I n principio fu il libro.
Miniato da artiste che dal Medioevo al Rinascimento provenivano da classi aristocratiche o culturalmente privilegiate; ornato da immagini incise da artiste operanti nelle botteghe o nei conventi; da ultimo, illustrato litograficamente, tipograficamente o digitalmente da quel numero, in vertiginoso aumento, di artiste attive fino ai nostri giorni.
Questa prima indagine sull’illustrazione femminile intende esaminare l’opera delle ‘decoratrici’ attive in Italia dal Seicento a oggi, con particolare attenzione alle illustrazioni realizzate nei primi anni del Novecento, crocevia significativo non solo per quanto significò il moltiplicarsi delle opportunità operative, delle possibilità espressive e degli scambi culturali ma, soprattutto, per la crucialità del dibattito sulla condizione femminile, che proprio in quegli anni registrava importanti conquiste sulla via dell’emancipazione, e il cui filo, brutalmente spezzato dalle crisi belliche e postbelliche – specialmente l’ultima, che avrebbe ricacciato per molti anni le donne nelle loro ‘sedi naturali’ –, sarebbe stato riannodato solo a partire dagli anni Sessanta. Da allora in poi la letteratura sulla creatività femminile, che in Italia e all’estero è venuta moltiplicandosi in contributi sempre più incalzanti e specializzati all’interno delle singole discipline artistiche, avrebbe raggiunto, non a caso, proprio dal versante femminile, significativi livelli teorici, così da indurci a integrare gli studi, affrontando questa ricognizione nell’universo femminile dell’illustrazione.
Nel corso di un’indagine che, per assenza di precedenti significativi, correva evidenti rischi di incompletezza, sono stati comunque raccolti, senza pretese di esaustività, elementi sufficienti a una prima valutazione complessiva sui modi dell’approccio femminile all’illustrazione, dai quali emerge con rilevante evidenza l’adozione di una serie di strategie. Che per alcune si manifestarono nell’autoaffermazione ‘contro’ l’universo maschile, facendo di volta in volta proprie, attraverso la competitività diretta, tutte le formule praticabili: dalla scelta del virilissimo e tradizionalmente interdetto territorio della caricatura all’esplicita adesione a movimenti artistici fortemente connotati al maschile come il Futurismo; dalla presenza-scontro in tutte le sedi codificate al confronto come le vetrine delle grandi rassegne nazionali e internazionali, il cui prezzo avrebbe spesso comportato la resa a un linguaggio che non avevano inventato: dall’assunzione mimetica di pseudonimi all’attivismo promozionale in organizzazioni più o meno esplicitamente finalizzate a obiettivi femministi, fino all’autolesionistico attentato al privato più profondo, con la scelta obbligata della solitudine, del rifiuto della maternità e in casi estremi, del suicidio.
Ma soprattutto, e in primo luogo, da una caparbia quanto perennemente sottovalutata qualità professionale.
Per tutte le altre, cioè a dire la maggioranza, la strategia, in un’endemica incapacità a individuare le contraddizioni, si risolse in un rifiuto a qualsiasi strategia, nell’inibizione ad assumere ruoli esplicitamente trasgressivi o alternativi, lasciandosi scivolare in quel territorio minimo tradizionalmente consentito alle donne, sufficientemente defilato e poco appariscente, nel quale rinchiudersi gelosamente e riversare quella creatività esuberante e soffocata, nutrita di fantasia e ossessioni, perdutamente affabulanti e disperatamente indisturbate.
E sono soprattutto i sintomi che affiorano dalle opere di queste ultime a raccontare la lunga storia di una difficile conciliazione, anche quando il felice eclettismo che dominava i primi decenni del secolo, fatto di curiosità, manualità e sperimentazione, le vide riversare in ambiti contigui tesori di creatività. Per molte di loro, operanti in quel felice clima artistico nel quale, con il Modernismo, esplodeva la poetica dell’artefatto industriale, la casa venne configurandosi come fonte inesauribile di ispirazione e continuo terreno di esercizio, così che il loro atteggiamento sembra precorrere e amplificare le più sofisticate tendenze delle Arts and Crafts.
Il disegno e il ritorno alle ‘arti femminili’ del ricamo trovarono larga applicazione in arazzi, tende, cuscini, paraventi e tappeti. Abbellire la casa, adornarla, mutarne continuamente volto inglobandovi tutte le novità venute da quel ‘fuori’ lungamente vagheggiato e mutuato dalle coeve pubblicazioni d’arredamento fu, per esse, un modo di valicare il perimetro dell’harem, esorcizzandone la prigionia.
