D opo aver perso definitivamente la vista John Hull – nel Dono oscuro (Adelphi) – racconta che per “i primi mesi e anni di cecità” lo tormentava un’immagine persistente: si trova in una miniera che scende in un tunnel, sempre più in profondità, fino al punto in cui il piccolo cerchio di luce all’imboccatura del tunnel sparisce:
Ora mi accorgo del peso della montagna. Nasconde la luce, il giorno, l’aria. Procediamo ancora e ancora dentro quella massa solida e pesante. Non posso orientarmi, non c’è un filo di luce. So che tra me e il mondo c’è una montagna di roccia […] Sono intrappolato in un nascondiglio insopportabile.
Il racconto di Hull, un teologo che perse la vista intorno ai 47 anni, non è solo la testimonianza di uno smarrimento, ma anche una rigorosa analisi del passaggio a una forma di vita diversa, in cui l’intero linguaggio è messo in scacco.
Quando sei cieco ti rendi conto di quanta parte del linguaggio dipenda da immagini visive […] “Quale è il tuo punto di vista?”. “Hai osservazioni da fare?”, “Non capisco il modo in cui vedi la questione”, “Guarda qui il mio amico!”, “Ho guardato dappertutto per trovarlo”, “Vedrò se posso esserti d’aiuto” […] C’è un legame intimo tra il vedere e il sapere.
Questa conclusione di Hull, insieme alla sua immagine del tunnel, segnalano che il suo è anche un racconto filosofico. Fin da Platone la vista è stata considerata il senso supremo e il modello di ogni conoscenza. Questo legame ha lasciato traccia nella parola “idea”, che proviene dal verbo greco “idein”, in latino “videre”: “vedere”. Ed è irresistibile l’analogia dell’immagine del tunnel che tormenta Hull con l’immagine della caverna del VII libro della Repubblica.
Il percorso di Hull sembra inverso a quello del prigioniero di cui narrava Platone, che veniva “liberato e costretto d’un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce”. In realtà, Hull racconta di uno stesso sforzo di adattamento a una nuova forma di esperienza. Il prigioniero platonico è inizialmente accecato dalla contemplazione delle idee, che in verità non sono oggetti sensibili: “non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri”.
Inoltre, una volta abituatosi alla nuova forma di conoscenza, tornato giù dai suoi compagni immersi nell’oscurità – che nel mito platonico rappresenta l’esperienza dei sensi – Platone si domanda se “non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire”. L’itinerario di adattamento a una nuova forma di conoscenza comporta dapprima un enorme sforzo, l’abbandono delle abitudini precedenti, e viene ripagato con l’estraneità degli altri uomini. È identico, in ciò, l’itinerario di Hull, che affronta la disperazione della cecità, si riappropria di un mondo diverso, e infine conclude che, nel mondo dei vedenti, “la cecità conduce all’ignoranza”. Al tempo stesso, però, Hull ha conquistato la conoscenza di un mondo sottoposto a diverse leggi percettive e sociali, che il suo libro prova a spiegare al lettore.
Sogni
Il diario tenuto da Hull è, soprattutto all’inizio, disseminato di sogni. L’esperienza onirica interrompe doppiamente quella della cecità perché nel sogno la vista ritorna, perciò il suo impatto è drammatico.
Mi colpisce la simultaneità tra l’esperienza di svegliarmi e quella di diventare cieco. Ero davanti alle porte dell’ascensore. Il piccolo pannello illuminato scendeva sempre più in basso, mostrandomi una vaga immagine di Michael e della sua famiglia. Poi cominciava a sbiadire, mentre io, disperato e in preda al panico, mi rendevo conto che mi stavo svegliando, e che tra poco avrei perso la vista. Aprivo gli occhi e nella mia mente si faceva di nuovo buio. Ogni volta che torno alla coscienza perdo la vista.
