Q ualche anno fa, lavorando a un libro poi pubblicato col titolo di Teneri violenti, mi ero imbattuto in uno scatto apparso sul quotidiano La Stampa. Nella foto era ritratto un uomo sui quarant’anni, in primo piano. Non ricordo più per quale motivo fosse stato arrestato. Conservo il ritaglio della foto, ma non dell’articolo. Peccato. Indossava una giacca scura, una camicia bianca e una cravatta.
L’articolo era uscito alla fine degli anni Sessanta: mi sembra di ricordare che l’uomo arrestato fosse tra i frequentatori di un cinema a luci rosse. O forse era il custode di una certa quantità di materiale pornografico nascosto all’interno di un’abitazione. L’articolo riempiva giusto un paio di colonnine. Ricordo un altro dettaglio: l’uomo della foto faceva un mestiere umile. Lo spazzino o il bidello, non ricordo bene. Ma è la faccia che non posso dimenticare, tanto che spesso sento il bisogno di riprendere in mano il ritaglio. L’uomo portava i capelli sistemati con la riga da una parte, lucidi, in ordine e ben schiacciati sul cranio. Una scriminatura accurata, una pettinatura adottata, senza dubbio, allo scopo di destare una certa sensazione nel prossimo. Lo sguardo spento, catatonico – ma non privo di un’ambigua determinazione. Uno sguardo che intendeva provocare.
Provocare chi? Il proprio tempo, i concittadini democratici, gli elettori dei partiti politici che vent’anni prima avevano scritto la Costituzione, i telespettatori del sabato sera, i contribuenti, gli acquirenti di automobili ed elettrodomestici a rate, insomma l’umanità con quel determinato stile di vita e consumi viva intorno alla fine degli anni Sessanta. Soprattutto l’uomo della foto portava il baffo a spazzolino. Anche Charlie Chaplin e Oliver Hardy portavano il baffo a spazzolino. Ma a partire dal 1945, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale, nessuno ha più portato il baffo a spazzolino. Quel tipo di baffo, infatti, era stato il baffo di Adolf Hitler. Eppure, alla fine degli anni Sessanta, c’era almeno un individuo -l’uomo ritratto nella foto- che se ne andava in giro per le strade di una città italiana, ostentando il baffo hitleriano e i capelli tirati con la riga da una parte. E probabilmente con quella faccia andava ogni giorno al lavoro, a spazzare i marciapiedi luridi con una grossa scopa di saggina o a sorvegliare le aule di una scuola elementare vestito con un grembiule blu. Un tentativo di reincarnare il fantasma del Führer.
Quanti furono in Italia, tra gli anni Cinquanta e Settanta, quindi a guerra da poco conclusa, le donne e gli uomini che vollero farsi seguaci del culto minore e sconfitto del nazifascismo? Non furono pochi, e alcuni di loro si dimostrarono molto attivi. Alcuni di questi personaggi tramarono contro la democrazia e si spinsero fino a buttare delle bombe, distruggendo la vita di molte persone.
Quanti furono in Italia, tra gli anni Cinquanta e Settanta, quindi a guerra da poco conclusa, le donne e gli uomini che vollero farsi seguaci del culto minore e sconfitto del nazifascismo?
La maledizione di Piazza Fontana, tomo di quasi seicento pagine uscito per Chiarelettere e scritto dal giudice Guido Salvini insieme al giornalista Andrea Sceresini, oltre a rappresentare un’inchiesta di grande interesse storico per i tanti studiosi della vicenda e per gli habitué dello scaffale “anni di piombo”, contiene una straordinaria galleria di ritratti dedicati proprio a questo tipo nostalgico, a questo tipo italiano, a questo tipo europeo e occidentale, divenuto dopo la guerra così raro, minore, costretto nell’ombra, refrattario al gioco tra pari della democrazia, schivo per forza di cose, sotterraneo e spesso di lugubri apparenze; nonché infelicemente consapevole della propria dannazione, ma pure dell’alterità che lo distingue, del lignaggio, dell’eredità dalla quale crede di essere attraversato, fino a farsi ricettacolo di una Tradizione, con la T maiuscola, che si suppone durare nei secoli, al di là dei mutamenti.
