F rank Westerman, giornalista olandese, ha scoperto la follia della letteratura ai tempi di Lenin e Stalin mentre studiava ingegneria agraria: gli ha dedicato un saggio, Ingegneri di anime: leggerlo è stato inebriante, un continuo scambio d’identità dovuto al mio percorso inverso, di studente di slavistica che scopre la vertigine delle infrastrutture sovietiche.
Il cacciatore abitava con la moglie e la figlia dietro la chiusa numero 2. Il loro orto, le cui piccole aiuole di cavoli rossi e bianchi erano sistemate in gomme di trattori, si estendeva fino alla sponda del canale. Natasha, la figlia diciassettenne di Pavel, ci accompagnò fino al ponte, da dove si poteva ammirare meglio la scala di chiuse (una successione di sette dislivelli di quindici metri). Vista dall’alto, l’acqua aveva un colore marrone sporco, su cui galleggiavano delle mucillagini. Natasha insisteva nel dire che non si trattava di inquinamento, ma di torba sradicata. ‘Davvero, ci ho nuotato pure quest’estate’.
Ingegneri di anime (appena ripubblicato in Italia da Iperborea) mescola il passo del reportage – Westerman raggiunge infatti gli altopiani turkmeni e le isole baltiche e i villaggi dimenticati di cui racconta – ai cenni storici utili a ricostruire il clima politico-culturale della prima Unione Sovietica.
Come riassumere l’ambizione e la sproporzione dei piani quinquennali staliniani, l’irrealtà dei risultati prefissi? Come descrivere lo stravolgimento della nazione più estesa al mondo, un paese contadino obbligato a trasformarsi in superpotenza industriale nel giro di un decennio? Da un giorno all’altro, l’acqua che dai tempi dell’ultima era glaciale correva lungo il continente russo, diventava uno spreco di risorse. Il Comitato Centrale doveva deviarne i fiumi, sterrare nuovi canali, trascinarli e costringerli tra nuovi argini, terrapieni e dighe. L’acqua era energia e la rivoluzione passava per l’acqua.
Per raccontare le trasformazioni bisognava trasformare il racconto. Va allora introdotto Maksim Gorkij, che con l’avanzare della Rivoluzione e della guerra civile era diventato uno degli scrittori più amati dai russi prima, e dai sovietici poi: gli venivano dedicate strade, statue, città intere.
La verità è che Gorkij era uno scrittore mediocre. Ma di quegli scrittori capaci di farsi agitatori culturali, volti pubblici, semplificatori: non è immediato capirci qualcosa, di Gorkij, mezzo ingenuo e mezzo parassita, e nel suo libro Westerman ne ricostruisce un profilo intelligente perché contraddittorio. Tornato a Mosca nel ’32, dopo un lungo autoesilio a Sorrento, Gorkij viene chiamato da Stalin che gli affida l’applicazione di un decreto. Si chiama: “A proposito della ristrutturazione delle organizzazioni letterarie”.
Per le lettere sovietiche, è la fine di un decennio miracoloso. Non c’è più tempo per l’avventura individualista, l’esperimento formale, il fuoco – l’arte deve aumentare il suo contenuto sociale. D’ora in poi esiste solo il realismo socialista. A dire il vero, prima di chiamarsi come lo conosciamo, Gorkij l’aveva battezzato “realismo romantico”: romantico per l’impeto patetico che serve a raccontare i primi botti della macchina sovietica.
Viene allora organizzata una cena nella sua villa, allo scopo di introdurre all’élite letteraria moscovita la nuova linea. Tra i quaranta invitati ci sono anche Solochov (l’autore di Terre dissodate, futuro premio Nobel), Gladkov (l’autore di Cemento, notare i titoli dei romanzi) e Kataev (Tempo, avanti!). Assenti: Pasternak, Bulgakov, Mandel’stam, Achmatova. Grazie alle memorie di chi c’era Westerman può ricostruire gli interventi e i brindisi della serata, incluso il contributo di Stalin in persona:
I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro paese. L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime.
L’arte non era più fine a sé stessa – era un mezzo. All’interno del canone si sarebbero sviluppati topos e ossessioni, come quella del cantiere e dell’elettrificazione, insomma, una versione di quello che oggi chiameremmo epica geo-ingegneristica, tecnottimismo, soluzionismo, eccetera.
