I n un brano di Pastorale americana di Philip Roth, uno dei personaggi, parlando della propria casa, afferma: “Tutti ne abbiamo una ed è lì che tutto va storto”. Dare una definizione della parola casa dovrebbe essere un compito facile. Il significato di questo lemma è qualcosa che ci appartiene ben prima di un’elaborazione semantica; qualcosa che conosciamo in maniera immediata. Eppure la casa si dice in molti modi; può assumere, per ogni persona, sfumature molto diverse. Allo stesso tempo, è il nido in cui trovare riparo, l’inferno da cui fuggire, l’espressione della nostra interiorità, l’archivio dei ricordi e delle inquietudini intrecciate nei fili del passato. La casa, nella psicologia e nella cultura occidentale, oscilla tra l’intimità e il perturbante. Cinema e letteratura hanno usato spesso la casa come hidden character: dalla Xanadu di Orson Welles alle case infestate delle atmosfere gotiche e horror, assumendo sempre più i tratti di metafora dello spazio psichico, di luogo in cui si manifesta il ritorno del rimosso. Quello gotico, ad esempio, è forse l’immaginario letterario più potente elaborato dalla cultura occidentale per mettere in discussione il senso di concetti come “familiare”, “intimo” e “proprio”. Cosa ci appartiene della nostra casa? Cosa possiamo controllare e cosa conosciamo delle tracce invisibili inscritte tra le mura? Cosa ci dicono della nostra vita?
Il critico letterario Fred Botting, nella sua monografia Gothic, ha definito il gotico “un’estetica negativa”; un tipo di immaginario che ha a che fare con un certo fascino per il vizio, l’immoralità e i sentimenti di disgusto, popolata da personaggi ambigui che si muovono nell’ombra di vecchi luoghi in rovina, tracce fantasmatiche di eventi traumatici del passato. Nell’epoca della sua nascita, convenzionalmente ascritta al 1764 con la pubblicazione de Il castello di Otranto di Horace Walpole, il genere correva su due binari in contraddizione: da una parte, le storie della letteratura gotica mettevano in scena le pulsioni sessuali e immorali albergate nel profondo dell’individuo in funzione educativa; dall’altra, metteva in luce quella porzione di interiorità che la società vittoriana cercava di reprimere. L’approfondimento dell’introspezione psicologica, insieme al venir meno dell’etichetta di “letteratura bassa”, porta il romanzo gotico a diluire i tratti più stereotipati del genere. Lungo la modernità, cioè, si attesta sempre più come un dispositivo concettuale, come una grammatica per raccontare qualcos’altro.
Negli ultimi anni, autori come Ahmed Saadawi (vincitore del Prize for Arabic Fiction per Frankenstein in Baghdad) e Sarah Perry (autrice di Melmoth, che nel titolo riprende il romanzo omonimo di Charles Robert Maturin del 1820), sono arrivati a rielaborare personaggi e luoghi classici della letteratura gotica per discutere di temi politico-sociali come razza, classe e identità. Già nel corso del Novecento si parla raramente di letteratura gotica in senso stretto. Le storie di fantasmi continuano a esistere, certo, ma non più come un genere specifico. Come fa notare Walter Benjamin nei Passages, con l’avvento della riproducibilità tecnologica (dalla fotografia alla radio), l’intero mondo moderno introietta nel quotidiano un senso di spettralità. L’evoluzione della letteratura gotica è quindi legata a doppio filo all’evoluzione tecnologica. L’avanzare della civiltà industriale, ad esempio, cambia gli scenari del genere: le città si ingrandiscono, aumentano gli angoli oscuri dello spazio urbano parallelamente al crescere di crimine e povertà. Se da una parte la scienza amplia i limiti dell’uomo, dall’altra mina la centralità dell’essere umano nell’universo, facendo sorgere nuove fantasie e mitologie aliene, come nei racconti di H.P. Lovecraft.
