isolamento dal 12 febbraio e sincerarsi della regolare distribuzione di medicine e beni di prima necessità. Mansione che i comitati di quartieri dovrebbero svolgere quotidianamente ma che, a causa di “formalismo e burocrazia”, i negligenti compagni del distretto di Qingshan hanno improvvisato sul momento solo per compiacere la leader in visita.
“I disertori saranno inchiodati al pilastro della vergogna per sempre” ha dichiarat Sun Chunlan, vicepremier con delega alla Sanità e all’Istruzione nonché unica donna del Politburo.
“In politica, le donne vengono considerate più abili nel comprendere la gente comune e ottenerne la fiducia nei periodi di crisi””, spiega al South China Morning Post l’analista indipendente Hu Xingdou, alludendo al malcontento generale causato dal ritardo con cui le autorità provinciali hanno ammesso pubblicamente la gravità del contagio. Non è un caso che anche ai tempi della Sars, nel 2003, sia stata sempre una figura femminile a dirigere i soccorsi.
Conosciuta all’estero soprattutto per aver negoziato l’ingresso della Cina nella World Trade Organization, fu Wu Yi, la prima vicepremier donna dell’era post-maoista, ad accogliere la delegazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità giunta oltre muraglia per verificare la reale entità dell’epidemia dopo il prolungato insabbiamento da parte del governo cinese. All’epoca rotolarono diverse teste, compresa quella del ministro della Sanità, Zhang Wenkang, destituito per far posto proprio a Madame Wu. Il brillante lavoro svolto come leader del gruppo speciale d’indagine le è valso il soprannome di “Goddess of Transparency” e una menzione nella lista delle 100 personalità più influenti del 2004 stilata dal Time. Definendosi una “little woman”, a distanza di tempo, ha ricordato ai microfoni dell’emittente CCTV il senso di inadeguatezza provato nell’accettare l’incarico: “una vera sfida”.
Dopo diciassette anni, le donne cinesi sono tornate dietro le quinte, adombrate da incombenti controparti maschili. Il loro “cielo è ancora basso e le loro ali e piume ancora sottili”, ammetteva tempo fa l’ex viceministro degli Esteri, Fu Ying, una delle “lady di ferro” più popolari della politica cinese. Le responsabilità invece crescono. Mentre Sun Chunlan è ancora a Wuhan, ora che la guerra contro il virus sembra volgere vittoriosamente al termine, l’attenzione dei media statali è ormai tutta rivolta al presidente Xi. Per l’occasione l’ufficialissimo People’s Daily ha rispolverato l’appellativo onorifico di “leader del popolo” (lingxiu), concesso soltanto a Mao Zedong (“grande lingxiu”) e al suo immediato successore Hua Guofen (“saggio lingxiu”). D’altronde, dalla caduta dell’impero in poi, la storia della politica cinese risulta ininterrottamente dominata da uomini forti.
Tutt’oggi, secondo il Global Gender Gap Report 2020 stilato dal World Economic Forum, il gigante asiatico si posiziona novantacinquesimo per coinvolgimento femminile nella macchina amministrativa. Dalla fondazione della Repubblica Popolare nel 1949, solo sei donne hanno raggiunto il politburo, mentre attualmente sono due quelle a ricoprire posizioni ministeriali. Nessuna è mai diventata presidente né segretario generale del partito. Appena un quarto dell’Assemblea nazionale del popolo, il massimo organo legislativo, è composto da donne, malgrado dal 2008 l’introduzione di quote rosa riservi loro almeno il 22% delle poltrone. Motivando il declino di tre posizioni rispetto all’anno precedente, il rapporto individua proprio nella modesta rappresentanza femminile in politica il principale ostacolo verso la parità di genere oltre la muraglia.
Secondo il Global Gender Gap Report 2020 la Cina si posiziona solo novantacinquesima per coinvolgimento femminile nella macchina amministrativa.
Nel settore sanitario le cose non vanno meglio. Mentre, stando alla All-China Women Federation, il personale medico in prima linea è composto soprattutto da donne, la maggior parte delle eroine coinvolte nella battaglia contro l’epidemia rimane relegata nell’anonimato. Basta pensare al protagonismo mediatico di Li Wenliang (il medico-whistleblower stroncato dalla malattia a 33 anni) e Zhong Nanshan (lo pneumologo noto per aver confermato la trasmissibilità del virus da persona a persona), laddove solo pochi sanno che i primi casi di polmonite atipica sono stati scoperchiati dalle controparti femminili Zhang Jixian e Ai Fen verso la metà di dicembre.
Se molte persone guariranno dal virus, probabilmente, sarà ancora una volta grazie a una donna: Chen Wei, esperta di biochimica e virologa dell’Accademia Militare delle Scienze Mediche, che da metà gennaio studia la malattia e forgia le armi per combatterla dal Wuhan Institute of Virology. Già nota per il contributo fornito durante la Sars, il terremoto del Sichuan (2008) e l’epidemia di Ebola in Africa, Chen non solo ha sfruttato la carica di Maggiore Generale per mediare tra il personale medico e il team militare dispiegato dal governo centrale in sostegno alle risorse locali insufficienti. Fin dall’inizio della crisi, la cinquantaquattrenne ha lavorato indefessamente alla creazione di una cura. La terapia del plasma – ottenuto dal sangue dei soggetti guariti dall’infezione – sviluppata dalla squadra di Chen rientra tra i pochi trattamenti sperimentali contro la COVID-19 riconosciuti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma è indicativo che la Maggiore Generale sia recentemente balzata agli onori della cronaca non per la sua dedizione scientifica, bensì per il suo presunto patriottismo. Voci di corridoio rimbalzate sul web cinese – con il placet dei censori – raccontano di come la donna e i suoi colleghi abbiano deciso di iniettarsi un nuovo vaccino ancora da testare. Gesto eroico che dovrebbe riaffermare la piena fiducia nei confronti del lavoro svolto e la propria devozione al paese.
Sacrificio e amor patrio sono una costante nelle storie riportate dalla propaganda ufficiale. Fin dall’inizio dell’epidemia, le difficoltà incontrate dai soccorritori in prima linea sono state strumentalizzate per stimolare la resilienza collettiva e distrarre l’opinione pubblica dagli inciampi commessi durante la gestione della crisi. La scarsità di attrezzature mediche è comparsa sui media statali cristallizzata nell’immagine del personale sanitario stremato dalla fatica. I volti segnati dalle mascherine e bagnati dalle lacrime hanno dato umanità a quella che Pechino ha definito una “guerra del popolo”.
In questa narrazione del dolore, ritorna con insistenza martellante un’iconografia femminile dai toni struggenti: dalle infermiere costrette alla rasatura dei capelli alle “guerriere” dello Shanghai University Hospital invitate a ritardare artificialmente il ciclo mestruale per “motivi igienici”. Gli effetti non sono stati quelli sperati. Con una leadership tutta maschile, l’apologia untuosa dell’immaginario femminile per scopi politici gode ormai di scarso consenso anche in una società patriarcale come quella cinese. “Basta usare il corpo delle donne come mezzo di propaganda!”, titolava un articolo divenuto virale su WeChat prima di finire vittima della censura.