Di nuovo, risuonano motivi filosofici: stavolta l’atto intellettuale di considerare la realtà sensibile come fosse un sogno, con cui Cartesio iniziava il suo tentativo di dubitare di ogni certezza e stabilire una verità più salda. Lo sbiadire della realtà visibile introduce a uno stato in cui la coscienza sussiste nel vuoto sensoriale, eppure pienamente lucida, al punto che i corpi, dapprima lampanti nella loro esistenza, diventano fantasmi, e Cartesio capisce di essere senza dubbio e prima di tutto una mente. Hull racconta del mutare della presenza altrui, non più fissata dai corpi e dai volti: l’altro è un evento coincidente col passaggio della voce e il tocco della mano. Dedica pagine strazianti al ricordo evanescente del volto di sua moglie, della figlia primogenita, del secondogenito appena intravisto, e dei figli successivi che sono nomi nella memoria: è come – scrive – quando un dipinto è stato traferito e staccato dalla parete del museo, lasciando solo un alone accanto al nome. Lui stesso, John Hull, dimentica il suo volto, e si domanda:
Fino a che punto la perdita dell’immagine del volto è collegata alla perdita dell’immagine del sé? È questa la ragione per cui spesso mi sento come se fossi solo uno spirito, un fantasma, un ricordo? Gli altri sono diventati delle voci senza corpo, che parlano dal nulla, e rientrano nel nulla. Non sono forse anch’io come loro, ora che ho perso il mio corpo?
Eppure, nel suo caso, proprio dal corpo inizierà una riappropriazione sensoriale del mondo, che torna a assumere un profilo grazie al risveglio degli altri sensi.
Un mondo di suoni
Uno dei contenuti più interessanti del racconto di Hull è la fenomenologia del mondo non visibile che viene riportata al lettore. Le cose hanno perduto la figura visibile, ma tornano a prendere forma quando vento, pioggia e tuoni rintoccano sulle superfici. Così, quella che per i vedenti è una bella giornata di sole, senza vento, per Hull è indifferente, mentre le sue belle giornate sono quelle che si presentano acusticamente nel caos meteorologico, in cui gli oggetti sono ricreati:
Per me il vento ha preso il posto del sole: è una bella giornata se tira una brezza leggera, che accende i suoni intorno a me. Si sente il fruscio delle foglie, le cartacce si sollevano dal marciapiede, i muri e gli angoli degli edifici più grandi si stagliano contro il vento, che sento nei capelli, sul viso, nei vestiti.
I tuoni “danno improvvisamente un senso dello spazio e della distanza. Un tuono mette un tetto sopra la testa, un soffitto a volta, altissimo, fatto del suo rombo. Sento di trovarmi in un luogo ampio dove prima non c’era niente […] Il vento gli alberi li crea: dove prima non c’era niente, ci si ritrova circondati.” E ancora, la pioggia “ha un modo tutto suo di dare un contorno a ogni cosa; getta una coperta colorata sopra le cose prima invisibili; dove prima c’era un mondo intermittente e quindi frammentato, ora la pioggia, cadendo regolare, dà continuità all’esperienza acustica”.
Da vedente, leggendo queste pagine bellissime, sono proiettato in un mondo che non so vedere. Per descriverlo Hull usa il linguaggio astratto di spazio e tempo, metafore visive, analogie. È un espediente inevitabile, che si ritrova ogni volta che si tenti di rappresentare il mondo dei non vedenti. Nella graphic novel Il re di Bangkok (2019) di Claudio Sopranzetti, Sara Fabbri, Chiara Natalucci, il mondo del narratore, divenuto cieco, è rappresentato in bianco e nero, e la pioggia e i suoni improvvisamente producono lastre di colore: superfici che danno struttura geometrica all’ambiente.
Una delle scoperte più sorprendenti di Hull è di possedere una capacità di ecolocalizzazione: camminando si accorge dell’avvicinarsi di un lampione per una “sorta di pressione fisica” che “si avverte in modo così intenso che si vorrebbe alzare la mano per proteggersi”. La sua causa, come apprende gradualmente e conversando con altri, è la percezione dell’eco, ma “è importante sottolineare che non si è consapevoli di ascoltare. Il senso di pressione si avverte sulla pelle del viso, piuttosto che sopra e dentro le orecchie. Deve essere per questo che prima questa singolare esperienza veniva chiamata ‘visione facciale'”.
