S ono passati ormai quindici anni da quella volta in cui una studentessa mia coetanea mi disse di preferire una conversazione in inglese a una in castigliano. Io venivo dall’Università Pisa e lei da Barcellona, eravamo a Salamanca e io non parlavo catalano, ma lei mi confessò di preferire la lingua di oltremanica allo spagnolo quando era costretta a parlare una lingua “straniera”. Sono passati quindici anni da allora. Nel frattempo la Spagna ha vissuto una crisi economica senza precedenti, ha vinto per la prima volta i mondiali, ha visto lo scioglimento del gruppo terrorista basco ETA, ha approvato i matrimoni tra le persone dello stesso sesso, ha scoperto che i suoi politici erano corrotti, è sopravvissuta agli attentati terroristici, ha riesumato un dittatore, vietato il fumo nei bar e perso tutte le edizioni di Eurovision. Eppure la questione catalana è rimasta lì, stoica, inamovible, organizzata, politicamente argomentata e ogni giorno più rumorosa, urgente e ingarbugliata. Quindici anni fa mi sembrava solo un momento di stupore in una festa troppo affollata, poi è diventata un vicolo cieco che ha dato luogo a momenti di repressione e rappresaglie, scontri in punta di diritto e in virtù della quale alcuni politici sono finiti in carcere, mentre altri sono fuggiti in esilio.
Per otto secondi, almeno stando a quanto dice Wikipedia, la “nuova” Repubblica Indipendente Catalana è esistita. Il tempo di essere dichiarata in diretta tv, acclamata e poi immediatamente sospesa. Era il 10 ottobre 2017 e qualche giorno prima i catalani avevano votato la loro indipendenza in un referendum incostituzionale che era stato represso delle forze dell’ordine. C’erano stati migliaia di feriti ma per fortuna nessuna vittima. Dovunque si tenevano manifestazioni multitudinarie e nel cielo di Madrid volavano gli elicotteri. Otto secondi davanti a un computer con il fiato sospeso e molta paura. Con un gruppo di amici l’avevamo esorcizzata creando nei giorni precedenti una confederazione immaginaria di stati individuali: ognuno con il suo nome strambo e la sua bandiera ridicola. C’era il paese del ragù con il fuso orario di Mosca, quello in cui il sovrano era un cane, quello in cui era obbligatorio dormire dopo pranzo. Posti impossibili per chi viveva in un luogo reale in cui improvvisamente l’illusione di un tempo senza confini si scontrava con lotta per erigerne uno.
Le ragioni a cui si appellano i movimenti indipendentisti catalani sono molteplici. Vi è un elemento culturale e identitario, delle motivazioni economiche e l’adesione a una tendenza generale che vede i centri economici forti, e la Catalogna in Spagna lo è indubbiamente, lottare per appropriarsi o riappropriarsi della propria sovranità. A voler essere filologici dunque bisognerebbe tornare indietro di secoli, quando Barcellona cadde sotto il lunghissimo assedio dell’attuale casa regnante nella sconfitta che tutti gli anni viene ricordata nella giornata nazionale catalana, o ricordare come Barcellona sia stata capofila nella lotta contro la falange franchista prima dell’avvento della dittatura. Bisognerebbe ricordare che il catalano è una lingua antica e fatta di una letteratura di primissimo ordine, e per questo si può citare en passant l’opera di Merce Rodoreda o il recente premio Cervantes assegnato a Joan Margarit, o ricordare come – e per questo possiamo affidarci alle parole del cattedratico e analista politico Antonio Elorza – “nel XIX secolo la Catalogna si sia adattata in maniera soddisfacente al piano economico, ma in forma conflittuale rispetto all’ordine politico poco avanzato della Spagna di allora”. O specificare che l’indipendentismo catalano si differenzia dai nazionalismi conservatori per il forte afflato europeista (per intendersi “alla scozzese”) e per un certo cosmopolitismo (celebre è la conferenza stampa in quattro lingue data dall’ex presidente dell’autonomia Carles Puigdemont, fuggito in Belgio dopo aver dichiarato l’indipendenza). Ma forse non è necessario tornare tanto indietro, perché secondo molti analisti la nascita di un nuovo e agguerrito sentimento indipendentista si origina in un punto di rottura identificabile, che si colloca nel ben più vicino 2010.