In modo analogo, nell’illustrazione, la condizione femminile si ripropose incessantemente nella scelta obbligata di percorsi, soggetti e opzioni stilistiche, ma le affioranti nostalgie di un ‘altrove’ impossibile e le allusioni a un riscatto conseguibile solo attraverso implacabili rituali di ordine, eleganza e bellezza, stanno a indicarne il travaglio.
La donna nell’illustrazione, infatti – ossia la donna che si andava esprimendo creativamente attraverso quella forma di comunicazione visiva che, per la sua natura di multiplo e di merce, non attiene solo al creativo e la cui tradizionale marginalità rispetto alle ‘arti maggiori’ era, all’epoca, ancora più spietata – viene dunque emarginata due volte.
Come altre storie, anche quella dell’illustrazione femminile è la storia di una cancellazione. Negati negli assunti, progetti e aspirazioni riemergeranno prepotentemente nell’abbandono a una sensualità repressa che si colora di lirismo nelle insistite descrizioni del mondo dell’infanzia, di una natura dominabile solo attraverso carezzevoli antropomorfizzazioni e di un misticismo languido e ambiguo nella divulgazione religiosa di un cattolicesimo orrorificamente seducente nelle sue interdizioni e nelle sue promesse di ricompensa. L’irresistibile ‘fabula’ di angeli, fanciulli, vergini e madonne esplicita, attraverso la sublimazione, la volontà di fuga da una condizione imposta.
Interpreti del linguaggio iniziatico di animali e piante, o artefici di estasi mistiche e di edulcorate trasfigurazioni, prima ancora che con gli utenti di quell’età rigidamente scandita dagli stessi cataloghi editoriali che le destinavano esclusivamente alla ‘decorazione’ di libri per la prima infanzia, pagina dopo pagina, intrecciarono il loro delirio autoreferenziale proprio con quelle ‘fanciulline’ neglette e ribelli che avevano dovuto troppo presto imparare a nascondersi sotto le mimetiche fattezze delle illustratrici stesse.
Ma l’esame di una produzione che, dalle artiste più prolifiche che illustrarono centinaia di libri a quelle che disegnarono una sola illustrazione, consente anche una serie di considerazioni sulla sua collocazione complessiva. Essenzialmente legata alla pubblicazione di fiabe, leggende e riduzioni di storia sacra per la prima infanzia, la presenza femminile si assottiglia fino a scomparire all’interno delle opere di avventura, di divulgazione scientifica e nella grande letteratura destinata agli adulti. Non risulta, per esempio, nessuna illustratrice nelle centinaia di interpretazioni iconografiche de I promessi sposi; solo Maria Augusta Cavalieri, ma al seguito del padre Luigi, illustrò fino a tutti gli anni Cinquanta Le avventure di Pinocchio. La stessa ‘Scala d’Oro’, una tra le più popolari collane graduate per i ragazzi degli anni Trenta, accolse, fra i 18 illustratori che si alternarono ai suoi 93 volumi, una sola donna: Marina Battigelli, che non a caso illustrò Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz.
Escluse di fatto dall’avventura e dalla grande letteratura, le illustratrici mettono il loro epos al servizio di una microstoria fatta degli eventi ciclici del quotidiano e del volgere delle stagioni, registrate non nei loro fenomeni più appariscenti ma presagite nei sintomi minuti e spiate nei minimi trasalimenti, cogliendo e raccordando il fluente e torrentizio coro delle ‘piccole voci’.
La rappresentazione coatta degli accadimenti che potevano verificarsi all’interno di quel perimetro, che dal gineceo immette direttamente alla nursery, attiva la grande saga iconografica del ‘territorio infanzia’ con risultati di irripetibile seduzione e di un fascino che appare direttamente proporzionale alle ‘esterne’ conquiste tecnologiche, e prima ancora all’avvento dell’era industriale, alle quali le illustratrici oppongono un esorcizzante ottimismo.
All’immagine che la donna introietta su se stessa si sovrappone quella che la cultura maschile, già dall’epoca vittoriana, aveva assegnato all’infanzia e che, saturata dalle pulsioni di un materno oscuro e magmatico, finirà per generare il bambino che ricorre nell’illustrazione.