Un ramo di questo canone è stato però più fertile di altri, e indubbiamente più affascinante: la produzione letteraria dedicata al racconto della costruzione di dighe, canali, laghi artificiali e deserti irrigati. È un sottogenere molto connotato, e tradotto solo parzialmente nella nostra lingua. In alcuni passaggi Westerman dà l’impressione di non avere letto i romanzi di cui parla, ma fargliene una colpa sarebbe assurdo; la vita è troppo breve per leggere la maggior parte della letteratura idraulica, spesso noiosa e contorta.
Eccone alcuni titoli esemplificativi:
- Energia di Fëdor Gladkov racconta la costruzione di una centrale energetica sul Dnepr. “Le quasi mille pagine sono talmente infarcite di dettagli tecnici che Energia si potrebbe leggere benissimo come manuale per la costruzione delle dighe”.
- L’uomo cambia pelle di Bruno Jasienski racconta la costruzione dei canali di irrigazione lungo l’Amudar’ja, Asia Centrale.
- La centrale elettrica di Marietta Shaganian racconta la costruzione di dighe di sbarramento in Armenia.
- Dal crimine al lavoro di Leopold Averbach racconta la costruzione del canale Mosca-Volga.
E la lista continua. Com’è ovvio, raccontare la costruzione del paese era un obbligo tarato da ogni autore secondo sensibilità e disperazione. Tra questi autori sensibili e disperati si nascondevano anche degli scrittori geniali, costretti a piegarsi al genere per sopravvivere. Due, su tutti: Andrej Platonov e Boris Pilnjak, soffocati nel silenzio dal GlavLit, l’organo di censura sovietico che avrebbe macerato più di ventiquattro milioni di libri (fonte: Westerman).
Quando nel 2002 Westerman pubblicò il suo saggio non poteva immaginare che la descrizione della catena di comando del GlavLit avrebbe ricordato il destino delle centinaia di turchi meccanici che ogni giorno a Berlino filtrano e censurano i contenuti pubblicati sulle piattaforme social:
Il censore non aveva né volto né nome. La sua identità consisteva in un codice cifrato, combinato con una sola lettera. Tra il censore e il censurato non c’era nessun contatto. Prendiamo gli agenti della GlavLit alla posta centrale di Mosca. Entravano nell’edificio dall’ingresso posteriore e non andavano mai nella sala riservata al pubblico; i materiali […] venivano passati attraverso uno sportello.
Nel 1993 Vladimir Solodin, vicecapo della Sezione letteratura negli anni Settanta e Ottanta, citando il primo commissario alla cultura dichiarava che “noi non abbiamo paura di mettere il coltello nella letteratura più pura. D’altronde, sotto il vessillo e le sembianze raffinate della letteratura, si può iniettare veleno nell’anima ingenua e ancora offuscata di masse gigantesche”.
Di quel coltello Andrej Platonov ha potuto saggiare soltanto la minaccia, ed è bastata. Dopo l’arresto del figlio, e il suo confino siberiano, ha abbandonato la letteratura. Platonov aveva scritto libri come Lo sterro e Cevengur, ma non solo; Platonov, secondo un rapporto della gestione del suolo redatto nel 1926, aveva “scavato 311 pozzi, realizzato 763 serbatoi di acqua e prosciugato 970 ettari di terreno paludoso”.
Se a dodici anni scriveva poesie, a sedici lavorava in una fonderia. Si era iscritto a Fisica, poi a Storia e filologia, infine Ingegneria elettrica. Aveva lavorato come macchinista nei treni della guerra civile, aveva combattuto. Era stato un ingegnere di bonifica e uno specialista nell’elettrificazione dell’agricoltura. Era stato il supervisore nella costruzione di tre centrali elettriche. Aveva inventato “un dispositivo per mantenere costante la tensione nella rete a un numero variabile di giri del generatore, ricevuto brevetti per l’invenzione di un ‘dispositivo per la stampa secondo i dati di rilevamento tachimetrici’ e il ‘Telemetro’”. E molto altro, bilance, macchinari per i cantieri.
Quello di Platonov era un patriottismo idroelettrico, teoricamente infinito. Come racconta Westerman, ma anche Lo Gatto e la letteratura specialistica, l’identità di Platonov ha sempre oscillato tra la sensibilità di lirik (scrittore) e quella di fizik (ingegnere). Pratica teorica (lo studio e la scrittura) contro la teoria della prassi (la verità del lavoro). Era un intellettuale marxista. Su Platonov, per quanto giustamente sconosciuto ai più, grazie ai ripescaggi di Einaudi e altri, può capitare di leggere qualcosa. Ma di Boris Pil’njak non si parla mai.