Attraverso il terrore capiamo che il mondo non è fatto su misura per noi. Il nostro dominio sulla realtà, esterna o interiore, è limitato. E anche ciò che consideriamo uno spazio sicuro è sempre a rischio di essere invaso da presenze altre. Anche l’idea di fantasma si evolve in una direzione più esplicitamente psicanalitica. La tecnologia – in un mondo che assisteva alla diffusione di massa della radio e del cinema – diventa il nuovo medium attraverso cui “evocare” gli spettri. Basti pensare a L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells rielaborata da Adolfo Bioy-Casares ne L’invenzione di Morel del 1940. L’isola dello scrittore argentino è permeata da un’atmosfera spettrale grazie alle immagini in movimento degli amici del dottor Morel; tracce riprodotte in un’eterna messa in scena dalla fantasmagorica invenzione che dà il titolo al libro, una sorta di fonografo di morte. “Forse abbiamo sempre voluto che la persona amata avesse un’esistenza di fantasma”, dice il narratore.
Nelle case infestate della letteratura gotica oggi scorre energia elettrica.
La tecnologia, come intuisce il romanzo di Bioy-Casares, ha un rapporto spettrale con la vita delle persone. Dall’esplosione della fotografia a inizio Novecento agli archivi digitali, il mondo si riempie di tracce. In questo modo, il passato degli individui esce fuori dai cardini del tempo per essere catturato in un limbo fantasmatico, letteralmente indimenticabile. Fred Botting definisce i dati digitali non a caso “fantasmi semiotici”, frammenti di vita che in qualsiasi momento possono tornare a ossessionare il presente, impermeabili alla funzione selettiva della memoria. Qualcosa di simile avviene anche nella letteratura cyberpunk, dove il territorio psichico è direttamente contaminato/hackerato dalle presenze invisibili che si muovono nel cyberspazio. D’altronde, la cultura cyberpunk richiama esplicitamente motivi gotici; a cominciare dalla visione post-umana ripresa dal Frankenstein di Mary Shelley. Un’influenza esplicitata, ad esempio, da William Gibson nel finale di Neuromante quando Case raggiunge un edificio, Villa Straylight, descritto come una tipica villa decadente uscita dai romanzi di fine Ottocento.
Nelle case infestate della letteratura gotica oggi scorre energia elettrica. Autori come Mike Flanagan in ambito cinematografico e Mark Z. Danielewski in letteratura hanno contribuito più di tutti a rielaborare il tema della haunted house. Il nome di Flanagan ha raggiunto ormai il pubblico mainstream grazie al successo di Hill House, serie tv tratta dal celebre romanzo di Shirley Jackson L’incubo di Hill House, e di Doctor Sleep, il seguito di Shining. Sono entrambi incentrati sul tema della casa come luogo che interagisce con la psiche, come teatro in cui prendono vita i traumi del passato sotto forma di presenze, un tema che ricorre in tutta la sua filmografia a partire dal suo primo lungometraggio Absentia. Nei suoi primi anni da regista il nome di Mike Flanagan si fece conoscere nei festival indipendenti con una serie di film a basso budget caratterizzati da sceneggiature particolarmente originali.
Di questo periodo fa parte Oculus (2013). Il plot del film è incentrato su un dramma familiare, sul tentativo di una donna di scagionare il fratello dalle accuse di omicidio del padre e sul potere paranormale di un vecchio specchio d’antiquariato di proprietà della famiglia. Uno degli aspetti più interessanti del film è il ruolo centrale che gioca la tecnologia nella creazione dell’atmosfera horror-gotica del film. Le presenze spettrali di Oculus (che curiosamente è anche il nome di una società americana che si occupa di realtà virtuale), infatti, possono essere riconosciute e smascherate tramite gli schermi dei dispositivi tecnologici; tanto che nella parte finale del film viene allestita un’intera casa con dispositivi smart, allarmi e schermi digitali.
Come già in Poltergeist di Tobe Hooper (1982), lo schermo è un medium tra due regni. L’atmosfera di Oculus profetizza così l’ultima versione possibile delle haunted house nell’epoca digitale: dall’avvento della televisione all’internet of things e le case smart, le abitazioni si riempiono di presenze invisibili, di voci disincarnate che echeggiano tra le mura. In rete si moltiplicano le testimonianze di momenti inquietanti accaduti con queste nuove tecnologie: uno scambio di risate tra Google Home e Alexa nel cuore della notte, dispositivi che si accendono all’improvviso, interazioni impreviste tra intelligenze artificiali, interferenze su cui viaggiano voci non appartenenti al proprio spazio domestico. Il sentimento ricorrente nella letteratura gotica è una stranezza per cui anche nella solitudine rassicurante della nostra abitazione non siamo mai realmente soli; c’è sempre qualcuno o qualcosa in ascolto, di cui non conosciamo le reali intenzioni. Quel senso di eeriness, di perturbante nel cuore dell’intimità, con l’avvento delle smart-house assume una nuova forma. E la casa diventa un territorio alieno.