In La maledizione di Piazza Fontana non può certo mancare uno degli attori principali: Franco Freda. Freda fu a capo della cellula veneta di Ordine Nuovo, responsabile della bomba di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. “Algido” e “aristocratico”, secondo le parole di Salvini e Sceresini. All’epoca dei fatti è il titolare di una libreria che si trova a Padova, in centro storico. E dove, esattamente? Ironia della sorte: in via del Patriarcato. Tra i nomi che diventeranno noti di quel gruppetto di Ordine Nuovo c’è anche quello di un piccolo editore, Giovanni Ventura.
“L’Europa”, dice Freda, “è una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli e contratto tutte le infezioni ideologiche”. Stando a Guido Lorenzon, il teste inascoltato che avrebbe potuto risparmiare un po’ di galera all’anarchico Pietro Valpreda, “Freda è una persona che impone la propria volontà sugli altri. Ventura, invece, è quello che ti aspetta dietro l’angolo e cerca di convincerti”. Parole di Lorenzon, riferite giusto qualche mese fa alla giornalista Sandra Bonsanti.
Altro siparietto, per capire di che pasta è fatto il libraio Franco Freda. Interrogato in aula a Catanzaro, durante il processo per Piazza Fontana, Freda si rivolge così all’interrogante: “Mi scusi. Lei chi è?”. L’interrogante risponde: “Sono il pubblico ministero”. Allora Freda replica, secco: “La riverisco”. E non appena il Pm domanda a Freda se ha mai conosciuto la tal persona, Freda comincia a filosofeggiare, se non a prousteggiare: “Credo di averlo conosciuto. Il verbo credere dipende da una percezione sensoriale che a distanza di quarant’anni, ella comprende, si è affievolita”. In questo scambio c’è parecchio del carattere di Freda: il vizio d’interrompere, che è una tecnica da karateka utile a slogare il discorso dell’interlocutore, per quanto di fronte a un giudice possa risultare non efficace e perfino controproducente; l’atteggiamento altero; le fumisterie e i diversivi (“il verbo credere dipende da […]”) e infine il vocabolario cerimonioso, antiquato, espresso nell’inciso “ella comprende” e in quel “la riverisco”, con il quale Freda intende sottolineare un sentimento che non viene mai meno, cioè il suo rispetto incondizionato per la gerarchia. Questo tratto culturale, e psicologico, probabilmente si forma, in Freda e in altri di Ordine Nuovo, grazie alla lettura delle opere del barone Julius Evola, filosofo venerato, maestro spirituale, il quale appunto predicava, tra l’altro, l’insostituibile valore sociale e spirituale della gerarchia.
Nel 1975 esce per Garzanti un romanzo dal titolo Occidente, dello scrittore Ferdinando Camon. La storia e l’ambientazione sono ispirati ai padovani di Ordine Nuovo. Il libro inizia con il racconto di una festa nella campagna veneta. Camon descrive così quel contesto umano che si percepisce diverso ed eletto:
conservano il senso del circolo o della casta, tanto è vero che le loro biografie si somigliano tutte come se appartenessero tutti allo stesso clan. I modi di convocarsi sui colli, di darsi appuntamento con musica e falò, di accendere le grandi luminarie, di tenere i tassì a disposizione in cortile per tutta la notte, insomma di costringere tutti ad accorgersi di loro, rovescia la loro condizione di vinti, di figli di una sconfitta: essi si comportano ancora come se il mondo gli appartenesse.
Nello stesso Veneto in cui opera il gruppo d’ispirazione neonazista Ludwig di Marco Furlan e Wolfgang Abel, responsabile tra il 1977 e il 1984 dell’uccisione, tra gli altri, di un senzatetto, di un omosessuale, di un tossicodipendente e di una prostituta. Nello stesso Veneto in cui negli anni 80 si forma una band industrial interessata all’esoterismo, dal nome Rosemary’s baby, il cui fondatore diventerà in seguito, per contrappasso o forse in modo del tutto coerente, un fervente cattolico tradizionalista.
