H o sempre avuto la sensazione che la scrittura maschile italiana abbia due modalità, quella eterosessuale e quella omosessuale. È una teoria infondata e strampalata su cui si reggono diverse mie radicate convinzioni. C’è una linea che va dalla Divina Commedia fino a Calvino, Parise e Moravia: quella linea prende le cose molto seriamente. E c’è una linea, che io chiamo omosessuale, e tratto come dei nonni preferiti, che va da Boccaccio ad Arbasino a Walter Siti. L’ho sempre vista così: a differenza della discendenza eterosessuale, che finiva nei Sillabari, paradossali e ironici come Dante, ma sempre un po’ impostati e seri, a quest’altra linea di discendenza si permetteva di prendere davvero in giro, senza ulteriori tentativi di edificazione, la natura italiana.
Quasi dieci anni fa scrissi un saggio su di lui per Nuovi Argomenti. Lo cominciai citando un suo libro, Specchio delle mie brame: “E più tardi, nell’interminabile pomeriggio, che cosa potranno fare, poveretti? Francesca dipingerà: mazzi di rose, tramonti, il ritratto della mamma. Forse suona anche il piano, o ricama, o prega. E Fulco catalogherà pietre, o insetti, o fossili? Si ricorrerà agli animali imbalsamati? Magari, folaghe? Si arriverà addirittura alle conchiglie? Comunque, una giornata lenta, pigra, meridionale, qualunque. (Quella ‘twilight zone’ lavanda e violetta fra il ‘conosci te stesso’, l’autoritratto, e le pippe.)”
Il disinteresse di Arbasino per la salvezza è sempre stato la mia colazione dei campioni letteraria. Leggere Arbasino vuol dire leggere sempre per il gusto di mandare tutto al diavolo, e vuol dire quindi poi prendere così anche ogni altro libro: voler sentire come suona e cosa racconta, ma non cosa insegna. “Francesca dipingerà”: ma sì, ma che ti vuoi riscattare, è una famiglia italiana. Io combatto da sempre con il problema di Giacomo De Benedetti che inventa il concetto di “personaggio uomo” per dire che nel Novecento finalmente si arriva ad avere personaggi che sono persone, non caratteri, non macchiette, non personaggi, in definitiva. La scrittura di Arbasino è tutta un “sì, sì, va be’” a questa idea. All’idea, molto sostenuta invece dai nonni del ramo etero, da Dante a Parise e Calvino, che si debba sempre comunque fare un grande sforzo per capire cosa si salva, cosa si riscatta, che ci facciamo con la letteratura e che ci facciamo sulla terra.
Nel pezzo per Nuovi Argomenti citavo il ritratto di madre: ma sì, al diavolo anche la madre. Eccola:
Nei confronti dei figli, anche
en plen air, Stefania propone un monotono ritrattino di madre convenzionale, rigorosa, bigotta, quasi tiranna. Li tratta sempre con una certa durezza, un certo distacco, una vera antologia di tutte le cose che non si dovrebbero fare se si desidera che crescano senza complessi.
La mia teoria non tiene, e che io abbia avuto problemi con il Personaggio Uomo non è niente di memorabile. Però, nel vivere con la sensazione che non ci fosse niente da salvare, che la letteratura fosse una curatela fallimentare in cui si selezionavano cimeli di famiglie in rovina mescolate a calendari scaduti e radioline, che non valesse che a questo, a inventariare stoltamente, felicemente, come per far fallire i propri e altrui ricordi due volte, scegliendoli e poi disponendoli sulla pagina, Arbasino, e con lui la sua versione diabolica, Walter Siti, mi hanno sempre lasciato la speranza che si potesse ancora risalire a Boccaccio, ai suoi amplessi per ripicca, alle suore innamorate.
La madre di Specchio delle mie brame “riesce intanto a dominare i figli e a conservarli bambini, quasi senza sforzo, forse proprio perché li tiene così a distanza: mai un po’ amica, mai ‘confidenziale’ tipo da donna a donna con Francesca”. Il romanzo è ambientato in una specie di 1898 molto permeabile al futuro. “E per far sì che la figlia rimanga bambina”, scrivevo, “la rimprovera ‘come una piccina o una povera scema, perché non mangia abbastanza pasta’”.
Scrivevo: “I suoi libri fanno un’unica grande famiglia stipata in salotto, sala da pranzo, tinello, una famiglia a perdita d’occhio, sempre di ritorno da un ricevimento; da una prima comunione”. Per me questa famigliona (la stiamo riscoprendo dai balconi e dai bollettini delle sei di queste settimane) non merita nessun Personaggio Uomo, solo macchiette, perché quell’umanesimo della persona perbene che legge i romanzi e impara le cose è una sventura: siccome leggono i romanzi per diventare migliori poi gli scrittori devono essere bravi e indicare le cose giuste, le evoluzioni, i miglioramenti. Ma poi noi siamo sempre soggetti a queste famiglione, a queste reti che fanno di noi solo le buffe macchiette che tutti sanno: a che serve un riscatto morale? Molti romanzieri passano le vite a elaborare complessi archi narrativi per i loro personaggi e poi invece fanno scelte ultra macchiettistiche, arbasiniane, il matrimonio giusto, oppure la fidanzatina giovane, la mossa fuoriposto con l’ufficio stampa o l’orazione civile su twitter… Nei romanzi, però, archi narrativi complessissimi, a salire.