Pil’njak si era fatto conoscere già nel 1922, grazie a L’anno nudo, dove per la prima volta la rivoluzione era vero motore letterario, e non espediente, un pastiche di sequenze e personaggi che rimescolano le gerarchie sociali della solita “anima russa”, complessità indefinibile; il 1919 era il ritorno del corpo sulla mente, dell’animale sull’uomo. Per Pil’njak la rivoluzione “aveva un odore di organi sessuali”.
Già si intuisce la tragedia intellettuale e biografica che avrebbe colpito questa intelligenza aliena – misticheggiante e primitiva e carnale, costretta a misurarsi con le brutture della letteratura al servizio della crescita. Contraddittori erano i suoi libri e i suoi modelli. Pil’njak guidava una Ford, era stato più volte in Giappone e in Europa, aveva visitato la California delle dighe (stipendiato dal gruppo Hearst, una delle famiglie che hanno inventato Los Angeles, irrigando il deserto), dove aveva addirittura firmato un contratto come sceneggiatore della MGM.
I primi problemi iniziano sul finire degli anni Venti, soprattutto per due racconti. “Mogano” racconta la volgarità degli uomini nuovi pronti a sfruttare la miseria della vecchia Russia – anche se qualcuno non si piega alla speculazione, e tra i soldi e la follia non sa cosa scegliere:
Zio Ivan era, probabilmente, uno schizofrenico, egli aveva un “pallino”: girava per la città, entrava dai conoscenti e sconosciuti e chiedeva che piangessero, faceva dei discorsi infiammati e folli sul comunismo e al mercato molti piangevano davvero nell’ascoltare quei discorsi. Egli si recava negli uffici governativi e correva la diceria in città che alcuni gerarchi si strofinassero gli occhi con la cipolla per conquistarsi, alle spalle degli scemi, la popolarità a loro tanto necessaria in città. Ivan aveva paura delle chiese, ma imprecava contro i preti senza temerli. Gli slogan di Ivan erano i più ‘di sinistra’ di tutta la città. In città, Ivan era tenuto in onore dalla gente, che per secoli era stata abituata a tenere in onore ‘puri folli’ per le cui bocche parlava la verità e che erano pronti ad andare contro la morte per questa verità.
“La luna non si spense” racconta invece gli ultimi giorni di un ufficiale costretto dai suoi superiori a un’operazione chirurgica, sapendo che non ne uscirà vivo:
Il comandante parlava dell’esercito, della guerra e non s’accorgeva forse, come quando parlava dell’esercito, cessava di essere il tessitore e diveniva il condottiero e il generale rosso dell’Armata Rossa; […] il comandante parlava e non si accorgeva, forse, di diventare tessitore, il tessitore innamorato di una maestrina che abitava al di là del fiume, il tessitore che per lei si lucidava gli stivali e andava scalzo fino alla scuola per non impolverarli, e solo nel boschetto vicino alla scuola li calzava, per lei si era comprato una cravatta a fiocco, fantasia, e un cappello da portarsi sulle ventitré, eppure non era andato oltre le conversazioni sui libri, con la maestrina; non c’era stato un idillio, la maestra lo aveva respinto.
Troppa decadenza, troppa eleganza. Scatta la gogna pubblica, le accuse di “grave tradimento letterario”, di “pil’niakismo”. Pil’njak cerca di redimersi nell’unico modo possibile, implorando Gorkij di includerlo tra gli autori della letteratura idraulica, e si mette a scrivere un romanzo clamoroso e macchinoso già dal titolo, Il Volga si getta nel Caspio:
Lei non ha notato Pimene Sergueievitch, che tutte le costruzioni sono sempre fondate sul sangue, la stessa cosa d’altronde che avviene in tutto quel che è vita. Noi stessi, uomini, nasciamo nel sangue e moriamo perché il sangue s’arresta. L’amore umano comincia e finisce col sangue. Non conosco un edificio in cui non vi sia del sangue; si costruisce una casa, un muratore cade dall’impalcatura; si costruisce una officina e le macchine stritolano un operaio; si costruisce una strada ferrata, un treno si schiaccia in una colmata: si vuota un canale, una diga si rompe, gli operai annegano. È una cosa mistica, ma è un fatto; tutto si posa nel sangue, tutto d’intorno è sangue, niente altro che sangue. Anche la bandiera rosso-sangue della rivoluzione è un simbolo di nascita sanguinosa. E quando il sangue sarà sparito allora il basso Don sarà sommerso dalle aride sabbie.