Tornando a Evola: a partire dal 1949 Julius Evola cominciò a vivere in un appartamento al quinto piano di un palazzo in Corso Vittorio Emanuele, a Roma, dove ancora oggi si trova una targa alla memoria di Guido Baccelli, medico chirurgo, Ministro dell’Istruzione nei governi Cairoli, Depretis, Pelloux, Ministro dell’Agricoltura nel Governo Zanardelli-Giolitti.
L’appartamento venne messo a disposizione dalla contessa Amalia Baccelli, discendente del Ministro e in seguito figura di spicco nel Movimento Sociale Italiano. Evola da giovane era stato un pittore dadaista, un poeta, un alchimista, un esoterista e durante il fascismo un teorico del cosiddetto razzismo spirituale. Dopo il 25 luglio 1943 era fuggito in Germania. Fino alla fine della guerra fece avanti e indietro tra Italia e Terzo Reich. Nell’aprile 1945 restò vittima di un bombardamento, a Vienna, che gli procurò una lesione alla spina dorsale. Passò il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle, confinato al quinto piano del palazzo di Corso Vittorio Emanuele. Fuori la città scrostata e macilenta dove Vittorio De Sica gira la storia di Umberto D e del suo cagnolino. A partire dal 1950 l’appartamento venne frequentato da una ristretta cerchia di nostalgici, compreso Pino Rauti, fondatore del Centro Studi Ordine Nuovo. Si rispecchiavano nella figura dell’uomo «in piedi in mezzo alle rovine», descritta e celebrata da Evola.
Di Evola resta una lunga videointervista a colori in lingua francese, registrata nel 1971. All’epoca aveva 73 anni (morirà nel 1974). In quel video ricorda un personaggio apparentemente molto distante: Numero Uno, il capo del Gruppo TNT nello storico fumetto partorito da Magnus e Max Bunker. Sia Evola che Numero Uno siedono su una sedia a rotelle. Al Numero Uno è rimasto un solo dente. A Evola sembrerebbero restare un paio d’incisivi superiori. In entrambi lo sguardo è lievemente strabico e allucinato, eppure sono ancora capaci d’incantare un gruppetto di devoti, a forza di favole e digressioni. E se scrivo “favola” non intendo il termine nell’accezione negativa di bugia e menzogna, ma voglio dire intreccio, storia, sogno, magia, leggenda. Tra lo stesso Gruppo TNT e Ordine Nuovo potrebbe darsi un gioco di corrispondenze. Alan Ford è l’uomo biondo, prototipo dell’aitante ariano dagli occhi celesti, forte, alto, slanciato (anche se ingenuo e goffo: ma è il personaggio di una commedia a fumetti, chiaro…); il Conte Oliver è il nobile caduto in disgrazia che s’incontra di frequente anche nei cenacoli dell’estrema destra; Grunf, ex meccanico della Luftwaffe, è il personaggio votato all’azione, tutto d’un pezzo e compenetrato di disciplina militare; al netto degli aspetti comici, l’iracondo Bob Rock potrebbe somigliare al modello dell’ex balilla scalcinato, povero in canna, gonfio del risentimento dei vinti verso la democrazia dei vincitori; etc. etc.
Inoltre, tanto le fila del Gruppo TNT quanto in parte quelle di Ordine Nuovo sono formate da individui marginali, sconfitti, per non dire reietti, feriti e traumatizzati. Infine, non si è sempre detto che Max Bunker è un tipo di destra? E allora non è così azzardato ritenere che la fantasia comica di Bunker abbia poggiato su un certo substrato di archetipi e simboli. Il giovane barone Evola, tra l’altro, condivideva un vezzo anche con il conte Oliver: l’uso del monocolo, la lente per un solo occhio incastrata nell’orbita.