Arbasino no, aveva studiato relazioni internazionali (non ricordo più se è vero o se a un certo punto decisi che fosse così perché faceva tornare i conti), lui vedeva oltre questi microscopici problemi di riscatto morale.
In una delle puntate di una rubrica che tenevo su minimaetmoralia, poi diventato un libro, raccontavo come il giovanissimo Arbasino delle Piccole vacanze, l’autore che ancora prometteva di diventare un semplice romanziere di genio invece che un grande antiquario/sfasciacarrozze, fosse capace di rendere giustizia alle comparse dei propri racconti con pochissimi dettagli. Al bar:
È venuta una volta la Clara, che magra, oggi ancora più deperita di prima, invecchia anche lei, o forse non sta bene. A corto d’argomenti, è l’ombra della matta dei tempi belli, anche se cerca disperatamente di tener su il morale a sé e agli altri. Ma fa compassione. Non ha trovato di meglio che raccontarci la storiella di un cassiere di banca, che dovendo contare un pacco di soldi a una bellissima bionda le fa: «sessantasei, sessantasette, sessantotto, almeno, settanta…» ma ha ammesso subito che è debole, visto che si rideva poco. Mi guardava spesso, in macchina ha tentato di venirmi vicina, ma io ho finto di non capire. Faceva meglio a stare a casa.
Ha sempre saputo fare così bene queste miniature da potersi permettere di non fare veri e propri romanzi. O la buttava sul troppo grande, riscrivendo Fratelli d’Italia tanto per fare il gran gesto che ogni tanto serve, o la buttava sul minuscolo, appunto Specchio delle mie brame, La bella di Lodi… Perché per esempio qui, alla Clara del racconto “I blue jeans non si addicono al Signor Prufrock”, cos’altro possiamo offrirle? La possibilità di un “dramma borghese”? Una svolta, un impegno, un riscatto? La Clara racconta questo aneddoto, ma ammette che è debole, poi tenta di farsi sotto, di provarci. E questo spietato narratore che pensa che una donna che non riesce a fare una battuta come si deve o a sedurre qualcuno tanto vale che stia a casa… magari con quelle famiglie che si ingozzano di pranzi della domenica.
Che bello che per Arbasino sia tutto qui: recuperare tutti i registri, le mossette, i toni, i volumi, come un Robert Altman, e usarli per dire delle verità così veloci che poi una verità consumabile da mettere nel risvolto di copertina non c’è più modo di ricavarla. “Con molto più smalto della Clara”, scrivevo, “Arbasino riesce a far sembrare condanna e assoluzione la stessa identica cosa, a essere crudele e allo stesso tempo pietoso, a suscitare la tanto agognata empatia senza darlo a vedere; anzi, direi, lo fa in una maniera tale che se qualcuno glielo andrà a dire lui potrà negare di averlo fatto”.
Il mio ricordo di Arbasino è questo: è il ruolo che ha avuto nel farmi conservare un unico interesse, il gioco di voci che è il romanzo, o la narrativa in prosa. Se hai rubato la voce a qualcuno e la puoi rifare con profondità, ma senza irrigidirla, e puoi mischiarla alle altre voci che hai rubato, devi essere felice così. Grazie a lui ho potuto continuare a vivere di contraddizioni e ambivalenze, considerando letteratura la magia non tanto delle parole – nel senso di feticci da collezione – ma dei discorsi e dei mondi che producono discorsi.
Dieci anni fa pensavo che Arbasino non avesse fatto il Grande Romanzo Italiano perché traviato dal Gruppo 63, perché aveva avuto come unico interlocutore degno di interesse, dal basso del suo snobismo terrificante, un intero gruppo di avanguardisti, e non poteva dunque fare la gara con il romanzo popolare alla Moravia/Morante e vedersela con La storia. Adesso non è che ho cambiato idea, è che proprio non mi interessa più perché l’abbia fatto o non fatto, né sento più la mancanza di un Prodotto Arbasiniano passato per il troubleshooting dell’editing del publishing, come avrebbe detto lui magari, non so. Ma mi sono distratto di nuovo: volevo solo dire che avrei dovuto scrivere un Ricordo di lui, e raccontare magari qualche succoso dettaglio delle due volte che ci ho avuto a che fare. E lo farò in chiusura, ma il fatto è che Arbasino è stato il tipo di scrittore che ti serviva, che ti serviva urgentemente per farti una vita, per vivere da scrittore, per cui i dettagli sul suo divano a L di lunghezza interminabile scivolano così inutilmente, un po’ bolsi, alla fine di questo pezzo, dove devo citare che quando andai a intervistarlo per IL lui mi fece sedere a un capo di un lunghissimo divano dopo avermi mostrato il piccolo passaggio con pavimento a quadrati retroilluminati stile discoteca: tutti dettagli su cui avrei potuto scrivere questo pezzo se per me lui fosse stato solo un grande scrittore da ritrarre e io un lettore innamorato delle biografie degli scrittori, cosa che non sono.
