Q uando Paolo di Tarso scriveva nella Lettera ai Tessalonicesi “restiamo svegli e siamo sobri” per esortare i fedeli a vivere secondo i princìpi cristiani, stava scrivendo il primo documento di una nuova religione. Quasi duemila anni dopo, l’incitazione a restare svegli (“stay woke”) è diventata uno slogan di protesta contro le discriminazioni razziali subite dagli afroamericani: il movimento Black Lives Matter lo ha reso popolare, e nel 2016 woke è entrato nel lemma dell’Oxford English Dictionary con la definizione di “essere vigile nei confronti delle ingiustizie sociali, specialmente del razzismo”.
La divisione fra coloro che condividono la prospettiva della cosiddetta “woke culture” e chi ne critica l’atteggiamento di superiorità morale giudicandolo sterile e infantile (l’ha fatto di recente Barack Obama), si riassume in molti casi in uno scontro generazionale. Trick Mirror di Jia Tolentino (in uscita nella primavera del 2020 per NR edizioni, traduzione di Simona Siri) e Bianco di Bret Easton Ellis (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia), due saggi sulla società americana usciti nel 2019, incarnano questa divisione partendo entrambi dall’analisi di una società alterata dai meccanismi dei social network, palcoscenico di un’eterna messinscena guidata da un bisogno di approvazione sfruttato da un’economia capitalista di grandi “corporation”, che siano Facebook o grandi studios hollywoodiani.
Canadese di origine filippina cresciuta a Houston, la trentenne Jia Tolentino è dal 2016 uno degli autori del New Yorker. I nove saggi di Trick Mirror hanno come obiettivo la decostruzione delle “sfere dell’immaginario pubblico”, specchi deformanti che l’autrice vuole ricondurre alla semplicità e alla verità di un unico riflesso. Quando ancora lavorava come redattrice per il sito femminile Jezebel, Tolentino scrisse che ciò che le donne sembravano cercare nei siti femministi era “uno specchio deformante [‘trick mirror’] che porta con sé l’illusione della perfezione assieme all’opzione autoflagellante del trovare costantemente imperfezioni”.
In questo libro ho provato a disfare le loro rifrazioni. Volevo vedere nel modo in cui vedrei in uno specchio. È possibile che invece abbia dipinto un elaborato murales.
L’accostamento tra san Paolo e l’ideologia woke è particolarmente calzante nel caso di Jia Tolentino. Come racconta lei stessa nel saggio Ecstasy, Tolentino è stata una studentessa di una scuola privata evangelica dei ricchi e bianchi sobborghi di Houston. E da ex credente non rinnega, anzi rivendica il ruolo che l’educazione religiosa ha avuto nella sua maturazione etica:
il Cristianesimo ha formato i miei istinti più profondi: mi ha dato una prospettiva di sinistra sul mondo, l’ossessione per la moralità quotidiana, la consapevolezza di essere nata in una situazione compromessa, e il bisogno di indagare continuamente le mie idee riguardo a che cosa significhi essere buoni.
Il continuo sospetto e insieme una certa fascinazione per l’inganno che aleggia in Trick Mirror (uno dei saggi è dedicato allo scam, la truffa informatica, definita dall’autrice “l’ethos definitivo dei millennial”) è ciò che contraddistingue la prospettiva woke che Tolentino utilizza per definire l’esperienza morale di una generazione cresciuta dopo l’11 settembre, entrata nel mondo del lavoro durante la peggiore crisi economica dal dopoguerra, e che tre anni fa si è trovata Donald Trump presidente. L’ego strabordante di Trump, la sua arroganza e mancanza di scrupoli, rappresentano il termine di paragone negativo e assieme il buco nero attorno al quale collassano le riflessioni di Trick Mirror.
La sua ombra si proietta sullo scenario social: in “The I in Internet”, Tolentino dipinge un quadro sconfortante, in cui l’esibizione di una presunta superiorità morale ha sostituito il concreto impegno politico, gli estremisti e i troll prosperano grazie a chi li critica (nelle parole dell’autrice “è quasi impossibile oggi separare il confronto dall’esaltazione”) e perfino movimenti di solidarietà come il #MeToo sono stati parzialmente sconfessati dalla natura stessa dell’hashtag, che ha raggruppato storie diversissime tra loro in un’identica narrativa in cui le donne sono indistintamente vittime.
La soluzione proposta da Tolentino è un radicale ridimensionamento del sé: quasi si trattasse della kénosis di cui parla Paolo, il processo di svuotamento della propria identità per accogliere quella dell’altro.
Non abbiamo nulla se non i nostri piccoli tentativi di mantenere la nostra umanità, di agire su di un modello di vera individualità che accolga la colpevolezza, l’inconsistenza e l’insignificanza… Dovremmo badare meno alle nostre identità, essere profondamente scettici riguardo alle nostre insopportabili opinioni, stare attenti a quando l’opposizione ci è utile, vergognarci quando non possiamo esprimere solidarietà senza mettere noi stessi per primi.