Gli schermi sono il mezzo attraverso cui interagire con i fantasmi moderni, confrontarsi con i frammenti della propria vita persi nella tempesta digitale.
Mark Z. Danielewski ha esplorato l’altro grande significato archetipico della casa: quello dello spazio interiore, metafora della mente o espressione materiale della propria psiche. In molta produzione contemporanea che si muove a partire dall’elaborazione di motivi gotici, l’esplorazione dello spazio interiore in chiave perturbante sviluppa una spinta già presente nei personaggi tipici della letteratura gotica, i quali si presentavano come una sorta di negativo dell’uomo profetizzato dall’Illuminismo nel Diciottesimo secolo. Al contrario di quest’ultimo, i personaggi del romanzo gotico sono preda delle proprie passioni, incapaci di esercitare un dominio razionale su una supposta interiorità potenzialmente sempre trasparente, ma anzi sono affascinati dalle zone d’ombra del proprio Sé (basti pensare alla figura del doppelgänger, come nel caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde o ai racconti di Edgar Allan Poe); spesso questi personaggi si perdono nell’anelito a indagare i rimossi della propria psiche. Casa di foglie riprende queste suggestioni, a cominciare dal tema della casa infestata, e le innesta in un impianto postmoderno.
Il romanzo di Danielewski si svolge attraverso molteplici linee narrative. La prima è quella di Zampanò, narratore cieco che redige un manoscritto in cui commenta con perizia accademica uno strano docu-film girato dal fotografo Will Navidson nella sua nuova abitazione di Ash Tree Lane, casa in cui si è trasferito con la sua famiglia. La seconda è quella di Johnny Truant, il narratore che trova il manoscritto e rimane ossessionato dalla lettura. Infine c’è una terza linea, quella degli anonimi curatori che intervengono con brevi note alla scrittura di Truant. L’attendibilità di ogni narratore è compromessa fin dai primi capitoli, così come l’esistenza del film: in quanto non vedente Zampanò non può aver visto nessun film, di cui per altro Truant non trova alcuna traccia, nonostante nel manoscritto si parli di premiazioni e venga citata una folta letteratura accademica (che mescola autori reali e nomi inventati) a riguardo.
Pagina dopo pagina, la casa del film di Navidson si riempie di cunicoli e labirinti che spuntano dal nulla, perimetri che mutano in continuazione. Più l’edificio diventa una specie di organismo che interagisce con la psiche degli abitanti come il pianeta Solaris di Andrej Tarkovskij, più le visioni dei personaggi si approssimano al delirio. Il testo si riempie così di voci narranti che si mescolano tra loro, mentre la pagina si sfalda, perde letteralmente la formattazione canonica. Man mano che i personaggi esplorano le geometrie irrazionali della casa, la scena di Casa di foglie assomiglia alle sequenze di Inland Empire di David Lynch, in cui le tracce delle esperienze traumatiche dei personaggi portano il livello onirico, reale e psicologico della narrazione su un unico piano indistinto.