Come quello struggente mondo dell’infanzia – popolato da eleganti e spensierati happy few, i pochi bimbi felici – ambientato da Kate Greenaway, Jessie M. King o Winefred Smith in giardini e interni preraffaelliti, inseguito in gioiosi pic-nic e in aggraziate mosca-cieca, esplorato negli emblematici oggetti d’uso, dal tenero abbigliamento ai rassicuranti balocchi, che sarebbe venuto d’oltralpe con la poetica della nursery. Ignaro di guerre o tragedie, illustrazione dopo illustrazione e in uno stile che non possiamo che definire nursery-déco, questo grandioso monumento all’infanzia, rappresentava la proiezione lancinante di un sogno collettivo di felicità e giovinezza… Ma anche in Italia le illustratrici sognavano. Il loro ‘felice mondo dell’infanzia’ avrebbe narrato l’ininterrotta fiaba di una gaiezza mai incrinata, nella quale tutti i diversi: ‘poveri’, ‘zoppini’ e ‘muratorini’, verranno evocati nello specchio rovesciato, al solo rassicurante scopo di sottolinearne e sancirne il teorico quanto irraggiungibile diritto alla felicità.
Provenienti anche loro da quella alterità alla quale è inibita la parola, le illustratrici cercavano un altro linguaggio, trovando proprio nel segno ‘le figure per dirlo’. Un segno che, nella rivoluzionaria fisicità alla quale allude l’illustrazione, si fa già ‘politico’ e che esprime nell’impegno creativo del divenire immagine una sorta di protomilitanza.
Lo spazio dell’illustrazione vede allora aggregarsi artiste di varia esperienza e formazione che realizzano la loro vocazione dalle opzioni più diversificate, determinando intrecci e morfologie che si sottraggono a qualsiasi catalogazione che non si eserciti per grandi linee di prevalenza operativa. Molte di loro, infatti, si rivolsero all’illustrazione solo occasionalmente anche se con risultati significativi, mentre per altre l’illustrare costituì solo una tappa giovanile di passaggio, una forma espressiva da affiancare all’attività artistica, o una fugace occupazione alla quale titoli e censo vietarono di trasformarsi in realtà professionale. Prevalente, fino a configurarsi come vera e propria professione, sarà invece l’opera di poche solitarie illustratrici.
Per altre, la vocazione si paleserà e si affermerà intrecciandosi con il privato di una tradizione artistica famigliare: figlie, sorelle e mogli di pittori, grafici e architetti.
Arse dalla necessità di esprimersi, come testimonia la storia di tante autodidatte, l’urgenza di ‘rappresentare’ il proprio mondo separato indurrà molte illustratrici – e non solo la significativamente cospicua schiera delle scenografe professioniste – a ‘mettere in scena’ e ‘allestire’ sulla pagina vere e proprie rappresentazioni. Per non parlare delle scrittrici-disegnatrici, il cui linguaggio letterario avrebbe assegnato all’illustrazione un livello espressivo che non richiedeva ulteriori specializzazioni.
E mentre apostoli del rinnovamento tipografico quali Raffaello Bertieri e Cesare Ratta, nell’incoraggiare l’opera degli incisori così funzionale al rigore delle loro pagine, cominciavano a valorizzare anche l’opera delle donne, limitatamente a quella delle xilografe e delle acquafortiste, la grande editoria italiana si sarebbe avvalsa del contributo delle illustratrici molto tardi e solo a fronte del crescente mercato dei libri per l’infanzia.
Tuttavia, una volta accesa la miccia, il coraggio e l’ostinazione di molte illustratrici avrebbe cominciato a palesarsi attraverso immagini ribelli di straordinaria originalità, sempre più personali e competitive, che dalle sedi più disparate invocano solo il giudizio dello sguardo.
Ed è soprattutto questa la storia che vogliamo indagare; ma per ritrovare tono e colore di un clima così ardente e articolato, del quale ogni notizia può illuminare una sfumatura, restituire un profumo e raccogliere un fiato, rimandiamo, storia per storia, alle relative schede e a quelle citazioni che, ripercorrendo cronologicamente tante vicende, nel continuo sovrapporsi di pubblico e privato e nella somma di tante unicità, si offrono a un primo recupero di quella storia sommersa dell’illustrazione, scritta in Italia da migliaia di donne.
Estratto da Le figure per dirlo. Storia delle illustratrici italiane di Paola Pallottino Treccani Libri, 2019. Per gentile concessione di Treccani [l’editore di questa rivista].
Il 6 febbraio alle ore 18, a Roma, alla Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia italiana, per i Giovedì alla Treccani, Paola Pallottino presenta Le figure per dirlo. Storia delle illustratrici italiane (Treccani Libri) con Luciana Castellina e Giorgio Bacci.