Il silenzio e la colpevolezza sono esattamente ciò che Bret Easton Ellis si rifiuta di concedere all’indignazione social:
Questa rabbia poteva diventare così tossica che a un certo punto lasciavo perdere e me ne stavo lì seduto esausto, ammutolito dallo stress. Ma in fin dei conti il silenzio e la sottomissione erano l’obiettivo di questo sistema.
Maschio bianco di mezz’età cresciuto in una famiglia californiana della classe medio-alta, diventato famoso con il suo primo romanzo a ventun anni, ben prima dell’esistenza di Internet, Ellis rivendica la sua appartenenza alla Generazione X come aggrappandosi a uno scudo fatto di cinismo e disincanto: “ci eravamo ribellati con l’ironia e la negatività, l’insensibilità e l’arroganza, oppure, convenientemente, avevamo piantato tutto visto che avevamo abbastanza soldi per farlo”.
All’ideologia dei “consapevoli” (è il termine con cui Giuseppe Culicchia sceglie di tradurre woke in Bianco), Ellis contrappone l’importanza dell’estetica, e dedica lunghi passi di Bianco a dettagliate recensioni cinematografiche che culminano nella critica a Moonlight, definito un film mediocre che ha potuto vincere l’Oscar perché girato in un’epoca in cui il messaggio conta più dell’arte.
Ma oggi come oggi la gente scambia di continuo i pensieri e le opinioni per veri crimini. I sentimenti non sono fatti e le opinioni non sono crimini e le scelte estetiche contano ancora – e la ragione per cui sono uno scrittore è per esporre un’estetica, cose che sono vere senza per questo dover essere sempre fattuali o immutabili. Ma le opinioni possono anche cambiare, sebbene, stando ai social, pare debbano essere eterne.
Di sicuro Ellis non intende chiedere scusa per le proprie opinioni. Se Tolentino ci parla del senso di colpa che ancora avverte per l’esibizionismo di cui ha dato prova a sedici anni, quando ha partecipato a un reality show, Ellis rimpiange l’epoca in cui poteva esistere uno come Frank Sinatra:
non ci potrà mai essere un altro Sinatra perché né la cultura pop né la nostra società funzionano più a quel modo – un modo che consente a qualcuno di fallire ripetutamente e rialzarsi di nuovo, di agire in modo sfrontato, e talvolta cattivo, senza chiedere scusa.
La sua prospettiva sulla società che descrive non è morale, ma letteraria. L’io dello scrittore diventa anche il protagonista principale del saggio, che segue le tappe della sua vita dall’infanzia a oggi. Anche Trump diventa un personaggio di Ellis: già comparso in American Psycho, qui è l’anarcoide che con la sua mancanza di rispetto per l’establishment ha svelato l’arretratezza dei media tradizionali e l’ipocrisia dei ricchi progressisti che la sua elezione ha reso isterici.
Ellis non esamina le sue opinioni dall’esterno come Tolentino, cercando di trarne un valore universale: riprende piuttosto la vocazione del romanziere di osservare il mondo dal di dentro dei personaggi, partendo dall’unicità del loro sguardo e poi eventualmente traendone degli insegnamenti. Non ci sono prismi da decostruire, ogni elaborazione non può che essere personale e solipsistica e perciò necessaria, contro l’appiattimento voluto dalla censura.
Come scrittore devo credere nella libertà di espressione a ogni costo – tutto qua… una volta che cominci a scegliere quali persone possono o non possono esprimersi spalanchi una porta che dà su una stanza molto buia della corporation, da cui non c’è via d’uscita.
È l’esercizio della scrittura a segnare la differenza più profonda tra Tolentino e Ellis, tra l’etica della consapevolezza e quella della libertà. Per Tolentino, scrivere è un atto falsamente rassicurante, la cui legittimità va messa in discussione. “Cercare di scrivere online vuol dire operare sulla base di una serie di assunti che sono già controversi quando limitati agli scrittori, e ancor più discutibili se convertiti in un imperativo categorico per chiunque sia su internet: l’assunto che il discorso abbia un effetto, che sia qualcosa di affine all’azione; l’assunto che sia giusto o utile o anche ideale scrivere costantemente quello che si pensa”.
Per Ellis, scrivere è giusto e utile per sé, per affrontare le proprie nevrosi: non è l’origine del male o la spia di un problema, ma la sua cura.
Non pensavo a nessun altro mentre scrivevo… non ho mai ceduto alla tentazione di dare al mio pubblico ciò che potevo immaginare desiderasse: il pubblico ero io e scrivevo per soddisfare me, e per alleviare il mio dolore.
Rivendicare la libertà di scrivere ciò che si vuole significa quindi legittimare la sofferenza del proprio io, e darsi una possibilità di sopravvivere in un mondo non facile. Non si può che partire da sé: disturbare gli altri con le proprie “insopportabili opinioni” resta per Ellis l’unico modo di rendere azione le parole, e far sì che la scrittura abbia un effetto nel mondo.
Ritengo che la nostra vita sia fondamentalmente dura, una lotta per chiunque a vari livelli, e che fare dell’umorismo feroce e protestare contro le sue assurde sovrastrutture e rompere le convenzioni e comportarsi male e sfidare qualsivoglia tabù sia la strada più onesta da percorrere in questo mondo.