Nel 2010 la Spagna, come altri paesi europei, è alle prese con gli effetti di una gravissima crisi economica, il presidente Zapatero approva piani di ristrutturazione lacrime e sangue, e a giugno iniziano i mondiali. Nello stesso mese il tribunale costituzionale pubblica una sentenza che elimina alcuni articoli del testo che riformava l’Estatut, una sorta di costituzione regionale catalana. In particolare priva di valore giuridico il suo riconoscimento come “nazione”, sebbene nella costituzione nazionale spagnola sia riconosciuto “il diritto all’autonomia delle nazionalità”. Uno scontro in legalese che venne presentato da alcuni come l’ennesimo atto di un disegno repressivo, e da altri come una vittoria contro gli attentatori dell’unità nazionale. “Vede, esiste la convinzione che quanta più repressione si eserciti in Catalogna, tanti più voti si guadagnino in Spagna” mi spiega Joan Lluís Pérez Francesch, professore di diritto costituzionale dell’Università Autonoma di Barcellona. Alla vigilia della prima coppa del mondo guadagnata dalla Roja ai supplementari, si tiene dunque “la più grande manifestazione della storia del catalanismo”, almeno secondo El País, che cita la presenza di 400.000 persone in piazza. Da allora ne seguiranno altre, sempre storiche e sempre più tese — fino a punto di non ritorno che coincide con la celebrazione del referendum del 2017. Gli ultimi scontri violenti si sono verificati nell’autunno del 2019, quando i politici che lo avevano organizzato sono stati condannati per sedizione a pene tra i nove e i tredici anni di carcere.
Per otto secondi, la nuova Repubblica Indipendente Catalana è esistita. Il tempo di essere dichiarata in diretta tv, acclamata e poi immediatamente sospesa.
“Il catalanismo politico maggioritario ha storicamente difeso l’importanza di partecipare alla riforma dello stato, che in qualche modo la forza economica di un centro forte (come Barcellona, ndr) fosse anche una forza politica. Il catalanismo non era indipendentista, ma credo si sia registrata un’accelerazione importante a partire dal 2010” continua Pérez Francesch. “La crisi economica del 2008 e la frustrazione del Estatut sono stati il detonatore di quanto è avvenuto dopo. Nel 2010 l’indipendentismo era al 19% adesso sfiora il 50%”, aggiunge Antonio Elorza, “il che non giustifica in nessun modo giocarsi la rottura con lo stato centrale alla roulette russa, tipo Brexit. Differente sarebbe se il sovranismo catalano avesse alle spalle quello che avevano nel 1990 la Slovenia o la Croazia.” Allude al conflitto jugoslavo, anche se in seguito ai violenti scontri avvenuti durante il referendum uno dei movimenti pro indipendenza decise di identificarsi con gli ucraini, diffondendo un video, diventato virale, in cui una giovane ragazza chiede aiuto all’Europa in difesa del popolo catalano così come tre anni prima aveva fatto una giovane da Kiev.
Il video scatenò come previsto una serie di critiche inferocite soprattutto perché presentava i catalani come un popolo oppresso contro l’evidenza del contrario. Eppure fece notizia, come in questi giorni fa notizia che sul palazzo del governo regionale sia stata tolta la bandiera spagnola per 15 minuti, o che un noto regista si scagli contro un noto drammaturgo per le sue affermazioni anti-indipendentiste, o che ci sia un politico, Oriol Junqueras, che è stato eletto al Parlamento Europeo mentre era in carcere preventivo e adesso non si sappia bene come gestire la cosa, o che ci sia un presidente del governo che per risolvere la questione dichiari di ambire a una soluzione irenica quanto vaga (“l’unica via possibile” ha detto, “è il dialogo, la negoziazione, il patto”), o ancora che la giunta elettorale inabiliti l’attuale presidente dell’autonomia, Quim Torra, e questi gridi al “colpo di stato”. La questione catalana ha avuto negli anni una progressiva e sconcertante pervasività portando a una spaccatura sociale e politica che a tratti sembra insanabile e fa oscillare gli indicatori con l’emotività del botta e risposta del giorno, della recriminazione più forte, della protesta più rumorosa, della polemica più colorita. Uno studio del Centre d’Estudis d’Opinió (CEO), pubblicato a dicembre 2019 su La Vanguardia, dice che il 47% dei catalani è contrario alla creazione di uno stato indipendente, mentre il 43% è a favore. Ad aprile dello stesso anno i dati erano praticamente identici e invertiti. Su e giù costanti al filo delle notizie che tuttavia non occultano la clamorosa ascesa dei pro-indipendenza che una quindicina di anni fa erano solo il 16%.
Negli ultimi 40 anni la Spagna ha dato forte impulso alla difesa delle differenze territoriali. Per intendersi si tratta di uno dei paesi che presenta un tasso di decentralizzazione regionale tra più alti in Europa. La Catalogna possiede, per esempio, competenze dirette per quanto riguarda l’ordine pubblico – con un proprio corpo di polizia –, l’educazione, i mezzi di comunicazione, la sanità, l’ambiente, i trasporti. “In Catalogna c’è stata, ed esiste ancora, la volontà di esercitare il diritto all’autodeterminazione. Questa è esistita in passato e non sparirà” continua Pérez Francesch, “è normale che i cittadini chiedano, facciano delle rivendicazioni… e non è con le sentenze che si possono risolvere le cose, la politica è più grande. Le normative statali non ammettono l’autodeterminazione perché sarebbe come ammettere la propria distruzione. Nella legislazione internazionale è stata ammessa nel caso di popoli oppressi, ma se venisse applicata in senso lato l’Europa salterebbe in aria. Eppure gli indipendentisti vogliono internazionalizzare le loro rivendicazioni ed esistono soluzioni concordate, come nel modello scozzese” conclude, facendo riferimento al referendum celebrato in Scozia nel 2014 e che potrebbe essere ripetuto ora che il Regno Unito si appresta a lasciare l’Europa.
