L’ intreccio al centro di La ragazza nel portabagli, novella del 1961 di John O’Hara ripubblicata da Racconti edizioni (traduzione di Vincenzo Mantovani), si può riassumere così: Jim Malloy, alter-ego dello scrittore, ricorda una vicenda avvenuta trent’anni prima a New York, all’epoca della depressione, quando lavorava come ufficio stampa per una casa di produzione cinematografica e dovette occuparsi di Charlotte Sears, diva non più sulla cresta dell’onda arrivata in città da Hollywood. Durante il soggiorno newyorkese, l’attrice si divide tra liti con il produttore, serate a teatro o negli speakeasy, e incontri con i suoi diversi amanti dell’alta società – o aspiranti tali –, tra cui il misterioso e temibile Thomas R. Hunterden. Il tutto, o quasi, con il giovane Malloy appresso.
Ma la trama non è l’aspetto più memorabile di La ragazza nel portabagagli, così come del resto della produzione di John O’Hara. Scrittore prolifico e dall’enorme celebrità in vita, firma di punta del New Yorker e autore di oltre quattrocento racconti e sedici romanzi, O’Hara non ha goduto di un destino postumo altrettanto fortunato, oscurato dai suoi contemporanei Fitzgerald e Hemingway. Sul desiderio di gloria e sulla sfacciata ambizione di O’Hara circolano ancora diversi aneddoti, tra cui l’epitaffio scelto per la propria lapide:
Meglio di chiunque altro, ha raccontato la verità della sua epoca, la prima metà del ventesimo secolo. Era un professionista. Scriveva bene e con onestà.
La ragazza nel portabagagli, più che raccontare una vicenda, in effetti, dà il sapore di un’epoca. “Il primo fattore determinante nella nostra vita fu il proibizionismo, che ci trasformò tutti in fuorilegge e diede un tocco arcano, sottilmente cospiratorio, al semplice atto di andare a cena fuori”. Un tratto cospiratorio che permea ogni situazione sociale: dagli affari trattati al tavolo fumoso di uno speakeasy, ai matrimoni combinati a un cocktail party, dove le arrampicatrici sociali si mescolano agli ereditieri annoiati. I soldi, le donne e la carriera scandiscono la novella di O’Hara, punti saldi per un giovane protagonista che “era, in quel periodo, libero quanto può esserlo un uomo” e osserva le dinamiche sociali con occhio smaliziato.
A una festa a casa di ricchi che “sembravano convinti, senza degnarsi d’informarsi gentilmente dei miei interessi e della mia ignoranza, che la loro lingua fosse anche la mia”, Malloy coglie la differenza di classe proprio in quella lingua, che da metafora diventa simbolo della distanza tra i due mondi: “le nostre voci, il nostro accento e noi stessi eravamo fuori posto in quella casa, in quella stanza”. La riflessione sulla classe scandisce tutta la novella, a volte in forma di allusioni passeggere, altre di dialoghi appassionati, altre di battute a mezza voce: in questi momenti la narrazione rallenta, si scosta da un parlato fitto a servizio della trama e da un movimento dalla qualità cinematografica. La novella di O’Hara respira anche in brevi descrizioni fulminanti, dettagli che riscattano immagini trite. Siamo sempre alla stessa festa di ricchi, fa il suo ingresso la donna più appariscente della serata: “Era nera, bianca e morbida. I suoi piccoli seni, alti e duri, premevano imperiosamente contro il raso lucido”. Sembra una delle tante femme fatale agghindate di paillettes e piume ma, continua Malloy con uno scarto improvviso: “Avevo visto seni come quelli su una prostituta d’alto bordo: tutto capezzolo e poca carne”.
Forse è proprio la tensione tra questi dettagli nitidi e scene ormai canonizzate, diventate stereotipi dell’epoca, ad aver segnato la fortuna e la sfortuna di O’Hara. L’alcol che trasuda dalle sue feste avrebbe poi intriso i cocktail party di Cheever, i suoi amori sensuali e disillusi avrebbero segnato le pagine dei racconti di Carver – persino guidato la parabola di Don Draper in Mad Men; l’influenza di O’Hara è imprescindibile nella storia della letteratura americana del novecento. Ma letta a posteriori, si ha l’impressione che la sua abbondante opera sia stata svuotata, quasi cannibalizzata, da un’originalità germogliata nel terriccio del suo realismo per dare fiori più immaginifici e più duraturi altrove. O’Hara sembra essersi eletto a tal punto interprete della propria epoca da dissolvercisi dentro, un tutt’uno con la rappresentazione degli anni che ha contribuito a immortalare; come ceneri sparse nella materia dei propri racconti.