Un intero capitolo di Casa di foglie è dedicato al tema del labirinto, con Zampanò in versione borgesiana che spiega come ci si orienta da non-vedente nei corridoi del dedalo, istituendo una serie di metariferimenti alla sua vita, alla strana vicenda di Will Navidson nei corridoi oscuri dell’abitazione di Ash Tree Lane, alla letteratura e all’esistenza di Johnny Truant che legge il manoscritto. Similmente a quanto fa il filosofo Jacques Derrida (più volte citato in Casa di foglie) nel suo saggio Memorie di cieco, Danielewski sembra voler decostruire l’idea di una possibile visione chiara e distinta di se stessi, in contrapposizione a quella che Derrida definisce una “metafisica della visione” che avrebbe inaugurato il pensiero occidentale con Platone. Il saggio del filosofo francese, attraverso alcune opere del Louvre di Parigi, si concentra sul tema dell’autoritratto. Lo scacco dell’uomo di fronte alla sua connaturata pulsione autobiografica si genera dal punto cieco della sua prospettiva (il non poter ”vedere” realmente se stessi) e ha come esito la creazione di un universo finzionale del sé. Così Derrida ibrida critica d’arte, esistenzialismo e rimandi alla Decostruzione come corrente filosofica:
Questa cecità (dell’autore alle prese con l’autoritratto, ndr) non è semplicemente opposta o opponibile alla visione. Essa abita nel cuore della lucidità, della vista. Si può affrontare secondo diverse angolature. Pur seguendo un modello, nel momento in cui disegna l’artista avanza nella notte. Il solco del disegno avanza nell’invisibilità. D’altra parte, il tratto (ed è per questo che ciò vale più per il disegno che per la pittura) è esso stesso invisibile.
Derrida descrive l’uomo come un animale che continuamente cerca di scrivere la propria vita (auto-bio-grafia), e in questo atto cerca la rappresentazione impossibile di un Sé che non si dà mai tutto intero, ma si riverbera solo attraverso tracce, rimozioni e rimandi. I discorsi di Zampanò in Casa di foglie sembrano muoversi a partire da questo angolo filosofico. Le lacune del ricordo vengono colmate dal cervello con dettagli fittizi, nuove informazioni aggiunte dalla rievocazione mnestica. Per Danielewski, del resto, la casa è la scena autobiografica primaria, il grande testo – metaforico e reale allo stesso tempo – in cui si annidano le tracce della propria vita. L’intero romanzo può essere letto come un tentativo di autobiografia terapeutica o di smarrimento nei labirinti della propria psiche. La sensazione che ha il lettore è che la parola “casa”, sempre color ciano nelle ricorrenze testuali, possa essere sostituita con la parola “mente” senza che questo alteri il senso e lo svolgimento del romanzo. Scrive Zampanò:
Chi percorre un labirinto ha la vista ostacolata e frammentata, di fronte e alle spalle, quindi procede in preda alla confusione, mentre chi attende al di fuori de labirinto vede il quadro generale. […]. Cosa si vede dipende da dove ci si trova, pertanto il labirinto è allo stesso tempo singolo (esiste una sola struttura fisica) e doppio. […]. Può essere percepito come un percorso (un sentiero lineare ma tortuoso verso un obiettivo) o come un motivo (un disegno simmetrico). […] La nostra percezione dei labirinti pertanto è intrinsecamente instabile: se si cambia la prospettiva, anche il labirinto sembra cambiare.
Poco più avanti, Zampanò, come spesso avviene nel suo manoscritto, si sofferma sull’etimologia delle parole. La parola labirinto viene da labor, la cui radice labi significa “slittare” o “scivolare all’indietro”. Come spesso accade, Zampanò sembra perdersi in digressioni erudite, quando in realtà i suoi discorsi forniscono gli strumenti concettuali per interpretare i numerosi livelli di senso del romanzo. Più avanti prosegue:
Chi si perde in un labirinto dovrà rendersi conto che nessuno, neppure un dio o una creatura Altra, è in grado di comprendere il dedalo nella sua totalità […]. In questo senso la casa di Navidson è un esempio perfetto. Per via della configurazione in continuo mutamento, qualsiasi via d’uscita è singola e applicabile soltanto a chi si trova in quel particolare corridoio in quel preciso momento. Ogni soluzione quindi è necessariamente personale.