In Catalogna vive il 16% degli spagnoli, la regione ha un PIL di un 20% più alto della media nazionale e nel 2018 ha concentrato il 21% dei posti di lavoro generati dagli investimenti esteri. “In realtà la risposta più semplice, che è il punto di partenza per tutti coloro che studiano questi fenomeni, riguarda il fatto che la progressiva integrazione economica fa perdere molte delle funzioni per cui sono nati gli stati, soprattutto a seguito dei processi di integrazione posti in essere dopo la Seconda guerra mondiale. L’integrazione economica riduce le ragioni per cui questi centri hanno interesse ad appartenere a un’unità statale. E le unità statali hanno meno strumenti per contrapporsi all’ipotesi secessionista” spiega Stefano Procacci, docente di Politiche estere comparate dell’Università Cattolica di Milano. In sostanza se non esistono più i dazi un polo economico forte non ha più bisogno di un mercato nazionale a cui fare riferimento per prosperare, perché potenzialmente ha a disposizione il mondo.
Secondo molti analisti, la nascita del nuovo indipendentismo si colloca nel 2010: la crisi economica e la frustrazione del Estatut sono stati il detonatore di quanto è avvenuto dopo.
Al tempo del referendum del 2017, il Guardian dedicò una serie di approfondimenti all’identità catalana intervistando un campione variegato di persone che difendevano l’indipendenza. Nel primo un giovane che si definisce “indipendentista non nazionalista”, spiega che per lui l’indipendenza non è un fine ma un mezzo per “rompere con uno Stato che rappresenta l’eredità del franchismo e che ha sequestrato i simboli più importanti, della giustizia, dei tribunali e della comunicazione.” Un’altra signora dice invece che è stata l’inabilitazione legale del referendum, e quindi l’impossibilità di esprimere la sua opinione, a interrogare la sua identità: “Rispettare la legge è importante” dice, “ma cos’è più importante? La legge o le persone?”. Un terzo, appartenente a Societat Civil Catalana, afferma che i “catalani che si sentono spagnoli” sono stati “silenziati per molto tempo” e che la forza dell’indipendentismo è frutto della manipolazione del potere. La quasi totalità delle persone che vivono in Catalogna parla castigliano e catalano, quest’ultima è una delle 60 lingue minoritarie che si parlano in Europa e dunque, afferma Juan Claudio de Ramon, “la questione catalana è anche una questione linguistica in primo luogo perché ha che vedere con il fatto che in Catalogna convivono due lingue […]. Il nazionalismo catalano equipara la lingua catalana alla nazione catalana, e, come ogni nazionalismo, vuole che la nazione venga riconosciuta come uno stato. […] Quello che succede però è che anche […] il castigliano è una lingua allo stesso modo molto radicata nel territorio”. Di qui l’ossimoro di una diversità che è una ricchezza per le persone ma costituisce una sfida per gli stati.
In uno dei suoi ultimi libri, Juan Claudio de Ramon decostruisce quelli che a suo avviso sono tutti i luoghi comuni che riguardano la crisi catalana che secondo lui viene anche giustificata attraverso un’identità sociale che ha definito come un “essere senza vincoli”, ovvero gruppi di persone che confondono il diritto con il desiderio. Il fatto è che questa presunta confusione non può essere liquidata così facilmente: “Il concetto di stato nazione è sempre stato in trasformazione, la sua base culturale e identitaria è sempre diversa” spiega Procacci, a cui si aggiunge Perez Francesch: “la provvisorietà permanente è lo stato più comune in politica. Le cose sono in un modo fino a che non vengono cambiate e non si capisce come sia possibile che le rivendicazioni politiche, i desideri delle persone diano fastidio. Bisogna trovare una soluzione, non so quale… ma è necessario farlo.” Ma le soluzioni sembrano scarseggiare, mentre la piazza e il battibecco politico confondono le acque in un paese con i nervi a fior di pelle in cui tutti si offendono per qualcosa; in cui non si è esitato a usare la forza contro persone che volevano votare e in cui la questione resiste stoica, argomentata e compatta, simbolo di quella che i giornali definiscono ormai come “una sindrome” di cui si potrebbe parlare all’infinito senza riuscire ad afferrarne in maniera più profonda il senso storico. Forse la ragazza di Barcellona che mi parlava in inglese avrebbe potuto spiegarmelo. Ma avevo vent’anni ed ero convinta che il mio trovarmi lì con lei, a studiare in un paese che non era il mio, significasse che i confini da qualche parte forse ancora esistevano ma in fondo non erano affar mio. E allora se me lo avesse detto, probabilmente, non avrei capito.