I ntraprendere la lettura del romanzo di esordio di Claudia Petrucci L’esercizio richiede un esercizio di pazienza, per cui, procedendo, si verrà ricompensati. Nelle prime pagine del romanzo, infatti, la lingua e il racconto sono entrambi piani, come a indicare che in ciò che stiamo leggendo non c’è niente di rilevante. Sappiamo subito che si tratta della storia di una coppia eterosessuale, una relazione foriera di dolore, una vicenda come infinite altre, in cui l’amore, lo stare insieme di un uomo e una donna ha comportato dolorose incomprensioni, la solita, inevitabile fatica.
Solo che il romanzo d’esordio di Claudia Petrucci edito da La nave di Teseo accosta, senza sovrapposizioni forzate quindi ideologiche, l’idea che la relazione debba essere solo fatica alla malattia mentale. Alla protagonista, Giorgia, viene fatta la diagnosi di “schizofrenia paranoide. Ma il dottore lo ripete sempre che la diagnosi è riduttiva. Serve solo per dare un nome a qualcosa che non si conosce davvero”.
Quando li incontriamo, Giorgia e Filippo sono mediamente infelici: due trentenni che hanno visto svanire definitivamente l’ipotesi che anche solo una delle loro ambizioni o velleità giovanili si sarebbe realizzata e si sono ancorati l’una all’altro, per resistere alla vita. Lei lavora in un supermarket che detesta, lui nel bar che era stato dei suoi genitori che con una finezza d’analisi che connota tutto il romanzo, Petrucci descrive così: “si sono abituati a comunicare contemporaneamente con le persone durante gli anni al bar e adesso è facile capirli solo se parlano insieme”. Il padre ha avuto un infarto e va protetto dalle raccomandate di Equitalia che angosciano la madre la quale a sua volta, in un circolo vizioso quanto umano, le scarica su Filippo, unico figlio, che non la biasima, la sopporta:
il mondo di mia madre è cucito su misura, ha delle regole precise, leggi fisiche che nessuno può eludere. Lei aveva formulato le sue previsioni, fatto calcoli complessi che si sono rivelati tutti sbagliati […] Nel suo punto di vista non c’è equilibrio, è tutto un futuro idilliaco o un’imminente tragedia.
Questo però non è un ennesimo romanzo d’esordio sulla famiglia e sarebbe anche azzardato scrivere che si tratti solo di un testo sulla coppia, visto che il nucleo narrativo è costruito su tre personaggi: Giorgia, Filippo e Mauro. Mauro è il regista di teatro con cui Giorgia aveva iniziato la sua carriera anni prima, dimostrando un talento fenomenale, che nel romanzo è fortemente connesso al suo problema mentale, descritto come una tale fragilità dell’io da cui consegue che Giorgia si trasforma in modo memorabile ed eccezionale nei personaggi da interpretare.
Il confine su cui si muove Petrucci sta proprio qui, su un tema così caro alla letteratura, così conosciuto da essere diventato argomento di tesina di maturità, se non di esame di terza media: il ruolo sociale che ci rende attori, il confine labile tra personaggio e persona: “applichi a te stesso un paradigma di comportamento. Questo sì, questo no. In sostanza, sei una persona vera che crede di essere un personaggio”. Petrucci usa però questa evidenza che conosciamo per metterne a fuoco un’altra:
siamo noi a scegliere le identità delle persone che ci circondano […] Trattiamo le persone come personaggi, costruiamo loro addosso l’elenco dettagliato di ciò che possono e non possono fare, dei torti che se da loro inflitti siamo disposti a subire, delle debolezze che se a loro appartengono possiamo sopportare. Le nostre caratterizzazioni sono dettagliate e rigide e, più il personaggio è vicino a noi, che siamo il protagonista della storia, più siamo esigenti.
Parte della fatica che facciamo per mantenere in vita delle relazioni è allora inevitabilmente egoica. Per quanto possiamo sforzarci, come Filippo fa con tutta la sincerità di cui è capace, di volere il bene dell’altra, Petrucci ci dice che prima di tutto vogliamo che l’altro si muova nel nostro schema, che interpreti il copione che, molto inconsapevolmente, ogni giorno, a ogni litigio, sorriso, scopata, gli o le dettiamo.
E non è vero che non si tratta di amore: “ho di nuovo tutto addosso; il mio nome, la mia identità, un posto da cui provengo” pensa Filippo quando Giorgia, di ritorno da una lunghissima crisi psicotica, torna a guardarlo: “il suo sguardo mi trova, mi riconosce. Mi vedo comparire nei suoi occhi, mi rimette insieme con il sorriso che mi rivolge”. Non c’è cinismo, quindi, nella visione di Petrucci, per questo per lettrici e lettori non c’è via di fuga. E non si tratta neanche di negare la necessità di resistere, di continuare ogni giorno l’esercizio necessario a creare all’altro uno spazio nella nostra vita che non sia asfissiante o troppo scomodo per nessuno dei due personaggi della coppia. Questo romanzo, però, ci pungola ad ammettere che quella di cui si parla spesso in merito alla relazione di coppia non è solo la fatica produttiva, caritatevole di accettare l’altro, giorno, per giorno, anno su anno, ma il lavorio di riconoscere noi stessi, nello specchio fedele quanto incorruttibile di chi abbiamo scelto.