Forse l’unica cosa interessante da dire è questa: sul lungo divano, me ne accorsi sedendomi, erano appoggiati, a un metro da dove mi ero seduto, un mio libro, e la copia di Nuovi Argomenti dove c’era il mio pezzo su di lui. Io li vidi, ma lui non li segnalò, li lasciò lì, da quell’esperto di relazioni internazionali che era, e poi mi raccontò una vagonata di fatti suoi che si ambientavano nel centro di Roma nel Novecento. Né durante né dopo indicò mai i libri, e ci salutammo, e me ne andai. Nel mio pezzo su di lui io cercavo di darmi possibili spiegazioni del perché non avesse scritto romanzi borghesi:
D’altra parte può darsi che scrivere senza personaggi, più che una risposta al problema internazionale della piega presa da Flaubert e poi, dopo, Musil, Proust e Joyce, sia una necessità locale, italiana: l’Italia è particolarmente inadatta al personaggio romanzesco, alle sue ascese e cadute, ai suoi tentativi di definirsi, di trovarsi. In
Uno, nessuno e centomila Pirandello mostra come un italiano, nel momento in cui si mette a ragionare da individuo, può solo venir considerato pazzo. Se l’Italia è ferma e i suoi abitanti non si muovono che insieme, in un mulinello, eternamente postprandiali, fra i comò e le ribaltine, forse il romanzo-saggio senza personaggio è perfetto per l’Italia.
E c’era anche un finale in cui paragonavo Arbasino a una tarma: “Come la tarma, Arbasino ha pensato che se la lana romanzesca non si trovava perché era stata esaurita si doveva mangiare di tutto – il nylon, il raion, la filanca – con ottimismo” per farci letteratura, letteratura di scarti, fatta da uno snob nel gioco dei generi che dicevo, “e così Arbasino ha fatto dopo che Flaubert, Joyce e Proust hanno reso irreperibile sul mercato la vera lana del romanzo: ci ha dato altro, ma senza lamentarsi, e con invidiabile stile, senza neppure passare per umorista, ci ha spiegato l’Italia precisamente”. Chiudevo citando una cosa sua non ricordo più da dove, che mi fa ancora ridere moltissimo: “C’è la romanza della tarma 1938, che ricorda con nostalgia i tempi del Lanital, fatto col latte, che è un vero capolavoro con una mucca e dove si capisce tutto, anche il fascismo”.
Lui, come faceva con tutti, spedì un bigliettino per me alla redazione di Nuovi Argomenti. Non so in quale scatola di ricordi l’ho messo, ma più o meno diceva: “Grazie. Aggiungo che si è tentata sempre in ogni libro una nuova strada”.
Io avevo scritto quel pezzo al tempo stesso strisciando e lanciandomi con audacia nelle mie teorie su di lui, che erano poi le teorie che al tempo mi servivano a sopravvivere; e poi ero andato a casa sua a fargli un’intervista di pagine e pagine, gliel’avevo fatta praticamente in ginocchio. Al primo pezzo aveva risposto con quella precisazione da matti: che bisogno c’era di spiegarlo a me? Con un bigliettino? Che bisogno c’era di precisare? Eppure mi aveva lasciato in eredità un’informazione precisa: non solo non faccio Prodotti Arbasiniani, mi aveva detto; non solo semino nel vento tutto il mio talento e non lo faccio capitalizzare in opere accessibili e educative – ma in più, ogni volta lo faccio diversamente. La sua versione, credo, del Fail better, ma non solo. La sua è stata una ostinazione tutta personale, che non aveva davvero interlocutore; a pelle lo paragonerei a ostinati come Miles Davis, Michael Jordan: ma Davis e Jordan avevano scelto linguaggi universali, e i registri adell’Italietta non sono universali. C’è ostinazione anche nel secondo omaggio: al posto del più chiaro bigliettino, la seconda volta si era limitato a piazzare lì i libri come a dire: ho presente di cosa parliamo, di te, e di te che scrivi di me, e infine c’è la mia intervista che ora ti concedo. Ma non lo stava dicendo davvero a me, lo stava dicendo a qualcun altro, forse solo a sé. La sua era l’ostinazione quasi inspiegabile di chi può combattere solo con avversari mentali.
Sembrava un esteta, un originale, uno che si piaceva magari troppo, e invece lui stava tutto il tempo continuando quel ragionamento, e quella litigata, né con me, né con Moravia, né col Gruppo 63, tutto solo: che grande.