Gorkij si accorge che la situazione gli è scappata di mano e si espone sui quotidiani e nei salotti: Pil’njak è un compagno che si è redento, e la sua lezione deve servire a tutti. Lo invita nella spedizione da cui nascerà Belomor, uno dei vari esperimenti di “letteratura di gruppo” dell’epoca, un’antologia nata per raccontare la costruzione di un canale (inutile) che dovrebbe collegare il Mar Bianco al Mar Baltico. Il Belomorkanal viene inaugurato il 2 agosto 1933. È lungo 227 chilometri ed è stato costruito grazie alla morte di decine di migliaia di prigionieri. Nel sangue.
Tra i centoventi intellettuali stipati sulla nave per visitare i cantieri, c’è anche Viktor Šklovskij, pioniere del formalismo russo, genio letterario. Si dice che negli scavi, tra gli operai, incontrerà suo fratello, “un filologo finissimo, che aveva tradotto il De vulgari eloquentia e che ora era addetto alle mansioni di sterro”; si dice che il fratello, per proteggerlo, fingerà di non riconoscerlo.
Ma Belomor non basta. Pil’njak viene prelevato da casa nel 1937, spedito in un campo di lavoro siberiano, e di lui non si saprà nulla – morirà di fatica. Nel giro di un decennio, dei quaranta scrittori invitati nell’ottobre del ’32 nella villa di Gorkij, ne sarebbero scomparsi undici.
Secondo Karl Wittfogel, storico marxista, la deportazione e il lavoro forzato – soprattutto nei cantieri di sterro – rientrano in una tradizione storica precisa, quella delle grandi opere realizzate dai dispotismi idraulici che si sono succeduti nei millenni. La tesi del suo Il dispotismo orientale, un saggio di quasi mille pagine molto meno divertenti di quelle di Westerman, è semplice da riassumere. La civiltà agricola mediorientale non sarebbe mai fiorita senza lo sfruttamento di grandi concentrazioni d’acqua; per disporre di questa risorsa, la più flessibile e immediata tra quelle naturali, si è costruito nel tempo un apparato dirigente basato una gerarchia ferrea, compresa di schiavi alla base e sovrani divini al vertice. Da questo è conseguita la fortificazione della capitale, la dimora del re, e una società stratificata di sorveglianti, secondini, giudici e censori. Secondo Wittfogel, Lenin e i bolscevichi avevano costruito una versione abbozzata dello stato dispotico orientale, e Stalin l’aveva perfezionata.
L’intellettuale, come il sacerdote della società idraulica, va ridotto allora al ruolo di funzionario. Westerman e Wittfogel non aggiungono, però, che proprio in uno di quei primi regimi dispotici sono nate le prime forme letterarie sopravvissute ai nostri tempi. L’invenzione letteraria ha sovvertito l’uso coercitivo della scrittura, nata come tecnologia di controllo, conteggio dei debiti e misura della proprietà. Gli scrittori non possono essere funzionari, e non riescono a essere ingegneri.
Pil’njak era nato per scrivere di organi genitali e di boschi, lontano dalle leggi della storia e dell’idraulica.
La sera giunse umida e fredda, il vento sibilava su tutti i toni. La sera, Aleksej fece la posta davanti al marcescente bagno dei Kononov. Saltò fuori una giovane donna indemoniata, nuda, con le trecce sciolte, si buttò a correre verso il fiume e di là corse su per la china, verso l’isba; il suo corpo bianco si dissolveva nell’oscurità. […] Ul’janka rimase sola nel grano, a riordinare il bagno. Aleksej penetrò nell’andito del bagno e, con gran suo terrore, bisbigliò:“Mi pongo, io, Aleksej, di spalle all’occidente, di faccia all’oriente, e guardo e scruto: dal chiaro cielo vola una saetta di fuoco. Questa saetta supplico, a questa saetta mi assoggetto, e la prego:
“Dove sei inviata, saetta di fuoco?”
“Nei boschi oscuri, nelle paludi fluttuanti, nell’umida corteccia”.
“Chi tu sia, saetta di fuoco, vola dove io ti mando: vola da Ul’janka, nel fervido cuore colpiscila, nel fegato nero, nell’ardente sangue, nelle grandi vene, nelle labbra di zucchero, affinché ella provi nostalgia, dolore per me, al sole, all’aurora mattutina, alla giovane luna, al vento-gelo, nei giorni di luna crescente e nei giorni di luna calante, affinché ella mi baci, me, Aleksej Semenov, mi abbracci, con me compia fornicazione. Sono piene le mie parole e affatturanti, quanto è grande il mare-oceano, forti e scolpite, rafforzando e scolpendo la colla-pesce, indurendo e riempiendo l’acciaio e la pietra. Nei secoli dei secoli. Amen”.