Il salto richiesto al lettore conduce infine a un mondo di oggetti diversi, retto da leggi diverse. Un grande esploratore di mondi come Werner Herzog, non a caso, dedicò un film all’amica sordocieca Fini Straubinger, seguendola in esperienze stranianti come una festa i cui invitati possono comunicare solo toccandosi e gioiscono nel visitare un giardino di pungenti cactus, o salire insieme su un aereo da turismo, scosso dal vento, per farle provare l’ebbrezza vibrante del volo. Il film si chiamava Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), a rimarcare che si trattava davvero di un altro mondo invisibile, remoto e sfuggente benché esperito da una persona presente in carne e ossa e vicina al narratore.
Nel mondo dei ciechi, scrive Hull, quando la gente non fa nulla sparisce: “dove non c’è movimento, tutto smette di esistere. Essere fermi vuol dire non essere. Muoversi, essere. Il mio non è un mondo dell’essere; è un mondo del divenire”. Ma questo divenire ha una misura diversa da quella che gli era familiare. Hull racconta di come le distanze si misurino in tempi di percorrenza, e i tempi si dilatino per compiere le azioni. L’economia del tempo che affanna i vedenti perde valore.
Il tempo, il nemico di una volta, diventa semplicemente il flusso di coscienza entro cui devi agire […] La tecnologia moderna punta a espandere lo spazio umano e a comprimere il tempo. La persona disabile, al contrario, scopre che lo spazio si contrae ma il tempo si espande. È a causa delle sue coordinate spazio-temporali che la vita di una persona cieca si differenzia gradualmente da quella di chi vede, specialmente in un’epoca di grande progresso tecnologico.
Hull si allontana dai vedenti, ma al tempo stesso, con l’udito, ne approfondisce la dimensione diacronica, narrativa. Descrive la sua prospettiva sugli altri come una forma di profondità, in una frase che sembra presa da Proust:
La vista permette di avere uno spaccato della vita di una persona nel presente. Il cieco, invece, ne prende per così dire una sezione longitudinale, che lo porta indietro nel tempo. È una visione più in profondità della vita di una persona, ma richiede anche più tempo per essere acquisita.
La bellezza tra le mani
Un altro aspetto fondamentale del mondo di Hull è dato dal tatto, che gradualmente diventa la sua seconda vista. Camminare su una superficie piana e aperta è disorientante, perché “non ha struttura”, mentre il campus “scandito da gradini, piccoli avvallamenti e colline, muretti e molti tipi di terreno”, gli permette di seguire una sequenza e sapere dov’è.
Per illustrare meglio la situazione, Hull propone un esercizio. Non si capisce l’esperienza della cecità facendosi soltanto bendare. Bisogna “aggiungere un’ulteriore benda, vale a dire due bicchieri d’acqua nelle mani, che priva della capacità di orientarsi con il tatto”. Si comprende allora che il tatto non è la stessa cosa per un cieco e per un vedente, poiché assume una seconda funzione: “chi è cieco vede con le dita”.
La fenomenologia del tatto investe anche zone dell’esperienza come l’attrazione estetica, il gioco, la sessualità. Dopo aver perduto l’immagine del sé visivo, Hull è diventato un altro uomo, che non è più un padre capace di guidare i figli, e può giocare con loro solo a condizione che tatto e suono siano coinvolti. Dimentica gradualmente la bellezza dei paesaggi della propria infanzia, ma con gli anni impara a apprezzare “le diverse consistenze dei tessuti”.
Adoro passare le mani sulla borsa, prima in un senso e poi nell’altro, sentire l’ondulazione delle fibre di velluto. Il contrasto con la durezza e la levigatezza del braccialetto di metallo è delizioso […] Peso, forma, consistenza, temperatura e suoni emessi dagli oggetti: sono queste le cose che cerco.
Della bellezza delle città svaniscono forme e colori. Se ne rende conto quando torna, da cieco, nella nativa Australia:
I miei ricordi di Melbourne sono composti quindi di innumerevoli viaggi in macchina da un posto all’altro, e dalle diverse consistenze delle cinture di sicurezza e delle fodere dei sedili. Di una città ricordo il fastidio del vento freddo, di un’altra l’indolenzimento causato dalle ore passate su una stessa sedia, di una terza il piacere delle piastrelle lisce e fresche del bagno. Ho la memoria di una lumaca. Il mio corpo ricorda la stretta striscia di terra su cui sono passato, composta da minuscoli dettagli.
