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a noi il nome non dice molto, ma Gerald Murnane è stimato da colleghi come Coetzee e Teju Cole, ed era anche in lizza, secondo i bookmakers, per l’ultimo premio Nobel. La biografia di Murnane è composta di mistero e stranezze: è nato a Melbourne nel 1939, non ha mai lasciato l’Australia e pochissime volte la zona in cui vive, le sue opere hanno superato le barriere nazionali solo dopo una fitta pubblicazione locale e adesso risiede, senza computer o altri strumenti tecnologici, nel Victoria Occidentale. È necessario allora lodare l’operazione dell’editore Safarà (già notato per la traduzione di Consenso di Sakia Vogel e per l’edizione di Namamiko. L’inganno delle sciamane di Fumiko Enchi), che adesso ha pubblicato per la prima volta lo scrittore in traduzione italiana. Si tratta del terzo romanzo di Murnane, Le pianure (traduzione a cura di Roberto Serrai), un libro di assoluto interesse e spessore che è testimonianza viva e lucente dell’opera di un grande scrittore.
Le pianure è però un libro ingannevole o, per meglio dire, un libro che si può leggere in più modi cogliendone solo parte della vera essenza. All’apparenza si tratta di una vicenda semplice e breve, che racconta una storia che non ha nulla di eccezionale: il protagonista senza nome è un uomo, un regista, che cerca il luogo migliore per scrivere la sceneggiatura di un film in grado di raccontare le ambiguità e i segreti delle pianure australiane. Per raggiungere il suo obiettivo, riesce a ricevere l’aiuto di un gruppo di latifondisti, fino a poco tempo prima divisi in due fazioni in guerra tra loro: uno, in particolare, lo accoglierà nella sua casa per portare a termine il lavoro con tutto il sostegno necessario. Al film serve anche un’interprete femminile, che al protagonista sembrerà di trovare proprio nella grande casa che lo ospita. Eppure a partire da questa vicenda stringatamente riassunta – altre sono le sfumature, non tante, ma presenti – emerge un senso di mistero e di impenetrabilità che rende evidente al lettore la complessità di questo libro e che niente, tra queste pagine, è come sembra, che ogni parola e ogni frase nasconde altro, un mondo misterioso e inconoscibile che è simbolicamente rappresentato proprio dall’immagine delle pianure. Nella prima pagina il protagonista racconta il suo viaggio verso i terreni pianeggianti con queste parole:
Le pianure che attraversai in quei giorni non erano sempre uguali, all’infinito. A volte guardavo una grande vallata, poco profonda, con alberi sparsi e bestiame ozioso e forse, al centro, un misero corso d’acqua. A volte, al termine di un tratto di campagna che non prometteva assolutamente nulla di buono, la strada saliva verso quella che senza alcun dubbio era una collina, prima di lasciarmi intravedere, più avanti, solo un’altra pianura, rasa e brulla e sconfortante.
Una lettura attenta apre immediatamente le porte a enigmi percettivi, il “forse” che mette in dubbio ciò che si vede, paesaggi che salgono e per un momento nascondono alla vista quello che c’è dopo, simbolo del continuo lavorio di ermeneutica del paesaggio che attraversa tutto il libro.
Le pianure si presentano tra queste pagine come un territorio paradossale: una cosa piana può essere osservata nella sua interezza, ma in questi paesaggi c’è sempre qualcosa che impedisce alla ragione di afferrare il senso profondo di ciò che è contenuto. Per questo la sceneggiatura del film diventa un’impresa rispetto alla quale, alla fine, non riescono a dare aiuto neanche gli stessi abitanti del luogo, anche loro incapaci di raccontare lo spazio che frequentano e vivono da sempre. Il paradosso prosegue perché questo territorio, immutabile nel tempo e nello spazio, dà all’uomo solo l’illusione di possederlo: la sua ripetitività, normalmente un fattore semplificante, non è in grado di garantire una conoscenza. Il suo mistero anziché essere nascosto è sotto gli occhi di tutti, è il segno della piccolezza dell’uomo di fronte alla Natura, delle forze sotterranee che guidano e sviano la nostra percezione, impedendo di riconoscere i tratti salienti e più importanti della realtà. Ecco allora che la pianura si trasforma simbolicamente in una montagna, alta e invalicabile, che nasconde completamente ciò che ha dietro. Gli uomini della pianura hanno come scopo quello di “mandare avanti il compito di una vita, dare forma e sostanza di mito a giorni monotoni su un panorama piatto” e neanche il regista riuscirà a trovare una rappresentazione che soddisfi la sua ricerca sul significato più profondo dell’ambiente, alimentando quindi, anche lui, un mito geografico. Il progetto del protagonista si chiama Nell’interno, ma è immediatamente percepibile come la posizione suggerita non possa in alcun modo essere acquisita:
Questi uomini, difatti, erano fiduciosi del fatto che più mi fossi sforzato di raffigurare anche un solo particolare paesaggio, una disposizione di luce e superfici che suggerisse un istante su una pianura di cui fossi sicuro, più mi sarei smarrito in un labirinto di giri di parole, senza che dietro di queste comparisse alcuna pianura
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La semplicità del dettato di Murnane è ingannevole quanto la sua storia: come nota Ben Lerner nella generosa introduzione, le frasi che Murnane utilizza “sono piccole dialettiche di tedio e bellezza, piattezza e profondità”, in grado di “unire un’evidenza fattuale, che spesso si avvicina alla freddezza, con un intricato lirismo; sono misurate, sia nel senso di ‘contenute’ che nel senso poetico di ‘metriche’, dove il primo spesso cede il passo al secondo proprio mentre leggete”. Sono molte le frasi che rendono evidente questo procedimento rilevato da Lerner, che si esplica in un procedere sempre uguale e sempre diverso grazie alle sue impercettibili sfumature lessicali e di senso, elementi narrativi che sono un saggio più che convincente dell’acutezza della scrittura di Murnane.
Le pianure è quasi un libro senza trama e non ha, nell’idea dell’autore, una storia, classicamente intesa, da raccontare: eppure è un’opera con una forte carica magnetica proprio per questo, perché è un grande testo bianco, pieno di passaggi e luoghi da interpretare. Ma forse, e ancor di più, è un’interrogazione sulla letteratura, sulle sue possibilità e sui suoi limiti nel raccontare, e sui fallimenti dell’arte nel costruire rappresentazioni del mondo. Il tema dell’espressione artistica è molto presente in queste pagine, ma è sempre segnato dal fallimento: fallisce il tentativo di creare il film del protagonista, è fallimentare la rappresentazione delle pianure nell’immaginario dipinto “Declino e caduta dell’impero dell’erba“, fatto di forme imprecise e non corrispondenti al vero, così come fallisce il tentativo di un’orchestra di trovare “l’equivalente in musica del suono caratteristico del suo distretto”. Ma sta forse proprio in questa impossibilità l’unico modo per catturare la realtà, un risultato certo spezzettato e frammentario, e che rischia, ma forse è questa proprio la sua ricchezza, di aggiungere obiettivi ulteriori e suggerire nuove e inaspettate direzioni:
Seduto in mezzo a quegli uomini al crepuscolo, capisco che il loro silenzio afferma che il mondo è un’altra cosa rispetto a un paesaggio. Mi domando se qualcosa che ho visto sia un soggetto adatto all’arte. E mi sembra che i più perspicaci siano proprio quelli che distolgono lo sguardo dalle pianure. Eppure, l’alba del mattino seguente allontana questi dubbi, e nel momento in cui non riesco più a guardare quell’orizzonte che mi abbaglia decido che l’invisibile è solo ciò che è troppo illuminato.