Per ritrovare la strada nella casa di Ash Tree Lane, bisogna procedere allora a passo di cieco. Camminare nell’oscurità, acuendo la percezione dei propri pensieri e affidandosi alle elaborazioni fantasmatiche della mente, consapevoli dell’impossibilità di una visione chiara e distinta. Johnny Truant, nel leggere e commentare a sua volta il manoscritto di Zampanò, elabora e cerca di mettere ordine nella sua vita disastrata. Attraversare gli spazi della casa di Ash Tree Lane significa abbandonare le certezze e le finzioni su cui i personaggi hanno costruito le proprie vite. I corridoi e le strutture della casa mutano come mutano i dettagli dei ricordi e i contorni dei vissuti esperienziali ogni volta che vengono riportati alla mente, fino a dimenticare la verità del vissuto originario. L’urlo di un genitore nel ricordo di un trauma infantile di Johnny Truant può assomigliare fin troppo al ruggito inumano che proviene dall’oscurità dei corridoi della casa di Ash Tree Lane del supposto docu-film di Will Navidson commentato da Zampanò. Spesso, le corrispondenze interne del testo, fanno pensare che si è di fronte a un unico personaggio. Una voce narrante che, attraverso la scrittura, creando una storia incredibile e inquietante, ha intrapreso un percorso nei labirinti della propria mente, nel tentativo di comprendere “il dedalo nella sua totalità”. Il tema della haunted house rappresenta allora l’impossibilità di una via di fuga da ciò che abbiamo attraversato nel tempo della nostra vita. Ma anche il rischio che comporta cercare di ricomporre il puzzle per intero.
Ogni parete, come i luoghi dello spazio urbano, reca invisibile le tracce del passato. Come scrive Simon Sellars in Ballardismo applicato, i fantasmi diventano “foschia psichica”. Ogni casa, così come l’architettura della mente, diventa perturbante nel momento in cui la consideriamo un safe space, uno spazio incontaminato. Casa di foglie, a seconda delle prospettive, assume quindi i contorni di un dramma familiare, del resoconto di una follia, di un trattato filosofico sulla scrittura come psicanalisi o come una parodia di tutto questo. Ma, anche qui, come nel cinema di Mike Flanagan, il medium tecnologico gioca un ruolo rilevante. Il docu-film di Will Navidson è il prisma intorno a cui si muovono le parabole esistenziali dei personaggi. Il tema dell’immagine mediale viene più volte affrontato dalle digressioni enciclopediche di Zampanò.
In un’epoca in cui l’io-fisico è attraversato ovunque da immagini digitali, in cui lo sguardo artificiale – dai social ai sistemi di sorveglianza – è diventato parte strutturale del quotidiano, anche i traumi possono essere riconosciuti solo in quanto simulati, appartenenti a un ego riprodotto su schermo, un’altra versione di noi stessi, il nostro doppelgänger virtuale, in una sorta di “gamification” totale dell’esperienza interiore. Come scrive Flavio Pintarelli su Not:
Viviamo in un’epoca in cui le relazioni sono mediate da interfacce […]. La proliferazione dei simulacri teorizzata dal postmodernismo è diventata l’orizzonte principale della nostra esperienza del mondo e i social network hanno accelerato a tal punto le dinamiche di costruzione dell’identità personale e autorappresentazione del sé da eliminare del tutto ogni tempo residuo, ogni possibile latenza.
Gli schermi sono il mezzo attraverso cui interagire con i fantasmi moderni, in cui intercettare il flusso delle tracce, confrontarsi con i frammenti della propria vita persi nella tempesta digitale.
Come detto in precedenza, il tema della haunted house e le atmosfere gotiche nella contemporaneità funzionano come una grammatica per raccontare altro; non è difficile rintracciare analogie con le ossessioni sulla “home invasion” di un regista come Michael Haneke. Nel suo cinema c’è un pattern ricorrente: la condizione di privilegio della classe media e della buona borghesia viene scossa da un evento improvviso che rivela la fragilità di quel territorio considerato privato, inviolabile e rassicurante. La violenza che minaccia la quiete domestica senza apparenti ragioni (Funny Games), un evento del passato che squassa la tranquillità famigliare (Niente da nascondere), una popolazione che mette in crisi uno stato di privilegio (Happy End). Un filo rosso che si potrebbe far arrivare fino al body horror di David Cronenberg, dove la decostruzione di ciò che definiamo e consideriamo proprio si estende fino all’elemento più intimo: il corpo, il luogo che demarca l’individuo, ma che non controlliamo, in cui infuria perennemente una tempesta genetica fin dal primo momento in cui nasciamo. Là dove c’è intimità c’è una finzione. Non siamo mai padroni a casa nostra. Perché una casa, nel senso di un luogo inviolabile, non c’è mai stata.