Tutto questo lo porta a interrogarsi sulla perduta bellezza della moglie. Non poterla vedere avvicinarsi, perdere la possibilità di sentirsi attratto, lo ferisce profondamente. Qualcuno gli dice che ha la fortuna di ricordarla sempre giovane. Ma lui ribatte che non può più guardarla in viso mentre fanno l’amore. Si chiede se la dimensione tattile abbia acquisito un’intensità maggiore, anche per lei, facendo di lui un amante diverso, senza riportarlo allo stato di infanzia a cui la società spesso lo riduce.
Racconto e psicologia
Hull diventa oggetto di una degradazione sociale, sostenuta da equivoci e incomprensioni, sia pure bene intenzionate. Tutti lo trattano come un bambino, in sua presenza parlano di lui in terza persona (“dove mettiamo John?”), lo privano della sua indipendenza e virilità, senza capire le sue specifiche modalità sensoriali. Al tempo stesso lui, che ha abitato quel mondo, riflette su questa incomprensione tra vedenti e non vedenti. Questo esercizio lo porta a immaginare e a confrontarsi con altre forme di mente. Sordo-ciechi, malati di sclerosi multipla, amici con la spina dorsale lesionata, che come lui vivono in uno spazio ridotto e in un tempo dilatato. Deve anche entrare nella prospettiva dei bambini, che faticano a comprendere il suo stato: conversa con i figli piccoli, che lentamente acquisiscono coscienza di cosa sia la cecità e come modifichi in pratica le interazioni: lo avvertono che la luce è spenta, giocano a chiudere gli occhi per fare la prova di non vederlo, imparano a toccargli le mani per guidarlo.
Ma quello della cecità, narrata da Hull, non è che un caso di come la riflessione sulle mancanze e le difformità cognitive abbia condotto verso l’immaginazione di altre menti. La sua esperienza di ecolocalizzazione ricorda quella della “visione cieca”, tipica di alcuni pazienti che hanno un danno neurale alla corteccia visiva ma ricevono i segnali ottici e li elaborano altrove nel cervello, per cui sanno muoversi tra le cose pur non vedendole. I filosofi della mente hanno trovato in questa condizione un caso esemplare per capire come, all’interno della trama apparentemente omogenea della nostra coscienza, si intrecciano e si confondono in realtà diverse funzionalità: sopprimerne una, o modificarla, muta il mondo intero.
All’interno della trama apparentemente omogenea della nostra coscienza, si intrecciano e si confondono in realtà diverse funzionalità: sopprimerne una, o modificarla, muta il mondo interno.
Così, la coscienza può perdere intere parti del mondo sensibile – come nei casi di anosognosia, in cui ad esempio un braccio non viene più percepito come proprio – e può finanche sdoppiarsi. Oliver Sacks, che non a caso ha scritto la Prefazione al libro di Hull, è stato un maestro della narrazione di queste condizioni, suddividendo – ne L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello – casi di mancanza (come quello estremo di Christina, una donna priva della percezione del proprio corpo) e casi di eccesso della coscienza (laddove ad esempio allucinazioni e movimenti incontrollati prendono il sopravvento sul controllo del soggetto).
Nel dare forma narrativa alle sue descrizioni, Sacks non faceva che sviluppare una tradizione che esiste fin dall’alba del romanzo moderno. Goethe, nei Dolori del giovane Werther (1774), mirava alla conoscenza “dell’interiorità di una giovane follia”, astraendo da qualsiasi moralismo. L’intero romanzo moderno ha esplorato l’ossessione amorosa, il feticismo, l’allucinazione, lo sdoppiamento dell’io, l’autolesionismo, il sadismo, la depressione e il suo alternarsi all’euforia, ben prima che queste nozioni fossero codificate sul piano nosologico. Basti pensare al Don Chisciotte, a Madame Bovary, a Reparto n. 6 di Checov, al Giro di vite di Henry James, ai romanzi di Schnitzler come Fuga nelle tenebre e Doppio sogno; gli esempi sono ovviamente innumerevoli. Prima della psicologia come disciplina empirica, storicamente, è arrivato il romanzo come esplorazione della coscienza, dell’inconscio, degli atti incontrollati del corpo umano. Ancora oggi si tratta di una esplorazione in corso, che non è stata sostituita dai resoconti clinici, poiché capace di abbracciare la molteplice fenomenologia della prima persona, del contesto sociale, della cultura in cui si iscrive l’esperienza patologica (si pensi, oggi, a romanzi come Svegliami a mezzanotte di Fuani Marino e L’uomo che trema di Andrea Pomella).