L’atmosfera lugubre e settaria del salottino di corso Vittorio Emanuele, sembra aver plasmato la psiche, la cultura e perfino l’aspetto di una generazione di neofascisti. Prendiamo una foto dell’ordinovista padovano Marco Pozzan, scattata in un’aula di tribunale a Catanzaro, probabilmente tra il 1976 e il 1978. Pozzan, con i polsi stretti dagli schiavettoni, veste una giacca nera, forse più grande di una taglia, e una camicia, sempre nera, abbottonata fino al collo. Barba lunga di qualche giorno. Occhiali da sole scuri. Ghigno degno di un personaggio di Otto Dix.
Da La maledizione di Piazza Fontana: “Pozzan è il custode dell’Istituto Configliachi di Padova (un istituto per non vedenti, Nda); è un ex repubblichino dall’aria sulfurea, appassionato di esoterismo e fedele collaboratore di Freda”.
Ma il ritratto più avvincente, tra i tanti tratteggiati da Salvini e Sceresini, è quello dedicato all’ordinovista Gianni Casalini. Tra le memorie trasmesse da Casalini a Salvini, c’è n’è pure una che riguarda Pozzan, il quale una notte, di fronte a Casalini, avrebbe avvelenato il gatto di un militante di Ordine Nuovo, allo scopo di testare l’efficacia di un quantitativo di cianuro d’argento che si trovava nella sua disponibilità.
“Quando lo avevo sentito per la prima volta, nel maggio del 1992”, racconta Guido Salvini, “Gianni Casalini mi era parso più vecchio della sua età, cinquant’anni allora. Sembrava un uomo svuotato, privo di energia. ‘Si chiama psicastenia’ mi aveva spiegato pacatamente usando un termine scientifico preciso. ‘Mi ha colpito poco dopo il servizio militare e non mi ha più abbandonato’”.
Salvini, più avanti nel libro, descrive la cameretta della casa di riposo nella quale è ricoverato Casalini, circa quarant’anni dopo i fatti di Piazza Fontana:
La stanza è disseminata di posacenere, tutti più o meno colmi di mozziconi. Casalini me ne mostra uno in particolare, a piantana, con vari disegni curiosi: mi spiega che lo ha comprato dai cinesi e con metodo e soddisfazione ne indica il prezzo vantaggioso.A lato del letto, sulla parete bianca, spicca un manifesto con una frase a stampatello: IL NOSTRO ONORE SI CHIAMA FEDELTÀ, il motto storico di Ordine nuovo. Forse è affezione alla gioventù, forse Casalini, senza far male a nessuno, non ha cambiato idee, ma non è certo questo che ci preoccupa.
Casalini ci aspetta sulla soglia, nel corridoietto con l’attaccapanni che fa “appartamento”. È ancora più piccolo e curvo di come lo ricordavo. In questi anni la sua psicastenia sembra molto migliorata, ma cammina a fatica, strisciando i piedi e appoggiandosi al bastone. È parecchio dimagrito, il collo incurvato, la testa incassata nelle spalle. Se non portasse le bretelle, penso, i pantaloni gli cadrebbero.
In un’altra occasione Casalini racconta a Salvini di amare molto Il male oscuro, il romanzo sulla depressione di Giuseppe Berto, Premio Viareggio e Campiello nel 1964. Casalini era nato in una famiglia “tipicamente veneta, chiusa e borghese, interessata solo all’esteriorità e alla rispettabilità”. Salvini assiste a un incontro tra Casalini e il medico della casa di riposo. Qui è Casalini che parla:
Il dottore quindi domanda a Casalini quali fossero le sue idee politiche da ragazzo:
[blockquote small = “small”]Avevo l’idea di dover difendere al meglio l’Italia dal comunismo e dal blocco sovietico che poteva invaderla […] Sono diventato fascista anche per reazione alla mia famiglia borghese… anche essere fascista può essere una scelta rivoluzionaria…