Altre menti
Ma il campo di questa indagine è ben più vasto, abbraccia tutte le diverse fenomenologie del vivente. Una delle sue frontiere, oggi, è quella che oltrepassa i confini di specie: “Che cosa si prova a essere un pipistrello?”, si chiedeva il filosofo Thomas Nagel nel titolo del suo famoso articolo del 1972 (ristampato in Questioni mortali), scegliendo proprio come caso esemplare un animale che “vede” senza occhi, con un raffinato sistema di ecolocalizzazione. Conoscere l’anatomia e la fisiologia di un essere vivente non basta a coglierne immediatamente la prospettiva soggettiva. D’altra parte – come suggeriva lo stesso Hull paragonandosi a una lumaca – le analogie funzionali e morfologiche ci avvicinano alle altre specie animali. E dunque, posto che queste altre prospettive soggettive ci siano – come non dubita quasi più nessuno, almeno per quanto riguarda gran parte di mammiferi e uccelli – come fare a immaginarle? Ci si basa su indizi esteriori, analogie, salti empatici.
Che vuol dire “sentire”? Vuol dire una cosa sola per tutti gli esseri senzienti?
“Cosa sente un’aragosta?” si domandava David Foster Wallace nel saggio che dà il titolo a un suo libro, affidando la sua convinzione al gesto con cui il crostaceo si aggrappa alle pareti della pentola in cui lo si sta per bollire alla fiera del Maine. E di recente uno dei massimi studiosi di mente animale, Peter Godfrey Smith, ha spinto la domanda verso una forma di vita quasi aliena, tanto intelligente quanto morfologicamente remota, dedicando un intero libro alla questione della mente dei cefalopodi: ancora una volta un saggio filosofico-scientifico che è al tempo stesso, inevitabilmente, racconto di esperienze vissute, incontri, congetture, risistemazione del linguaggio, per cui ci si chiede: che vuol dire “sentire”? Vuol dire una cosa sola per tutti gli esseri senzienti? In cosa si distinguono l’evento del sentire e la piena coscienza di un individuo umano consapevole della sua storia?
Di fronte a queste sfide, libri come quello di Hull ricordano che non si tratta soltanto di astratti rompicapo. Capire il mondo, come è percepito diversamente da soggetti diversi, è una possibilità morale e civile. D’altra parte l’intero pensiero moderno, dopo che Cartesio aveva rassicurato tutti sulla realtà dei corpi, è stato un susseguirsi di esperimenti mentali in cui si è immaginato via via di comprendere il mondo secondo altri “punti di vista” (un’espressione che Leibniz fu tra i primi a usare). In Europa i filosofi illuministi cominciarono a ragionare sul pensiero dei “selvaggi” americani e di Tahiti, dei Persiani, dei civilissimi ma remoti Cinesi, degli animali non umani (che Cartesio aveva ridotto a automi), finanche degli extraterrestri. Si volevano comprendere meglio i confini inavvertiti e le ristrettezze del pensiero europeo. Kant inserì tra le massime dell’Illuminismo, che dovevano guidare un cittadino del mondo, “pensare mettendosi al posto degli altri”. Questa ricerca, in cui si iscrive l’indagine di Hull, ha fatto capire sempre meglio quel che aveva intuito Platone: lo sforzo di passare a un’altra “vista” comporta una rinuncia alla certezza del vedere, alla sua apparente evidenza, uno sforzo di astrazione, e una rottura col senso comune.
Raccontare il rapporto tra l’attività cerebrale e l’identità di un individuo è una delle grandi sfide dei nostri anni. Ne parliamo con Paolo Pecere e Fuani Marino per i “Giovedì alla Treccani” – anche se l’incontro, questa volta, è di venerdì: il 21 febbraio, alle 18, a Roma, in Piazza della Enciclopedia Italiana 4.